I suicidi di Parigi/Episodio terzo/VIII

Episodio terzo - VIII. Il ballo del 29 novembre e la prefazione

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VIII.

Il ballo del 29 novembre e la prefazione.

La sera del 29 novembre giunse.

Alle nove della sera, un piccolo coupé si fermò innanzi ad una porta nella via Blanche. Un signore ne scese, salì al terzo piano, suonò. Una ragazza aprì, ed annunziò:

— L’è il signore.

Sergio di Linsac — era desso — entrò, cappello in testa, dritto dritto nella camera da letto.

La cameriera, che gli aveva aperto, lo seguì, per continuare a prestare la sua assistenza alla padrona, la quale era in via di terminare la sua toilette.

Era di già pettinata, e Luisa le infilava le calze.

— Non ti aspettavo — disse Morella, la padrona della dimora. Vieni tu per qualcosa?

— Lo credo bene. Vengo a passare in rivista l’esercito, ispezionare le armi ed aggiungervi questo cannone alla Paixant.

E, ciò dicendo, le presentava un ferretto di diamanti a foggia di stella.

— L’è proprio bello — sclamò Morella. E vado a collocarlo, all’istante, nel suo empireo.

— La tua fronte l’ecclissa, Morella — rispose Sergio, baciandola.

— Tanto meglio se l’è così. Ne saresti tu già ai concettini, con me?

— Come? tu dici ciò all’uomo che ti à presentato il tuo bastone di maresciallo?

— Di meglio: che mi à cacciato nella mischia per guadagnare la battaglia. Come trovi tu questa veste? [p. 247 modifica]

— Giammai demonio non prese meglio le penne di cherubino.

— Lasciami in pace con le tue inezie di demoni e di cherubini. Sono io bella?

— Ahimè!

— L’insieme è armonioso!

— Irresistibile.

— Se indicassi l’ombra appena di un neo, qui, in giù della guancia... per fare osservare come essa si arrotonda soavemente sulla mascella inferiore?

— Non aggiungere nulla di nulla. Vattene, Luisa. L’è finita. L’è perfetta. Dio sarebbe geloso, o innamorato, dell’opera sua — se fosse la sua!

— Insomma? — chiese Morella, quando la cameriera fu uscita.

— Morella, io non tenterò più di piegarti.

— E fai bene. Ti dicono, pertanto, uomo di spirito! Scrivi dei libri che pretendono rivelare il cuore umano! Esci dunque dall’assurdo. Io non ò che diciannove anni. Non ò, per conseguenza, che undici anni innanzi a me, per occuparmi di altro che di amore. Ritorna quando avrò trent’anni. Vedremo allora. Ma inocularmi adesso quella melanconia! grazie: la sbiada il colorito.

— Tu menti in questo momento. Io so, e ciò ti basti, che tu ami altrove.

— In ogni modo, ciò sarebbe per conto mio proprio. Ma non ritorniamo su queste tristezze. Puoi tu spendere dugento mila franchi l’anno per me? No. Vattene allora! Tutto è detto. Io ammagrisco al regime di 2000 franchi al mese. Tu mi ài fatto un ospizio, con codesto, e non un altare. Ora, la natura non mi à regalati questi occhi qui, questa bocca, questa testa, questo collo, questo seno, questa vita, tutto questo splendore, in una parola, per metterlo milensamente a codesta pietanza da invalido. Io non intendo che due cose: o degli stivaletti squarciati trascinati nel fango, o una costellazione. Gli stivaletti squarciati sono una sventura; un terzo piano nella strada Blanche è una dappocaggine. Parliamo dunque d’altro.

— Allora, l’è un addio per sempre?

