I suicidi di Parigi/Episodio terzo/IX
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IX.
Vitaliana.
Che idillio! che primavera intorno a Vitaliana!
Ella ignorava tutto — forse perchè non si curava di nulla.
Il matrimonio era stato per lei un mandato impostole da sua madre, cui ella compieva. Il suo cuore era restato estraneo a quel mercato.
Ella non portava nella ragion sociale del duca di Balbek che la sua bellezza, la sua virtù, ed un centinaio di mille franchi, alla morte di sua madre. Ella non doveva dunque nulla al di là — oltre l’adempimento del suo dovere. Ridotta a questo còmpito, ella vi si era assiepata bravamente, la calma negli occhi, il sorriso sulle labbra. Ella non era risponsabile innanzi al mondo dalla sua vita inferma — e forse delle lagrime del suo cuore! Che importava, del resto, al mondo che vi fosse in quel seno una festa o un lutto! Basta che, scollacciato con arte e splendido — vale dire quasi nudo — esso abbagliasse gli sguardi nei balli, e che alcun uomo, il duca tranne, non potesse dire: Io l’ò sfiorato delle mie labbra!
Vitaliana si era formata un’idea esagerata del carattere, della dignità, dell’onore, della posizione sociale, delle funzioni di suo marito. Ed aveva proporzionato a quest’idea il sentimento del suo dovere.
Le donne, d’ordinario, misurano la loro colpa alla loro propria dignità. Forse che, se il carattere del marito fosse preso per campione, l’adulterio sarebbe più raro — per la semplice ragione che nel marito non vi è solamente l’uomo, ma il cittadino.
Vitaliana comprendeva così la virtù coniugale.
D’altra banda, ella avrebbe creduto mancare alla probità del contratto conducendosi diversamente. Imperciocchè ella considerava suo marito come l’incarnazione la più elevata dell’onore.
Appena se ella s’informava di ciò che il duca di Balbek era stato nel suo paese.
Ella non s’inquietava punto di ciò ch’egli faceva a Parigi.
E’ le sembrava naturalissimo che re Claudio III avesse investito dell’ambasciata di Francia un così bel cavaliere.
E’ le sembrava impossibile che un gentiluomo, incaricato di quelle funzioni, non ne avesse calcolato l’alta responsabilità, e che non fosse stimato e rispettato. Perchè allora interrogar delle bocche, le quali, in questa circostanza, non risponderebbero invariabilmente che con la piaggieria od il denigramento?
Vitaliana non leggeva giornali, d’altronde. E quando la si mostrava, raramente ancora, nel mondo, ella spandeva intorno a lei tal profumo di purità, raggiava di tanta bellezza, che non si scorgeva quel piccolo duca — più che non si scorge una mosca sulla cornice, quando si contempla il quadro della Trasfigurazione.
Librata dunque sopra tutte quelle nuvole, la serenità di Vitaliana era eterna come quella del firmamento.
Vitaliana era una creatura diafana.
Se fossimo a Firenze, io vi direi: Andate a visitare al palazzo Pitti la vergine di Murillo, a fianco alla Madonna della Seggiola di Raffaello: ecco Vitaliana!
Ella incarnava quella concezione divina del pittore spagnolo.
S’incontra qualcuna di quelle figure sotto il cielo brumoso dell’Inghilterra — e vi credete, per un istante, su i minareti di Stambul, in una notte di luna piena. Quelle nature sono inaffiate di raggi di stelle: vi si vede circolar l’anima!
I grandi occhi cinerei di Vitaliana, allo sguardo sì lontano, sì profondo, sì serico, sì dolce e cristallino — se venivan fuori dal vago infinito in cui sembravano immersi, dovunque si fissavano, facevan nascere dei gigli — come racconta la leggenda degli occhi di Gesù. Si sarebbe detto che v’inondassero di foglie di rosa. Il desiderio prendeva le ali della preghiera! La sua fronte si distaccava, come la mezzaluna nel cielo, tra le sue sopracciglia scure ed i suoi capelli d’oro, che la coronavano come una regina.
Tutto era armonia in quel viso — non di quella armonia della bellezza greca che è della geometria — ma di quella melodia del canti italiani, che sono un fiore dell’aria. Quell’espressione eterea si comunicava persino alla sua bocca — le cui labbra delicate e rosee riflettevano la voluttà della stamina pel pistillo. Si sentiva che era mestieri un serafino per coglierle un bacio senza appannarla.
