Idillii spezzati/Il Crocifisso d'argento
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Il Crocifisso d’argento
— Contessa, il caffè — disse la cameriera.
La contessa non rispose. Le persiane erano chiuse, ma si poteva tuttavia vedere, sul velato candore del guanciale, il grazioso viso inclinato della giovane signora che dormiva.
La cameriera, ritta accanto al letto, col vassoio del caffè, ripetè più forte:
— Il caffè, contessa. La contessa si mise supina, sospirò ad occhi chiusi e sbadigliò:
— Apri un poco.
L’altra andò alla finestra senza posare il vassoio e, nel tirar la maniglia dell’imposta, rovesciò la tazza vuota sulla sottocoppa. — Piano! — fece la contessa, sottovoce, ma con sdegno. — Cosa fai stamattina? Dove hai la testa? Ecco che hai svegliato il bambino.
Infatti il piccino s’era svegliato, piangendo, nel suo lettuccio.
La signora alzò li capo dal guanciale e fece verso il lettuccio un imperioso: — Zitto!
Il bambino si chetò subito, non mise più che qualche breve vocina dolente.
— Questo caffè! — disse la signora. — Sei stata dal conte? Tien fermo! Cos’hai?
Cos’aveva, infatti, la cameriera? La tazza, la sottocoppa, la zuccheriera, il bricco e il vassoio susurravano qualche cosa di sospetto col loro tremolio. La contessa alzò gli occhi.
— Cosa c’è? — diss’ella posando la tazza.
Se il viso della cameriera era contraff’atto, quello della dama non era adesso meno turbato dallo sgomento e dall’incertezza.
— Niente — rispose la donna, tremante. La contessa le afferrò il braccio col vigore di una fiera.
— Parla — diss’ella. Intanto un bel visetto d’un bambino sui quattro anni comparve attento e muto sopra la sponda del lettuccio.
— Un caso, signora — rispose la cameriera, quasi piangendo. — Un caso di colèra.
La contessa, livida, si voltò quasi per istinto e vide suo figlio che ascoltava. Balzò dal letto, impose rapidamente silenzio alla cameriera, accennandole di passar nella camera vicina, e corse al lettuccio.
Il piccino ricominciava a piangere, ma ella lo baciò, lo accarezzò, scherzò e rise tanto con lui, che vinse le sue lagrime. Poi si mise in furia la veste da camera e raggiunse la cameriera, chiudendo l’uscio dietro a sé.
— Oh Dio, oh Dio! — diss’ella ansando, spasimando, mentre l’altra si metteva a singhiozzare.
— Zitto per amor di Dio! Guai a te se spaventi il bambino! Dov’è questo caso?
— Da noi, signora! La Rosa del gastaldo — rispose colei. — Le ha preso il male a mezzanotte.
— Oh Signore! E adesso?
— Morta! Morta mezz’ora fa. Il bambino strillava chiamando la mamma. — Va — disse la contessa — giuoca con lui, fallo stare allegro, fa tutto quello che vuole. Sta quieto, caro! — gridò. — Vengo subito!
Corse da suo marito.
La contessa aveva una paura cieca e folle del colèra. Solo la passione per il bambino era più cieca e più folle. Ai primi rumori del morbo era fuggita dalla città, col marito, nella sua villa, nello splendido podere da lei recato in dote, confidando che il colèra non vi sarebbe penetrato nel 1886, come non vi era mai penetrato prima, neppure nel 1836. E adesso lo aveva in casa, nel cortile rustico della villa.
Entrò, scapigliata e discinta, dal conte; e, prima ancora di parlare, diede al campanello due strappate furibonde.
— Lo sai? — diss’ella con due occhi spiritati. Il conte, che stava facendosi la barba flemmaticamente, si voltò, col pennello insaponato in mano, e presa un’aria stupida, rispose:
— Che?
— Non sai della Rosa?
Adesso il conte prese un’aria tranquilla e rispose:
— Sì, lo so.
