I suicidi di Parigi/Episodio terzo/VII

Episodio terzo - VII. L'estetica della livrea insegnata nell'anticamera

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Episodio terzo - VII. L'estetica della livrea insegnata nell'anticamera
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VII.

L’estetica della livrea insegnata nell’anticamera.

Egli aveva bello chiamarsi Pradau, come si era chiamato di cento altri nomi in Russia, in Polonia, in Austria, in Turchia, in Italia. Egli aveva bello azzeccarsi delle basette troppo scure, dei capelli neri con una cresta a mo’ di Luigi Filippo, a bellettarsi come il famoso duca di Brunswick... Egli non si sottrarrà ai nostri sguardi come a quelli della polizia. Egli sarà per noi ciò che è: il babbo Tob, il capo degli zingari. Egli non è meno adesso, che quando si chiamava babbo Timoteo, l’intendente di madama Augusta Thibault.

Egli non à perfezionato il suo carattere, e non à aumentato nella nostra stima, in proporzione che à aumentato la sua fortuna, i suoi talenti, le sue relazioni sociali.

Aspettando la risposta dell’ambasciadore, e’ chiese di dir buongiorno a M. Claret, l’intendente del duca di Balbek, cui egli aveva incontrato nel mondo.

E’ chiacchiera adesso con quel degno uomo. Di che?

Ascoltatelo, se vi piace. Messer Tob è sempre istruttivo come i libercoli pii dei RR. PP. dalla Società di Gesù.

Passiamo i complimenti e le informazioni piene d’interesse sulla salute di M.me Claret.

— Io ve lo affermo, M. Claret, voi dovete cambiare il cameriere del vostro padrone, per l’onore della casa e per rispetto di voi stesso.

— Ma, signore, il duca è contento del suo cameriere. [p. 238 modifica]

— Ciò si può — io anzi lo comprendo. Ma noi, noi non ne siamo mica contenti. Egli abbassa la nostra classe.

— Che mi dite voi dunque, père Pradau?

— Mio Dio, sì: nè più, nè meno! Quando io mi sono deciso — io, cittadino libero del bel regno di Francia e di Navarra, ad entrare nell’ordine sociale detto — molto impertinentemente e molto impropriamente — dei domestici, io ò studiato la legge fondamentale e costituzionale di questa classe — i nostri principii dell’89, a noi, che!

— Spiegatevi un poco più chiaro, père Pradau.

— E voi state attento M. Claret. I nostri antenati ci avevano legato delle tradizioni eccellenti, cui la monarchia borghese ci à fatto perdere. Perocchè la legittimità dei lacchè à naufragato nelle giornate di luglio con la monarchia legittima del ramo primogenito.

— Ciò potrebbe ben essere, père Pradau.

— Ciò è, M. Claret. Un grande spirito del secolo scorso, un gentiluomo, il signor di Montesquieu à detto in qualche parte1: «Questo corpo dei lacchè è più rispettabile in Francia che altrove: egli è un semenzaio di grandi signori; ricolma i vuoti degli altri stati. Queglino che lo compongono, prendono il posto dei Grandi sgraziati, dei magistrati ruinati, dei gentiluomini uccisi nei furori della guerra, e quando non possono supplire da sè stessi, rilevano tutte le grandi case per mezzo delle loro figlie, le quali sono come una specie di fumiere che ingrassa le terre montagnose ed aride.»

— Catteri! catteri! che l’è bello! — sclamò M. Claret.

— Non è vero? — riprese lo zio Pradau. Ma non deploriamo più codesto — avvegnachè avessimo a rassegnarci, con rammarico, a non più battere le scolte di notte; a non più bastonare il borghese; a non far comunella con lo studente, ed a fare, in virtù d’un principio passato in consuetudine, i figliuoli dei nostri padroni.

— Eh eh! mica sovente, père Pradau.