— T’inganni, Sergio. Io non dimenticherò giammai che tu mi prendesti piccola contadina d’Arles, e che mi ài fatta [p. 248 modifica]ciò che sono. Io ti debbo tutto: gusto, parlantina, ambizione, istruzione, scienza della bellezza, aspirazione, poesia, conoscenza del mondo. Io era forse una perla; tu ne ài fatto un gioiello, un monile. Io resto tua amica, tua obbligata. Lasciami adesso collocare a modo mio il capitale che Dio mi à dato: la bellezza e l’amore! ed il capitale che tu vi ài aggiunto: l’arte! Io conosco il valore di ciò che posseggo, ora.

— Non far dell’usura, almeno.

— Tu dici codesto, tu? Come! Si danno 2000 franchi ogni sera alla Grisi, per una cabaletta, senza menar scalpori, e si trova enorme se io domando la metà di quel prezzo? Ma cosa è dunque un gorgheggio in paragone di un bacio di queste labbra, vedi! di queste labbra, il cui soffio è come la parola di Gesù a Lazzaro: vivi! In verità, gli uomini sono idioti!

— Morella — osservò Sergio, dopo un momento di riflessivo silenzio — io sono felice della scelta che ò fatto e dell’ispirazione che ò avuta. Tu mi farai onore; ed io non dubito del successo. Terrai il tuo posto con bravura. Io ti rimpiangerò sempre, ma meno se sei fortunata.

— Parliamo d’affari allora, e formola le istruzioni che vieni a darmi. Tu ài detto che io entrava nella carriera della diplomazia?

— Vi sei di già.

— Che io era al servizio di un’Altezza, da cui il sotto ambasciadore di Russia teneva il suo mandato?

— Te lo confermo.

— Che io doveva ammaliare un bel giovane?

— Egli è anzi troppo bello — ed io ò paura che tu ne diventi amorosa e che ci tradisca.

— Decisamente, tu ài una cattiva opinione di me. Rassicurati, allora: io amo di già. Non se ne amano due alla volta.

— Tu l’ami dunque davvero?

— Al punto, che io non mi lamenterei degli stivaletti rotti per andarlo a vedere.

— Lo compiango: tu ne farai un idiota.

— Ciò mi riguarda. Io pretendo farne un angelo del paradiso. Ma dimmi il nome della vittima che gittate nei miei artigli. [p. 249 modifica]

— È il duca di Balbek.

— Lo conosco... e l’odio.

— Come ciò?

— Un quindici giorni fa, io era sola — sola in un palco agl’Italiani. Quasi rimpetto a me, quel duca aveva passato la sera con una giovane e bella fanciulla — che debbe essere probabilmente sua moglie. Egli mi aveva sbirciato tutto quel tempo, quantunque io torcessi sempre il capo con dispetto. Scendendo la scala, per azzardo, mi trovai innanzi a loro. La giovane mise il piede sulla mia veste. Io mi volsi. Ella mi disse graziosamente: Mille scuse, signora! Allora quel facchino di duca le mormorò all’orecchio — ma non sì basso che io non l’udissi: Non tanta cortesia con quelle creature! La giovane indietreggiò, quasi si avesse toccato un colubro. Io li squadrai entrambi con insolenza, e dimandai al vicino: Chi conosce qui questo pezzo di tanghero?

— Zitto! fe’ qualcuno: gli è il duca di Balbek, ambasciadore di un re non so dove! Essi erano passati; ma avevano dovuto udire il mio motto.

— Questo precedente è spiacevole.

— Dite, propizio. Allora?

— Ebbene, figlietta mia, vendicati in questo caso. Te lo abbandoniamo, corpo ed anima. Impadronisciti di lui, fatti amare, e... divoralo!

— Egli sarà dunque al ballo?

— Si dà il ballo per farvi incontrare. Il principe di Lavandall ti farà la corte per isvegliare l’emulazione di quello sciocco. Tu farai trionfare il duca sul principe.

— Ed in seguito?

— In seguito, tu sarai riserbata, ma non respingerai le proposizioni.

— Le farà desso codeste proposizioni?

— Il tuo specchio non ti dice dunque ch’ei non sarà mica il solo a fartene? Però, egli deve essere l’eletto — vedessi tu ai tuoi piedi il duca di Orléans od il barone di Rothschild.