Se sulle prime aveva nutrita un’ombra d’irragionevole speranza che sua moglie ignorasse ancora il caso della Rosa, gli parve poi che un contegno indifferente da parte sua dovesse rassicurare anche lei. Ma invece i begli occhi della signora gittaron lampi, una durezza selvaggia le comparve in viso.
— Lo sa — esclamò — e pensa a farsi la barba! Cosa sei tu? Che padre sei? Che marito sei?
— Oh Dio... — fece il conte allargando le braccia.
Prima che il pover’uomo, insaponato fino agli occhi e affagottato nella salvietta, sapesse trovare un’altra parola, il cameriere bussò all’uscio.
La contessa gli ordinò che nessun contadino del cortile rustico fosse lasciato entrare in casa e che nessuno di casa andasse nel cortile. Poi gli diede l’ordine per il cocchiere di tener pronto fra un’ora il landau con i cavalli che gli avrebbe detto il conte.
— Cosa vuoi fare? — disse questi, che intanto aveva ripreso fiato. — Non ammetto esagerazioni.
— Esagerazioni, hai il coraggio di dire? Sarò tua schiava in tutto, ma quando si tratta della vita, capisci, quando si tratta di mio figlio, non ascolto più nessuno. Partire subito, voglio. Ordina i cavalli.
Il conte s’irritò. Come si potevano spingere le cose fino a questo punto? Che convenienza c’era di scappare così? E gli affari? Fra due giorni, fra un giorno, via, fra dodici ore, sarebbe partito; prima no! La contessa non gli lasciava dir quattro parole senza ribatterle con la maggiore violenza. Che convenienza! Che affari! Vergogna!
— E la roba? — diss’egli. — Bisognerà bene prendere con noi qualche cosa. Ci vorrà bene del tempo!
Sua moglie fece un’esclamazione sdegnosa. Ella s’impegnava di allestire i bauli entro un’ora.
— Ma dove si va? — domandò ancora il marito.
— Alla stazione della ferrovia e poi dove vorrai tu. Ordina questi cavalli.
— Sono stufo — gridò il conte. — Ordino quello che pare a me. E dopo tutto vadano anche gl’interessi, vada tutto, cosa m’importa? È roba tua, già... Le saure!... — diss’egli rabbiosamente al cameriere che aspettava in disparte, impassibile.
Questi uscì.
La contessa si vestì e si pettinò in un lampo, giungendo spesso le mani negli slanci di tacite preghiere, spiccando ordini ad ogni momento, facendo correre per la casa i domestici a frustate frenetiche di campanello. Era un saltar su e giù di costoro per le scale, uno sbatter usci, un chiamarsi, uno sgridare, un ridere e un imprecar sommesso. Le finestre che guardavano il cortile funesto furon tutte chiuse subito, anche perchè non si udissero strillare le figlie della morta; pure un triste odor di cloro spirava già per la casa, copriva già nella camera della contessa il delicato profumo di Vienna ch’era come l’aura sua.
— Dio mio! — diss’ella rabbrividendo come se avesse odorata la morte. — Adesso m’ammorbano tutto. Presto nei bauli, presto nei bauli! E chiudere subito! Io muoio se porto via quest’odore. Non sanno che il cloro è inutile? Che brucino, che brucino tutto! Il padrone lo manderà via, il gastaldo, se trafugherà qualche cosa.
— Hanno già bruciato, contessa — disse una cameriera. — Il medico ha fatto bruciare lenzuola, coperte e pagliericcio. — Ci vuol altro! — replicò la contessa.
In quel punto il conte, sbarbato e vestito, fece irruzione in camera e prese a parte sua moglie.
— Cosa facciamo di questa gente? — diss’egli — Io non posso mica farli viaggiar tutti.
— Quel che vorrai — rispose la contessa. —
Mandali via. Qui in casa non ci resta nessuno di sicuro. Non voglio mica che prendano il colèra e che poi mi si appestino le camere col cloro e mi si bruci Dio sa quanta roba, perchè quando si tratta dei signori...
Il conte era arrabbiato di aver ceduto, adesso. — Bella figura — diceva — che si fa. È una vigliaccheria, una vergogna di scappare a questo modo!