— Di chi la colpa? Una cosa non pertanto era restata in piedi in questa ruina delle istituzioni dei nostri padri: che il domestico avrebbe servito il meno possibile il suo padrone e si sarebbe fatto il più possibile servire da lui. [p. 239 modifica]Un articolo essenziale della nostra Carta non era stato mai violato — ed i nostri confratelli dell’altro lato dalla Manica, quei perfidi Albionesi, vi tengon sodo — quello, che interdice d’invadere sulle funzioni del suo collega. Consultate a questo proposito la storia. Io leggeva, non à guari, in un vecchio libro, che un re di Spagna — un Filippo o un Ferdinando, non mi ricordo più quale — assiso vicino al camino, dimandò un giorno ad un duca di Lermes di mettere un ceppo nel focolaio.

— Un ceppo nel focolaio!

— Sissignore. Il duca di Lermes obbedisce. Il ceppo si infiamma. Il re à troppo caldo alle sue gambe e chiede al duca di scostare la sua seggiola. — Mi scusi, sire, risponde il duca di Lermes, gli è il conte di Lemos che à il diritto di toccare la seggiola di Vostra Maestà. Si cerca il conte di Lemos. Egli è alla caccia. Il re si abbrustola infrattanto, ma non osa più ordinare al duca di Lermes di allontanarlo dal camino. Il duca non osa invadere le funzioni del conte di Lemos. Sì bene che, quando questi ritornò dalla caccia, le gambe del re erano rosolate come una costoletta — e ne morì. Ecco come si conducevano i nostri padri; ecco l’esempio dei nostri antenati2!

— Come è nobile codesto, birbo ch’io sono!

— Ebbene, io ò visto — visto dei miei occhi, dei miei propri occhi, M. Claret — io ò visto mastro Robert, alla porta dell’Opera, in presenza di noi tutti, aprir lo sportello del coupé del duca, bassare la staffa, raccoglier per terra non so che cosa, e gridare al cocchiere: A casa! Nome di un conte! se codestui à l’anima di un lacchè, che indossi la livrea.

— Voi avete ragione, zio Pradau — scoppiò M. Claret, indignato.

— Se ò ragione! ma dimani quel birbo consentirà a rimpiazzarvi come intendente, M. Claret, come maestro di casa, se il padrone gliel’ordina.

— Oh ve’! Io vi prometto che vado a lavargli il capo per bene. [p. 240 modifica]

— Bisogna mandarlo via corto corto, e senz’altro, M. Claret. Io m’incarico di trovargli del pane. Ma io ò bisogno del suo posto, io: quel posto mi fa d’uopo.

— Come! voi dite...

— Che quel posto mi fa d’uopo.

— Oh! per esempio! Non vi basta dunque quello che avete?

Maitre d’hôtel di madama Thibault! Pouah! Gli è buono per guadagnar danari, codesto.

— Catterone! Ma io credo che il re è alle Tuileries per la stessa ragione.

— Sì: danari della sua intelligenza, non un salario.

— Quanto vi rende il vostro posto?

— Sei mila franchi l’anno, compresi i regali — ma i benefizi sugli affari, in più.

— Corna di un bue! e voi sollecitate il posto di cameriere, che vi darebbe due cento franchi al mese?

— E per ciò appunto io li rifiuto. Voi mi farete l’onore, M. Claret, di comprare ogni mese con i miei onorari un abito alle vostre figliuole o a madama Claret.

— Ma voi fabbricate dunque dei vaudevilles, père Pradau?

— Io fabbrico castelli, M. Claret. Statemi ad udire. Io sono ambizioso. Io ò di già dieci mila lire di rendita, e me ne occorrono ventiquattro.

— Nè più, nè meno?

— Meglio ancora. Io voglio comprare nel Berri un castello, vicino a quello del conte di Vixelles — che mi ricusò un giorno un posto di domestico in casa sua. Voglio vederlo a cacciare sulle mie terre costui, a desinare alla mia tavola con la sua moglie e la sua progenie, e venire, cappello in mano, a sollecitare il mio voto nelle elezioni.

— Il tutto mediante...?

— Ventiquattro o trenta mila lire di rendita, cui io avrò, cui noi avremo, M. Claret.

— Voi dite noi, père Pradau?

— Come! credevate voi dunque che io fossi così egoista di mangiar solo e di lasciare i miei amici razzolar nelle ossa?

— Per esempio! no: ma...