— Sta bene. Quale è poi la mia missione?

— Amor mio, tu sei un graffio che noi gettiamo su quell’uomo. Noi non abbiamo che uno scopo: ridurlo alla miseria. I mezzi ti riguardano. Dugento mila franchi di pre[p. 250 modifica]mio per te, se riesci. Noi ti lanciamo su di lui come Dio sguinzagliò Satana sopra Giobbe.

— E poi?

— Poi... io non ne so mica più di te.

— Che fortuna può egli avere?

— Oh! e’ non è ricco. Se tu gli estrarrai cinquecento mila franchi in oro dal cuore, e’ sarà lì per depositare le armi.

— Non tregua?

— Neppur di un secondo. Tu sei una macchina che lo à preso nel suo addentellato, e da cui Dio stesso non lo potria più distrigare. Pompa, pompa, pompa sempre.

— E quando sarà tapino come un tapino irlandese?

— Ti comunicherò gli ordini che mi si impartiranno. Ricordati solo, che tu non sei mica una volontà, ma una fatalità.

— Che parte debbo io assumere?

— Osserva le manie dell’uomo, e decidi. Ma non mi sembra avere colui dei gusti che olezzino l’ideale. Tu sarai baccante. E ciò lo trasporterà.

— Riserbo ciò per colpo di grazia, quando vedrò il sangue schiumar sulle sue labbra. Andiam per gradi. L’è detto. Ecco tutto. Le undici e mezzo. Me ne vado.

— Non importa! io ò dei rimorsi. Io so che in queste trame sataniche i pesci cani si aprono sempre una via e che l’è sempre la povera mosca — la donna! che soccombe. Dio ti sia in aiuto, Morella. Io ti amo.

— Va a metter ciò in versi: l’è grazioso. Ma non esser inquieto per me, no: io sono di acciaio — mi si può torcere, ma non spezzare.

— Io mi sovvengo di un’altra vittima. Addio.


Il ballo di madama Thibault si componeva di due categorie di persone: gli attori e gli spettatori.

Gli attori erano una ventina di giovani dei due sessi, cui alcuno non conosceva ed alcuno non curava conoscere — i ballerini. Le damigelle erano state scelte di una bruttezza sufficiente per non far macchia e servire di rilievo alle vere bellezze.

Questo coro della festa era vestito di bianco, senza gioielli, con qualche fiore nei capelli, ed ecco tutto. [p. 251 modifica]

Non vi era da sbagliarci sul suo ufficio.

La categoria degli spettatori era altra cosa. Lo zio Pradau li aveva dipinti con esattezza.

Madama Thibault abitava adesso un padiglione in fondo ad una corte, nel Faubourg St. Honorè. Al padiglione si annetteva un piccolo giardino. E tutto ciò era ricco e civettuolo.

I saloni, o piuttosto la Borsa, eran già stivati di gente, quando Morella arrivò.

La stessa parola spruzzò, nel medesimo tempo, da tutte le labbra: Ecco la regina!

Infatti, Morella era alta abbastanza per spiegare l’eleganza squisita della sua taglia, ma non troppo per imporre, come una Semiramide di Opéra. Il suo colorito aveva quella pallidezza bianca ed abbagliante, piena di salute, che indica l’armonia delle funzioni della vita, la perfezione degli organi. Una pelle vellutata e fina, simigliante all’alito di una bambina che dorme. Il suo lungo sguardo nero era impregnato di languore, ma si animava per raggi, e dava delle scosse come una macchina elettrica. Nulla poteva eguagliare la freschezza, la grazia, la soavità della sua bocca, ove la voluttà sorgeva come Venere dalla schiuma del mare. La sua fronte, alta, levigata, bianca come l’Olimpo di Omero, sarebbe stata davvero il trono di un’anima — se Morella ne avesse avuta una. Il suo sorriso un po’ lento penetrava come l’odore della magnolia. Il suo collo, il suo petto, le sue braccia nude allumavano gli sguardi e scoloravano i sembianti. Satana vi scoppiettava con la sua muta furibonda di desiderii.