— Ecco — rispondeva la contessa — come siete voialtri uomini! II comparir forti, il comparir coraggiosi vi preme più che la salute e la vita della vostra famiglia. Avete paura di perdere la popolarità! Non la vuoi perdere? Fa chiamare il sindaco e offri cento lire per i colerosi.
Egli proponeva allora di rimaner solo mentre lei partirebbe col bambino, ma non sapeva star fermo.
Intanto i bauli si empivano. I giuocattoli del bambino, i suoi vestitini più eleganti, il laudano, i libri di preghiere, gli opuscoli del dottor Tunisi, il costume da bagno, alcuni gioielli, la carta cifrata, le pellicce, le biancherie, molto del superfluo e poco del necessario, tutto era gittato dentro alla rinfusa. E poi i bauli, con grandi sforzi, si chiusero: e poi la contessa, seguita dal conte che dimostrava il più grande ardore di fare qualche cosa e non faceva niente, percorse tutta la casa aprendo cassettoni ed armadi, guardandovi dentro per l’ultima volta, chiudendo tutto a chiave di sua mano. Il conte dichiarò che sarebbe stato necessario di prendere qualche cibo prima di partire.
— Sì, sì, — diss’ella con ironia — prender qualche cibo! Adesso vi dirò io cosa prenderete!
E raccolti in una stanza suo marito e tutti i domestici, anche quelli ch’erano mandati alle case loro in licenza, perchè voleva il bene di tutti, li costrinse a prender dieci goccie di laudano per ciascuno. Il bambino ebbe del cioccolatte.
Finalmente la carrozza venne di gran trotto, dalla parte del giardino, a fermarsi davanti alla villa. Prima di scendere, la contessa, ch’era molto pia, si ritirò nella sua camera per un’ultima preghiera. Presa una sedia, v’inclinò su la persona chiusa in un costume attillato di flanella bianca, congiungendo sulla spalliera i guanti neri ad otto bottoni, coperti, al polso, di cerchi di platino e d’oro, alzò al cielo la penna del cappellino di velluto nero e gli occhi fervorosi, battè frettolosamente ed a lungo le labbra. Non disse al Signore una sola parola per le miserabili creature che avevano perduta la madre, né perchè il colèra risparmiasse le rudi vite incatenate nello stento alla terra potente che le aveva dato la sua villa, i suoi gioielli, i suoi abiti, il suo profumo di Vienna, le sue raffinatezze, il suo orgoglio, suo marito e suo figlio, il suo comodo Iddio. Non pregò neppure per sè. Ella, che vedeva già sè e i suoi colpiti dal colèra in viaggio, non volle pregare per sé e dimenticò di pregare per suo marito. Pregò per il bambino, si offrì per lui. Veramente le sue labbra non dicevano che de’ Pater, degli Ave e dei Gloria; ma l’anima sua era tutta nel bambino, nell’orrore che potesse essere colpito luì, nel desiderio intenso che non soffrisse neppure di questa partenza affrettata, di questo viaggio ancora ignoto, che non perdesse né l’appetito né il sonno, né l’allegria, né ì colori, che le riuscisse di tenergli nascosto ogni aspetto del dolore e del terrore altrui.
Si fece in furia il segno della croce, mise un grande mantello grigio e andò a chiudere l’unica finestra rimasta aperta. Il vento mattutino inclinava e cangiava davanti alla villa l’erbe mature del prato, corso da grandi ombre di nuvole, batteva le pioppe luccicanti del viale d’entrata. La contessa che lo stimava pieno di tradimenti, non ebbe uno sguardo di rimpianto per la pacifica scena famigliare a lei dall’infanzia; chiuse e discese.
Presso allo sportello della carrozza, il Sindaco parlava col conte. — Viene dì là? — diss’ella indietreggiando. Udito che veniva di casa sua, inveì contro di lui che non aveva saputo tener lontano il male. Egli sorrideva e si giustificava, ma la signora rispondeva confusa: — Niente, niente; — e si affrettò a salire in carrozza col bambino.