La sua statura era media. Le sue forme, delicate. La sua vita poteva essere chiusa fra due mani di donna. Il suo collo, un po’ lungo, sosteneva una testa alta, senza fierezza, e la faceva sembrare più grande che in effetto non era. Quando mostrava il suo piede, sì infantile, sì petulante, si provava il desiderio irresistibile di baciarlo.
Vitaliana era una di quelle creature, cui Dio si lascia talvolta scappare per ricompensare, per incoraggiare coloro che credono ad un’anima al di fuori della materia; per consolare coloro che credono alla perfettibilità della materia — qui fango, là raggio; qui ventre, là pensiero: Tiberio e Capri, Gesù al Taborre!
Nel palazzo dell’ambasciata, nella strada dell’Università ella si era riserbata due stanze: una camera da letto piccolina, ed un grande boudoir, sporgenti entrambi sur una immensa terrazza, di cui aveva fatto una stufa.
Ecco il suo mondo! il ritiro ove ella s’isolava.
La camera coniugale era altrove.
Nella sua, ella ridiventava vergine, si apparteneva, era sè stessa, era Vitaliana. Negli altri appartamenti, alloggiava la duchessa, ove il duca e la società la reclamavano.
La tappezzeria di quelle due camere era ricca e semplice. La stanza da letto era in raso rosa pallida, a nappe di seta bianca. Il boudoir, in damasco bleu, a nappe di nero ed oro. Il suo letto, in legno di radice di lauro, con dei medaglioni in lapislazzuli, era steso sotto una tenda che lo celava chiudendosi. Una riduzione del S. Agostino e della Francesca da Rimini di Scheffer, erano i soli quadri della stanza da letto.
Nel boudoir, oltre gli altri mobili in legno giallastro, vi era un piano; e sulle mura il ritratto di suo padre e due pastelli di Angelica Kauffman.
Poi, dei fiori dovunque.
Vitaliana non era musicienne — vale a dire, uno di quei generali dottissimi in strategica che perdono tutte le battaglie. Ella interpetrava un pezzo di musica, se non lo leggeva sempre correntemente.
Adorava i fiori. Tra i fiori e lei eravi comunicazione d’anima ed anima. Ella entrava nella sua stufa come la mano dell’abbate Listz poggia sul piano: per risvegliarvi la vita. Sarebbesi detto che i fiori la sentissero, la conoscessero.
Questo scambio di magnetismo tra una bella giovane donna ed un bel fresco fiore non è stato ancora sottomesso alle osservazioni dinamiche e microscopiche, e notato — ma esiste. Fu presentito da Van Swieten — un grande medico olandese del secolo passato. Aspetta il suo Darwin.
Vitaliana era per i fiori un raggio di sole o la rugiada. Que’ che appassivano, trovavano ancora abbastanza di alito per dirle: addio! I rigogliosi cantavano; i bottoni sboccianti, folleggiavano: l’odore addiventava profumo, il colore, spanto! Vitaliana aveva sempre un motto a dire, un consiglio o una carezza a dare a ciascuno di loro. Il suo sorriso era un’evocazione. Tutte quelle stelle fiammeggiavano al suo riflesso.
— Benissimo, benissimo! — diceva ella sorridendo ad un hyocroma, il cui fiore a tubo scarlatto e bleu sbocciava pien di salute. Si vede bene che fai buona compagnia col tuo vicino, la cui foglia verde argentea riposa lo sguardo! Vedete mo’, come queste povere lavatere si annoiano! La loro rosa impallidisce troppo: ingialliscono. Sareste voi tristi perchè questi cestrums ai petali d’oro se ne vanno? Non affliggetevi giammai se i grandi passano: essi ebbero i loro dì di splendore... Alla buon’ora! mie piccole svensonie! Voi gorgheggiate delle vostre testoline bianche, rose e porpuree! Svegliatemi dunque un tantino codesti conoclynii, il cui azzurro si spessisce; codeste bigonie, i cui tubi scarlatti ed i fiori soffocano la coccarda lilà del loro corsaletto...