Morella era una provocazione. Ove ella poggiava lo sguardo, feriva; ove ella fermava la sua volontà, prostrava.

Come contrasto a quella provocazione — che sembrava emanar da lei involontariamente — le sue maniere erano dolci, molli, gravi: la cimbalina di Dio si rivelava in sibarita!

La sua voce era armoniosa, ma si lasciava dietro le vibrazioni che seguono una corda che si spezza.

In una parola, Morella sarebbesi detta una cattiva azione della provvidenza. Era un calappio, come la datura strammonio — il di lui fiore incanta lo sguardo ed uccide. [p. 252 modifica]

Si danzava già in un salone.

In un gabinetto, taluni, fra cui il dottore di Nubo, giocavano al baccarat a tutto vapore.

Sotto il pretesto del caldo e della folla, una mezza dozzina di odalische — le men belle, tariffate al di sopra dei 60,000 franchi l’anno — si erano ritirate in un altro salone che dava sul giardino. Una dozzina di uomini — i quali avevano quasi tutti passato il capo fatale dei quarant’anni — folleggiavano intorno a quelle bellezze — alle quali madama Thibault li aveva presentati.

Il duca di Balbek trascinava uno sguardo noncurante su quello splendido mazzetto, meditando un attacco sopra una magnifica Polacca, la quale, a sua volta, lo avviluppava del suo sorriso. Il principe di Lavandall stuzzicava i lunghi ricci neri di una giovine miss irlandese, che aveva l’aria innocente di Eva nel paradiso.

In quel momento si udì nei due saloni una specie di brulichìo? paragonabile a quello della brezza nelle foglie della foresta.

Tutti gli sguardi si volsero verso la porta.

Era Morella che entrava, e madama Thibault che si precipitava al suo incontro.

L’effetto, l’ò detto, fu completo.

Il primo che sollecitò a dimandare di essere presentato, fu il principe di Lavandall. Il duca di Balbek, che l’aveva riconosciuta, e si rammentava la scena agl’Italiani, arrossì.

Morella fece vista di non scorgerlo.

— Ahimè! madamigella — le susurrò il principe — ora che vi vedo, rimpiango di non essere la fortunata vittima che i vostri sguardi debbono immolare.

— Che ciò non vi arresti, mio principe — disse Morella ridendo; io sono di forza da farne due delle vittime.

— Non si potrebbe trovare un modo di transazione, madamigella?

— Oh! no, caro principe. Non v’è che i piccoli bancarottieri che transigano. Io, io fo saltar la banca, netto, o pago a cassa aperta.

La padrona della casa presentò il duca di Balbek.

— Madamigella — disse costui — v’ànno salutato, entrando, del nome di regina. Permettete ad uno dei vostri [p. 253 modifica]umili sudditi di mettere ai vostri piedi la sua sincera divozione.

— Vedi mo’! e’ sembra che il signor duca abbia un dizionario secondo le latitudini parigine: la creatura dei Bouffes è regina qui! Cosa sarei nel mio palazzetto, signor duca?

— Permettetemi che vada a dirvelo, ed a farvi le mie scuse.

— E perchè no qui? Il signor di Lavandall è buon giudice.

— Io sono troppo vecchio, madamigella, per entrare in questa mischia. Non si corre più quando si à la podagra. Siete voi fortunato, signor duca!

— Adagio, signore, adagio, non cercate svignarvela. Io sono pigra, io: amo la podagra.

E dicendo ciò, Morella salutò leggiermente il duca di Balbek — il quale restò pietrificato — e condusse il principe nel giardino. Ma cinque minuti dopo, rientrarono, e M. di Lavandall le presentò il conte di Kormoff suo amico.

Morella si assise sur un canapè, con il conte, vicin vicino al duca di Balbek, cui volse il dorso.