— Hai dato? — diss’ella sottovoce a suo marito, quando egli pure fu a posto. Questi accennò di sì.
— Debbo ringraziare anche la signora contessa — cominciò allora quell’umile Sindaco -— della generosità...
— Miserie, miserie — interruppe il conte, non sapendo quel che diceva.
Adesso che tutti erano in carrozza, la signora fece una rapida rassegna delle borse, dei nécessaires, degli ombrelli, degli scialli, dei soprabiti. Intanto il conte porse il capo a guardar se i bagagli fossero a posto nel barroccio sopraggiunto dietro il legno.
— È fatto? — diss’egli. — E cos’ha quel marmocchio?
— Chi piange? — esclamò alla sua volta la contessa, buttandosi quasi fuori del legno.
— Fatto, signor sì — rispose un contadino che era stato chiamato in aiuto ai domestici.
Un ragazzetto cencioso gli stava attaccato ai calzoni singhiozzando.
— Va là, taci — gli disse il padre aspramente, e, volto alle signorie loro riprese:
— Fatto tutto.
Il conte si cacciò una mano in tasca, guardando il ragazzo.
— Non romper l’anima — diss’egli — che ti darò un soldo anche a te.
— La mamma ha male — singhiozzò il ragazzo disperatamente. — La mamma ha il colèra!
La contessa diè un balzo, menò l’ombrellino, con un pauroso viso di follìa, sulle spalle del cocchiere.
— Via! — gridò. — Via! Via subito!
Quegli frustò i cavalli che s’impennarono con fracasso e presero tosto il galoppo. Il Sindaco fu appena in tempo di scansarsi, il conte fu appena in tempo di gittar a quell’uomo una manciata di soldi che si sparpagliarono a terra. Il ragazzo smise di piangere, l’uomo non si mosse, guardò dietro alle ruote scintillanti, agli ombrellini grigi, che si allontanavano rapidamente nella polvere, e disse fra i denti:
— Maledetti porci di signori.
Il Sindaco se n’andò quatto quatto, facendo le viste di non aver inteso.
Colui era di statura e d'età mezzana, magro e livido in viso, con una sinistra guardatura di malvivente. Gli abiti gli cadevano a brandelli come a suo figlio. Gli fece raccattare i soldi e poi si avviò a casa con lui.
Abitava, nel cortile di una fattoria della contessa, un tugurio di mattoni sgretolati, senza intonaco, fra il letamaio e i porcili. Un fossato nero di putridumi senza nome, gli puzzava sulla porta, sotto un pezzo d’asse marcia, buttato là per ponte.
Si entrava in una caverna nera, lurida, senza pavimento, con un focolare di mattoni, tutto smozzicato all’ingiro, incavato nel mezzo dalle ginocchia villane di chi gli faceva cuocere la polenta. Una scala di legno, mancante di tre scalini, saliva alla camera, fetida di miseria e di vecchiume, dove padre, madre e figliuolo dormivano in un letto. Presso al letto si guardava giù, per il pavimento sfondato, in cucina. Il letto stesso era stato tirato per isghembo al solo posto dove, quando pioveva, non battessero le gocce dal tetto.
Accasciata a terra, abbandonando il capo alla sponda di quel letto stava la contadina presa dal colèra; una povera vecchia faccia di trent’anni, ch’era stata florida a venti e aveva ancora la bellezza di una mansuetudine santa. Suo marito, al primo vederla, capì cos’era e cacciò una bestemmia. Anche il figlioletto che lo seguiva, quando vide il viso nerastro di sua madre, ebbe paura e si fermò sull’entrata.
— Gesù Signore, mandalo via — mormorò la donna con voce fioca. — Mandalo via che ho il colèra. Va dalla zia, caro. Conducilo via tu e chiamami il prete.
— Vado — disse il marito.
Discese, spinse il ragazzo verso il cancello del cortile, ripetendogli:
— Va! Va dalla zia.
Poi andò sotto il porticato della fattoria, ne ritornò con una bracciata di paglia, se la portò in cucina, e risalì da sua moglie che s’era potuta, intanto, rovesciare con grande sforzo sul letto.