Poi ella inaffiava le stewie e le vinee, dal fiore bianco e rosa; faceva la belloccia con quella varietà di lantane, delle boule de neige; si ricreava come una pazzerella con la sua bella collezione di vervine e di veroniche: volteggiava come una farfalla in mezzo alle iridi ed ai phlox, che avevano saccheggiato l’arco baleno. Ella camminava, correva, rideva, devastava, s’imboscava contro gl’insetti malfattori, rimuoveva la terra dalle sue mani — mani che avrebbero fatto impallidir di gelosia perfino Caterina dei Medici — tanto erano belle! S’impazientava contro i giardinieri; prendeva una piccola roncola per mondare gli arbusti; legava un ramo ribelle; raccoglieva le foglie morte.
Un mattino verso la fine del mese di dicembre, Vitaliana veniva dal terminare l’ispezione della sua stufa, quando Maria, la sua cameriera, entrò ad annunziare la visita del conte Alleux.
Ella fece un movimento di sorpresa, ed il sangue rifluì al di lei viso. Si rimise però subito e disse:
— Introducilo lì, nel mio boudoir.
Adriano di Alleux era l’ingrandimento di Vitaliana di Muge.
Avevano ambedue preso dalle loro madri. Il medesimo colorito della pelle; il medesimo druidico degli occhi; il garbo medesimo della bocca; il medesimo portamento elegante e svelto; la medesima vita elastica; la stessa elevazione della testa. Solamente, in Adriano, tutto codesto era più fosco, più accentuato, meglio consistente, più robusto, più virile. Ciò che era bellezza in Vitaliana, diveniva grazia in Adriano; ciò che era soavità nella donna, si chiamava forza nel giovane. L’espressione verginale di Vitaliana prendeva l’aria d’indifferenza o di voluttà in suo cugino.
Il suo naso era un po’ più grosso, ma per la sue leggiera curvatura dava al di lui viso un certo che di fierezza. Non portava barba, eccetto due baffetti fini, rilevati a punta, e così lunghi che piaciuto era loro di crescere.
Lo si trovava un po’ stecchito. Ma ciò proveniva dalla ritenuta cui s’imponeva — per tenersi dritto e rompere così l’abitudine, contratta al seminario, di portare la testa in giù. La sua voce era melodiosa come quella di Vitaliana. Il suo sorriso, quando era vero — perchè abusava del riso sarcastico — irraggiava come quello della cugina. Era alto ed elegantissimo, ma senza affettazione.
Una viva commozione si pinse sul suo sembiante quando vide Vitaliana impiedi, sulla soglia del balcone che si apriva nella stufa.
La cugina aveva arrossito udendo il nomo di lui; il cugino impallidì alla di lei vista. Alcuno dei due non favellò. Si contemplarono reciprocamente: Adriano, con fascino; Vitaliana, con stupore.
Per uscir d’imbarazzo, e nascondere il suo turbamento, questa sclamò di un accento gioioso:
— Ebbene, signore abate, vi siete dunque fermato a mezza via del vostro vescovato? Che disgrazia! promettevate un così santo vescovo! Il nostro caro zio, il cardinale, ne sarebbe immagrito di un quarto di tonnellata per gelosia.
— Può smagrire di una tonnellata tutta intera, senza nulla perdere nella considerazione della cristianità! — rise Adriano. Ma veggo con contento che tu sei gaia... perdono, che madama la duchessa è gaia. Io mi aspettavo a tutt’altro.
— Ah! voi venite dunque per vedermi piangere!
— No: per consolarvi.
— Consolarmi di che? della perdita della battaglia di Waterloo?
— Tu sei dunque felice, Vitaliana? — riprese Adriano dopo un istante di silenzio, ed offrendole il braccio per passeggiarla nella stufa.
— Ma chi à potuto ispirarti l’idea che io nol fossi? L’avresti tu letto nella Gazette de France — che mi manda, dicono, ogni domenica, alla messa di S. Tommaso d’Aquino, dove io non ò mai messo il piede? Tu non rispondi?
— Non una nuvola in casa tua, dunque? tuo marito ti ama...?
— To’! tu mi rammenti che sono quasi otto giorni che non l’ò visto. Quel povero Carlo è così occupato! Negozia, da circa un mese, un trattato di commercio con l’ambasciatore d’Inghilterra, che à la gotta ed abita ancora Chantilly. E’ pare che codesti ambasciatori lavorino come dei fabbricatori. I governi ed i popoli sono così esigenti!
— Proprio.