— Parola d’onore, madamigella — disse il conte rispondendo ad una dimanda della giovane donna — il freddo di Siberia è un pregiudizio europeo. In ogni caso, io m’impegno a percorrerla, senza pelliccia, in toilette da ballo, in pien gennaio, se voi siete a fianco a me.

— E si dice che i Cosacchi sono dei barbari! ma essi fan quasi quasi dei madrigali. Gli è vero che il signor conte non è ambasciatore di un re, per avere il diritto di essere insolente — soggiunse Morella a voce alta.

Il signor di Balbek si contorceva e taceva.

Morella riprese il braccio del principe di Lavandall, per fare un giro nella sala di danza.

Il duca si alzò anch’egli e la seguì lentamente, di lontano.

L’ambasciatore di Spagna, che si trovava a fianco a lui con la Polacca, gli disse sorridendo:

— Caro duca, il Russo vi dà scacco e matto: lasciate la partita. [p. 254 modifica]

— Non l’ò impegnata: non posso dunque lasciarla.

— Allora, non impegnatela. Le donne ammattiscono per le mine dell’Oural.

— Voi avete ragione forse, marchese. Ma ben sovente, elleno si servono delle mine per comprarsi degli aranci.

Morella, che trovavasi innanzi a lui, l’udì e domandò al principe di Lavandall:

— Principe, se vi dessero a scegliere tra un orso ed un pappagallo, quale dei due scegliereste voi?

— Se io fossi donna, il pappagallo.

E dicendo ciò, le presentò lord Warland — al braccio di cui la confidò — essendo stato chiamato dall’ambasciatore di Turchia, che volle presentargli Fernandina — un’altra regina del ballo che faceva il suo ingresso.

Ora lord Warland non parlava il francese e Morella non capiva l’inglese. Lord Warland era parecchie volte milionario ed aveva la rabbia di parlare alle belle donne — egli che poteva vantarsi di essere uno degli uomini i più brutti di Europa! — di cui era fiero, del resto. Infatti disse:

Mademoiselle, all the ladies fly away from me. You are the first one, this evening, who consents to take my arm. I was wrong not to come here wrapped in a mantle of banknotes.

Morella l’ascoltava a grandi occhi aperti.

Il duca di Balbek, che le era vicino, sorrise. Morella lo vide, gli si volse e gli chiese:

— Il signore vorrebbe farmi l’onore, se comprende l’inglese, di tradurmi codesto?

— Milord à detto, madamigella — rispose il duca salutando — che tutte le dame lo fuggono, e che voi siete la prima che abbiate consentito ad accettare il suo braccio. E milord aggiunse: che egli à avuto torto di non venire qui avviluppato in un mantello di banconote.

— Milord, voi avete fatto benissimo, al contrario — rimbeccò Morella — avreste potuto correre il pericolo di pigliar fuoco.

Milord guardò il duca, a sua volta, per pregarlo di tradurre la risposta — e rise a scoppiare quando il duca gli disse:

You have done well, because you could have taken fire. [p. 255 modifica]

Lord Warland si allontanò fregandosi le mani e ridendo sempre.

Il duca di Balbek offerse allora il suo braccio a Morella.

Ella non l’accettò ed andò a sedere sur un divano. Il duca le si mise a lato.

— Voi siete dunque inesorabile, madamigella?

— Per i delitti no, signor duca; per le sciocchezze, sempre. Un delitto può avere della grandezza; la sciocchezza è infallibilmente meschina.

— Io ò potuto aver ben torto, madamigella e non mi scuso. Ma, in tutti i casi, voi ne conservate un rancore côrso. Vi siete burlata di me tutta la sera.

— I piccoli ànno anch’essi il loro giorno, signor ambasciatore. Però, al postutto, che v’importa il mio risentimento?... Sono io... l’imperatrice delle Russie, io?

— La Russia vi apparisce sotto tutte le forme, madamigella. Vi siete voi stata?