— Senti — diss’egli con insolita dolcezza — mi rincresce, ma se muori qui ci bruciano il Ietto, capisci? Pensaci. Ti ho portato della paglia in cucina, un bel mucchio.
Ella perdeva rapidamente la voce, non poteva più farsi intendere. Accennò fervorosamente di sì con la testa e fece uno sforzo inutile per scender dal letto. Allora l’uomo la prese in braccio.
— Andiamo — diss’egli. — Se creperò anch’io ci vorrà pazienza.
L’inferma lo pregò a gesti di darle un piccolo crocifisso d’argento, appeso alla parete, e, avutolo, vi affisse avidamente le labbra, discese come un corpo morto sulle braccia di suo marito, che l’adagiò alla meglio sulla paglia e andò in cerca del prete.
Allora anche la miserabile, sola come una bestia carbonchiosa sulla paglia già infetta, prima di partire per il mondo sconosciuto, pregò. Pregò per l’anima propria con umile contrizione, convinta di aver molto peccato benché non avesse a ricordar come, torturata da questa impotenza. Venne, mandato dal sindaco, il dottore, che aveva paura; la vide spacciata, disse: — rhum, nè marsala, già non ne avete — le ordinò dei mattoni caldi sullo stomaco, pose il sequestro e partì. Venne il prete, un cappellano che non aveva paura, le disse rozzamente, con la tranquillità dell’abitudine, ciò che chiamava le solite cose, oscurandone, con la sua parola, il divino; che, guasto com’era d’ignoranza e d’inopportune durezze, pure empì di sereno e di luce la moribonda.
Compiuta l’opera sua, anche il prete partì. Mentre il marito, levatole di sotto le spalle poche manate di paglia, aveva acceso il fuoco per riscaldare i mattoni, la donna pregò ancora, per i suoi; non così fervidamente per il fanciullo come per l’uomo cui aveva perdonato tanto e ch’era sulla via della perdizione eterna. Finalmente, baciando il crocifisso, un movimento del cuore le ricordò la persona da cui le veniva.
Glielo aveva regalato, sedici anni addietro, per la sua cresima, la contessa; la padrona della splendida villa dov’era una gioia di vivere e del tugurio immondo dov’era una gioia di morire. La contessa era una bambina in quel tempo e avea donato il crocifisso alla figliuola del bifolco per suggerimento di sua madre, della contessa d’allora, una mite donna, morta da un pezzo e non dimenticata dalla povera gente.
La moribonda si era confessata d’aver pensato male dei padroni, e anche d’averne qualche volta mormorato, facendo consentire suo marito a bestemmie, perchè, malgrado suppliche e suppliche, mai non le avean fatto riparare il tetto né il pavimento, né la scala, mai non le avean fatto mettere le impannate alle finestre. Adesso si pentiva, si ricordava della buona padrona vecchia, domandava perdono, nel suo cuore, al signor conte e alla signora contessa, pregava Dio e la Madonna per essi.
Nello stesso momento in cui l’uomo le posò sullo stomaco i mattoni, che scottavano, ella ebbe una contrazione, uno spasimo di tutto il corpo e spirò.
Egli le buttò della paglia sul viso nero, le tolse, a stento il crocifisso di mano, e se lo cacciò in tasca, brontolandogli come ad un buono a nulla; — per quello che le hai fatto, Cristo! — e tacendo il resto del suo pensiero. Ma né lui sapeva né noi sappiamo che avesse fatto il piccolo crocifisso tante volte baciato e invocato dalla poveretta; ancor meno sappiamo quale occulta benedetta via potrebbe fare in avvenire il pensiero pio, nato nel cuore di una vecchia dama, disceso a una bambina innocente e quindi risalito in gratitudine, riacceso in preghiera dentro uno spirito vicino e caro alla Infinita Pietà.
Quella sera stessa i servitori che dovevano andare a casa in licenza durante il viaggio del conte e della contessa, si ubbriacarono, nel salotto della villa, di marsala e di rhum.