— Ascoltatemi bene, M. Claret, e comprendetemi bene. Che cosa sono io adesso? L’intendente di una donna che [p. 241 modifica]è il tratto di unione tra le belle donzelle ed i ricchi signori. Noi facciamo eccellenti affari, fuori dubbio. Ultimamente ancora, abbiamo trasferito Fernandina a Raizet pascià.

— Cosa è Fernandina, père Pradau, una giumenta?

— Ma donde cascate voi, M. Claret, che non avete udito parlare, o visto, la più bella figliuola di Parigi? quattro cavalli a un landau giallo e nero, come quello dell’ambasciatore d’Austria; due lacchè a parrucca incipriata e bastone in mano; e cocchiere inglese, di dugento cinquanta chilogrammi in predella; piccolo hôtel nella rue des Vignes; palco all’Opera; pranzi di gala due volte la settimana; e... feste di notte a tutto bordone.

— Capisco!

— Me ne congratulo! Bene, codesto ci à profittato ottanta mila franchi. Tutte le mie spese ed anticipazioni rimborsate, abbiamo avuto un beneficio netto di trenta mila franchi — ventisei per madama Thibault, quattro per me — oltre il cinque per cento sulle somministrazioni, ecc., ecc., totale 10,000 franchi di parte mia.

— Ed ambizionate un posto di 200 franchi al mese?

— Appunto! Noi abbiamo avuto questo affare col Turco l’està passata. Ne annaspiamo uno con la Russia in questo momento, ed ecco perchè io sono qui con un invito pel vostro duca, il quale è Sultano in quei paraggi. Ma quanto tempo mi bisognerà desso, senza parlare del sacrifizio dalla mia considerazione, per mettere insieme la somma che costituisce la mia rendita? Ebbene, io posso guadagnar codesto in un anno.

— Voi dite, père Pradau!

— Conoscete voi quel bell’edifizio circondato da colonne nella strada Vivienne?

— Voi intendete parlare della Borsa, mi immagino?

— Sissignore, M. Claret. Orbene, la mia rendita e la vostra sono in quel palazzo dei miracoli.

— Hum! père Pradau, io ò udito delle storie su quel luogo lì...

— Bazzecole! Tutto dipende dal colore delle mani che vi si portano. Ma infine, ecco il mio affare. Io lascio in deposito al mio agente di cambio un capitale di... — mettiamo 100. Egli mi lascia fare delle operazioni, tutto al [p. 242 modifica]più per 150 o 200. Perchè? Perchè io lo conosco, e perchè egli sa non esser io che un piccolo funzionario in casa di una dama la quale à un bazar dove à luogo qualcosa che si chiama: una sauterie, un pranzo in piccolo comitato, un raout, un ballo, infine, per i grandi colpi, come nell’occasione attuale. Benissimo. Mettete ora che, invece di essermi un così piccolo sere, io mi appartenga alla diplomazia. L’orizzonte si allarga di cinquecento leghe. Io giuoco ciò che voglio. Non mi si dimanderà neppure la copertura. Debbo io confessarlo? Si crederà che io giuochi per conto del padrone. Ciò si è visto. Ad ogni modo, si crederà che io metta a partito i secreti del padrone. Infatti, ci vuol proprio del genio, eh! per dire, senza posarvi su, annodando la cravatta od ungendo di pomata il ciuffo del signor duca: To’! la Borsa à bassato ieri; essa basserà ancora oggi, scommetto! — Tu credi, imbecille? — risponde il duca. — L’è fatta. Giuoco al rialzo.

— L’è curioso davvero ciò che voi dite mo’, zio Pradau! Io non ci aveva giammai pensato.

— Credete voi, M. Claret, che gli uomini di genio s’incontrino così per le vie come i poliziotti, eh? Ebbene, quando io ò estorto una parola, quando io ò annasato un tantino nei dispacci, e colto una frase alle porte, io vi dico: M. Claret, oggi vi sarà rialzo. Io rischio cinquantamila franchi; volete rischiarne dieci, voi — voi che siete padre di famiglia? Noi giuochiamo, e la pecunia viene.

— O se ne va.