— No: ma essa mi colpisce. La Francia, l’Alemagna, l’Inghilterra, l’Italia, la Spagna si rassomigliano più o meno. La Russia è la Russia. Essa vi aspira come l’immensità del mistero. Ed i Russi, signore, sono tutto ciò che vorrete — eccetto meschini! Il profilo del loro paese si imprime forse nello sguardo loro dalla nascita, e vi lascia l’immagine del vago e del colosso.

— È da molto che conoscete il principe di Lavandall?

— L’ò visto stasera per la prima volta. Ma e’ mi sembra che noi fossimo amici da dieci anni. Egli è il solo uomo che io mi abbia distinto qui.

— Davvero?

— Sì: e convenitene pur voi. Il signor di Lavandall ed il signor Kormoff sono qualcuno qui: noi siamo il genere umano — chiunque! Si sente che sono di già partiti. Essi àn lasciato qui un vuoto.

— Voi siete così invaghita dei Cosacchi, madamigella, che io sento dover rinunziare a piacervi.

— Rinunziare, signore, implica qualche cosa che significa cominciare. Ebbene, non cominciate. I Cosacchi danno forse lo knout ad una donna. Non la chiamano cantoniera!

— Ancora?

— Ma! voi non esistete ancora per me che sotto questo [p. 256 modifica]aspetto. Ah! ecco lì l’Inglese. Bisogna che io lo bisticci un tantino.

— In inglese?

— E poi? Vedete! gli è adesso un’ora dopo la mezzanotte. Ad un’ora e venticinque minuti, prima che io me ne vada, il mio inglese parlerà francese come Victor Hugo. Quell’uomo mi garba.

— A causa del suo mantello?

— E perchè no? Non à quel suo mantello chi vuole, signor duca. Ma la sua bruttezza mi fascina. Eh sì! la bellezza? ne ò pieni gli occhi: l’è tutto specchi in casa mia! La mediocrità? pouah! Il mio proprietario à domandato di sposarmi, presentandomi il suo ultimo ricevo del fitto. Fare dei figliuoli e rosicchiare 30,000 franchi l’anno con lui, per quarant’anni! Piuttosto la Senna! Se il volgare mi avesse sedotto, signore, sarei restata a confezionar cappellini ad Arles.

— Ah! voi siete di Arles?

— La donna non è di alcun paese. Ella è bella o brutta — del cielo o dell’inferno. Allora, fra otto giorni, tutta Parigi conoscerà il mio Inglese. Che se ne vada; ognuno sclamerà: guarda! l’inglese è partito dunque? Che noi ce ne andassimo, alcuno non se ne accorgerà.

Il dottor Nubo entrò allora nel salone e venne a salutare il duca. Egli squadrò fisamente Morella e disse:

— Che tigre reale! Gli è per questo che io sentiva l’odore di carne fresca. Attento a voi, caro duca.

— Io non sono una scienziata in storia naturale — rimbeccò Morella, con un sorriso grazioso, ma che aveva gli artigli di acciaio. Vedendovi, però, signore, io m’immagino contemplare uno di quei vecchi vasi di Faenza degli speziali di una volta — quei vasi il di cui smalto abbarbagliava, i di cui geroglifici intrigavano, e che contenevano delle droghe velenose, talvolta della vipere.

— Benissimo, benissimo, piccina. Tu ài la stoffa per divenire una duchessa.

— Voi siete terribile, madamigella — osservò Balbek. Vi si punge e voi ferite a morte.

— Oh! si à dunque la vita così tenera qui?

— Addio, madamigella. Io non oso neppure pregarvi di cessare la guerra contro un vinto. [p. 257 modifica]

— Davvero, signor duca? Bah! Il principe di Lavandall, lui, mi avrebbe forse abbracciata o strangolata.

Il duca uscì come un lampo dal salone, trasportando nel cuore quest’ultima freccia avvelenata.


L’indomani, Morella aspettava il duca, alle due.

La sua previsione era giusta.

All’una e mezzo egli sonava alla sua porta.

Il destino lo spingeva.