— L’è pur così. Ma con codesto, voi non mi dite mica, signorino, perchè avete rinunziato a quel delizioso mestiere di vescovo, cui, in un accesso di divotamento alle miserie dell’umanità, avevate scelto. Ti ricordi tu quanto mi spaventavi parlando di andarti a fare rosolare un po’ le costole, per atteggiarti a martire! Come ti avrei io bene adorato sur un altare, con un coperchio di casseruola sul capo ed un piumaccio, millantantesi palma, nella mano!
— Vitaliana, tuo marito ti ama? ami tu tuo marito?
— Che razza di questioni stupide mi indirizzi tu là, Adriano... no, signor conte di Alleux? Voi v’immaginate dunque che io andrei a dirvi: Signore, io non amo mio marito!... signore, mio marito è infedele... quando anche ciò fosse?
— Gli è, Vitaliana, perchè tua madre è assente, tu sei sola, ed io sono in questo momento il capo della nostra famiglia — e perciò il tuo sostegno nella sventura. Avresti tu preferito che, in questa circostanza, io mi fossi tenuto in disparte... perchè... infine, io ò creduto che il mio dovere...
— Ma tu vaneggi dunque? Che circostanza? Di che intendi tu parlare? Di qual sostegno sogni tu? Il mio sostegno è mio marito. Se vi è un dovere per qualcuno, qui, gli è per me, che debbo rispettare il nome che porto, e l’uomo che me lo à dato — come egli lo rispetta e come egli lo porta, altamente, con dignità e con onore. Tu parli d’amore. È desso indispensabile alla felicità di una famiglia? Si è mai definito cosa sia l’amare un marito? Io leggo tante cose su codesto, che vi perdo il mio istinto. Io non so se ami o no mio marito. Lo rispetto, e ciò val meglio. Siete voi soddisfatto adesso, signor abate d’Alleux?
— Ora mettiamo — solamente per ipotesi — che tuo marito fosse un uomo indegno...
— Alto là! Io vi vieto, signor conte, di spingere più in là vostra ipotesi, antitesi, parentesi, e tutto ciò che vorrete. Io non mi curo di fabbricare castelli in Ispagna. Li troverò un giorno forse belli ed impiedi. Sarà tempo allora di pensarvi. Ed io non esiterei lungamente a pigliare il mio partito — siatene sicuro. Io non comprendo il dovere senza il correttivo, o l’equilibrio, del diritto. Io non mi rassegno alla teoria del sagrifizio per la donna e la libertà per l’uomo. Ma, insomma, cosa ài tu, Adriano? Perchè sei tu venuto a vedermi qui, dopo tre anni di separazione? Perchè non sei tu venuto innanzi — quando ài barattato la guarnacca del seminarista con la livrea del mondo? Tu non ài dunque nulla a dirmi? Tu non eri, pertanto, mica troppo goffo da abate. Quei mustacchi ti danno l’aria di un caporale in gazzurra.
— Dio mio, che vuoi tu? Son venuto perchè ò sognato che tuo marito era infedele; che aveva una ganza adorabilmente bella, abbominevolmente perversa; che tu lo sapevi; che tu eri infelice; che tu avevi forse bisogno di consiglio, di protezione, di vendicatore... E che so io, Vitaliana? Tu non ài che una parola a dire... Veggo che è un sogno, ma desso mi perseguita... L’è forse l’abitudine... L’è quella inqualificabile educazione di seminarista, in cui non si presenta agli occhi di quei tapini che delle immagini di donne — S. Ginevrina, S. Filomena, S. Tecla, S. Pantofola, la Vergine Immacolata, la Vergine col Bambino, la Vergine col vecchio marito... e sempre delle donne e delle vergini! A sedici anni, si sogna, si sogna di tutta quella roba. La s’incarna meglio che le stupide immagini del libro di divozioni; vi si mette su la tale fanciulla, la giovane sorella, la giovane cugina che si è vista alle vacanze, che si è incontrata al passeggio... ed alla grazia di Dio! Oh, sì, Vitaliana, io ti ò ben messa in discordie con la Vergine Maria, vah! Io non l’ò adorata e pregata giammai che sotto le tue forme. Io non so se ella debba esserne lusingata o uggiata... Ed ecco perchè... Ma di che parlavamo noi dunque? Ch’era bello — n’è vero, Vitaliana? — quel tempo di nostra infanzia! Quanti progetti! quante tenerezze! quale avvenire di porpora e di oro ai lembi dell’orizzonte...! Così, dunque, tu sei proprio felice?