— Qualche volta. Ma noi paghiamo. Ciò allecca il mio amico agente di cambio. Io piagnucolo presso il duca, a proposito della perdita che ò subita. Egli s’intenerisce, mi regala del triplo imbecille, e si lascia sfuggire un motto che sembra senza conseguenza. Io l’acciuffo a volo. Giuoco questa volta cento mila franchi, voi trenta mila. La messa è finita. Viva il duca!

— Babbo Pradau, voi avete la mia stima!

— Voglio il posto, M. Claret, la vostra confidenza e la vostra amicizia: ecco tutto. Mi avete voi capito? Io non ò secreti per voi. Voi avete delle ragazze a maritare o a mettere al Conservatorio, e dei biricchini a ficcar nel collegio. Noi siamo cristiani al postutto, che diavolo! Ebbene, si va più spiccio della sorte che con i rosicchi sui conti [p. 243 modifica]e gli sconti dei fornitori. E rileviamo, per l’intelligenza, la dignità del lacchè, come dicono i gonzi. Sappiatelo, M. Claret, io medito di scrivere un libro, nel mio castello del Berri, Sui doveri dei padroni ed i diritti dei servitori — nel quale io proverò: che noi siamo dei funzionari pubblici, e che abbiamo diritto ad una pensione di ritiro — a pigliare da una tassa speciale pei domestici, pagata dai padroni — ciò che costituirà un fondo a parte al Gran Libro, destinato alle pensioni. Vedrete, vedrete, M. Claret. Ma per condurre a termine tutto codesto, è mestieri che lo pigli il mio rango nella diplomazia.

— Oh! io comprendo perfettamente ciò.

— Bisogna moralizzare i padroni, mio caro, se vogliamo costituire la nostra indipendenza. Essi ci danno del tu, per l’epa del diavolo! Ci chiamano col nostro nome di battesimo, e qualche volta animale! Essi dimenticano perfino talvolta di dire: se vi piace! Oh! eh! I nostri padri àn dunque presa la Bastiglia per nulla? E la livrea, ah! Noi siamo in un carnevale perpetuo, noi altri, noi siamo degli arlecchini all’anno.

— Come a dire?

— La nostra livrea è la nostra gogna. E la parrucca, poi? E con questo, una parrucca di stoppa, bianca della farina che il vento ci caccia negli occhi e ci accieca, e nel naso e ci fa starnutire dodici ore al giorno! Mi pare che basti che ci accimorrino con li scarpini, le calze di seta e le brache corte. Essi non ànno nemmeno pietà se un famigliare à le gambe arcate, con quei mezzicalzoni di peluscio rosso o giallo canario! Se fossero almeno colori seri! Vi si azzima in pappagallo! Basti così, cospettaccio! D’oggi innanzi, noi esigiamo degli uniformi di lanciere. Eh! che ne dite, M. Claret, di lanciere o di ussaro?

— Io inchino forte alla veste da camera. Essa è più comoda. Io ò saggiato l’uniforme alla guardia nazionale — e non mi sorride una maledetta. Ma, infine, vada pure per il lanciere. Io amo la Polonia... a digiuno.

— Allora, caro M. Claret, l’è un affare inteso. Ma, del resto, dopo dimani sera io verrò a pigliarvi con la vostra signora e le signorine, ed andremo alla Porte Saint-Martin. Avrò un palco. E chiacchiereremo di nuovo. Ve lo ripeto: lascio il salario per le spese di toilette delle vostre piccole, [p. 244 modifica]e v’invito a partecipare alle mie operazioni, quando vorrete e nelle proporzioni che vi piacerà.

— Sì, sì, père Pradau, io ò afferrato tutte le vostre combinazioni e le trovo ammirabili. Ma lasciatemi preparare un pretesto che mi giustifichi agli occhi del duca, se mando via Roberto e vi sostituisco a lui.

— Ciò è giusto. Ciò è, anzi, convenevole. Bisogna rispettarci, se vogliamo farci rispettare dai padroni. Anche io non voglio perdere la commissione che mi riviene sul collocamento che madama Augusta medita probabilmente.

— Ma cosa l’è insomma codesta agenzia, zio Pradau?

— Ma! avete voi udito a parlar mai dell’agenzia di M. Foy?

— Oh! sì: ò letto ciò spessissimo negli annunzi dei giornali3.

— Ebbene l’è la casa Foy, il matrimonio in meno — alla chiesa e al Municipio. Ecco tutto. Noi diamo una festa, secondo l’importanza della cosa. Tutto ciò che vi è di ricco e di nobile viene ad approvvigionarsi da noi. Noi prendiamo iscrizione delle damigelle che vogliono o principiare o divenir assennate; ne scrutiniamo bene la morale; esaminiamo le loro bellezze, la loro istruzione, la loro educazione. Perocchè noi non presentiamo in mercato che fior di roba, con garentia e stampo di fabbrica.

— Ma, l’è da fior di galantuomini, codesto!

— Le persone s’incontrano, si parlano, si esaminano; si consulta la scritta del prezzo nell’album sulla tavola, per ordine alfabetico e ritratto. Si vede la lista delle spese, poi... E poi si getta il moccichino. Una parola detta all’orecchio di madama Augusta basta. Nulla di più leale in commercio. Mercanzia per ogni gusto. Nulla al disotto di 36,000 franchi di onorario l’anno — oltre i regali che sono volontari, ed una somma per l’installamento primo. Non un motto che non sia decente. Alle Tuileries si è meno permalosi. E che eleganza! che tatto squisito! che spirito in ogni concetto, in ogni sguardo! che gusto! che di aristocrazia nelle maniere! Oh! se gli ambasciatori e le duchesse potessero venire ad istruirsi da noi! Insomma, [p. 245 modifica]l’è la parrocchia dei baci — ma un vescovo crederebbe trovarsi nel pensionato delle suore di Picpus!

— In fede mia! codesto è proprio superbo.

— Lo credo bene. E perciò ci si scrive dalle cinque parti del mondo per essere inscritta e presentata, e ci si manda il ritratto, guarentito rassomigliante per atto di notaro. Che collezione! Qualche volta noi facciamo delle anticipazioni, per dei soggetti il di cui successo è infallibile. Si può consultar gratis i nostri registri ed il nostro album. Nulla di sospetto e di meschino. Il signore che non giustifichi di avere un titolo e di posseder per lo meno 150,000 franchi a ruminare in un anno, non è ammesso nelle nostre riunioni. L’età cui preferiamo per i candidati è al di là dei trent’anni. Chi ne à meno di venticinque è escluso dalla morale, non vi pare?

— Ma un’istituzione simile meriterebbe un incoraggiamento del governo, io vi dico.

— Pouah! questo governo taccagno! Ah! parlatemi dunque degli altri4!

La conversazione fu interrotta precisamente da M. Robert, il quale portava la risposta del duca.

Altra derogazione agli occhi dello zio Tob, il quale non rifletteva che egli stesso aveva derogato peggio ancora.

— Allora è convenuto, M. Claret, non è vero? — disse Tob alzandosi.

— Che diamine! noi siamo degli uomini, zio Pradau.

— A dopo domani. Se non posso spicciarmi alle sette e mezzo, manderò il viglietto del palco nella giornata, ed andrò a porgere i miei ossequi alle signore nella serata.

— Saranno desse contente, perdinci!

— Me lo immagino. Frederik rappresenta Don Cèsar de-Bazan.

— Superbo!

— I miei complimenti alla famiglia, ed a rivederci.

— Mille grazie, ed a rivedervi, père Pradau.

Come quella dimora aveva l’aspetto calmo! Come tutto vi sembrava regolare, in ordine, puro, felice! Come le passioni vi erano umane, i desiderii sereni, l’andamento normale, i sentimenti sociali! [p. 246 modifica]

M. Claret andava ad introdurvi l’ex capo degli zingari!

Il duca di Balbek aveva accettato, e fissato il ballo di Augusta al 29 novembre.

Note

  1. Lettres Persanes.
  2. Père Pradau ignorava che negli Stati Uniti questi rispettabili funzionari non si chiamano neppure più servi, ma helps — ajuto, ajutante.
  3. Agenzia di matrimoni.
  4. Il conte di Chambord e gli antenati.