— Orsù, Adriano, non farmi mica dire ciò che io non ò detto! Io sono tranquilla. Io ò presa l’assisa del duca di Balbek, e la rispetto, e la fo rispettare. Il padrone non l’indossa degnamente anch’egli? Sarebbe una cattiva azione maculargli la veste d’armellino ch’egli porta così fieramente. Allora, a che pro i rimpianti, i desiderii, le allucinazioni di quel guanciale — sul quale si poggia la testa facendosene un Taborre, e cui si lascia bagnato di lagrime? L’adolescenza non conta: l’è un fiore strano e qualche volta ridicolo, che stuona nel mazzo dei fiori della vita. La si abbevera di Santo Padre, di padre Lacordaire, di abate Lammenais, di Sacro-Cuore, di S. Luigi di Gonzaga, di S. Questi, di S. Codesto... Fortunatamente che quella roba è bruttissima, orridissima, a che vi si può sostituire ciò che si è visto in casa di sua madre, ciò che si vede talvolta di qua e di là. Sii sicuro, Adriano, che vi à mica male di uomini nel mondo che debbon essere forse in collera contro il Sacré-Cœur. Ma dove mette capo tutto ciò? Ad un marito!! Il marito è il diamante nel monile delle donne. Io conosco pertanto delle gonze che preferiscono il fiore.
— E cosa l’è il fiore, nel monile, nell’addobbo di una donna?
— L’è il sogno che non si realizzerà giammai — perchè l’è il vitupero. Ora, togliete ad una donna il rispetto, e voi avrete tolta l’aureola a Dio. L’immagino diviene statua o quadro. Ma io ritorno al tuo saione di chierico, monsignor d’Alleux. Perchè l’ài tu gettato alla fiumana?
— Io riprendo la mia ipotesi. E se il tuo zibellino fosse contaminato? Se tu t’imponessi una idolatria che è una ciurmeria? Se l’idolo cui tu credi di alabastro, fosse di mota? Se il ricovero, che tu reputi una chiesa, fosse una taverna? Se altri non venerasse l’alleanza, il nome, il contratto, il dovere che tu veneri? Se tu fossi la Vestale di un satiro!... Vediamo... l’è un’ipotesi, bada...
— Tu ài avuto torto, Adriano, di non restare abate! Tu insinui il veleno nel cuore con tanta unzione...! Che vescovo saresti tu riescito!... Ebbene, io sono la mia propria Vestale. Io mi sono formato un empireo che à forse altresì dei nugoli; ma io chiudo gli occhi per non seguirli nel loro saltabeccare fantastico. Che il mio idolo sia d’oro o di selice, io non consumo il suo altare — e per fortuna e’ non mi fatica esigendo le mie preghiere. Tu vieni a vedermi, dopo due o tre anni di ecclissi — seminarista trasformato in zerbino — per propormi un logogrifo che gocciola la perfidia... In fede mia! io avrei preferito conservare quel sovvenire d’infanzia che mi ti rappresentava come un monello di sacristia. Io vedo così poco mio marito, così di raro il mondo... Credete voi, signor conte d’Alleux, che non vi sia altra cosa da dire ad una donna che si cretinizza nella solitudine?
— Tu dici, Vitaliana?
— Non confondere: cretina non vuol mica dire infelice. Per traduzione libera, posso permetterti, vaneggiatrice. Quando si vive in mezzo a quel mondo — soggiunse Vitaliana indicando i suoi fiori — se si ànno altre aspirazioni, sono forse delle follie. In ogni caso, gli è imprudente di andare a cacciare degl’iddii broglioni nella cappella di un credente.
— Io so tutto codesto, Vitaliana — rispose Adriano con calma — perocchè da dieci anni io m’inebriò della tua felicità; da un anno, io la sorveglio con la gelosia della disperazione. Tu non m’ài visto; ma io era là, sempre là, alla tua porta, dietro ai tuoi passi, riguardando il cielo della notte cui tu guardavi; avendo in uggia la luce del giorno che t’inondava dei suoi raggi immodesti. Io restava lì, al mio posto, sentinella di Dio, quivi ribadito dal cuore, dicendomi: Forse ella avrà bisogno di me! Non à più padre, non à fratelli; non à che me. Tu non m’ài visto finora. Se vengo oggidì, gli è che... io mi son creduto affrancato dalla catena di quel culto immacolato che mi ero prefisso; gli è che il circolo magico è stato rotto; gli è che io non mi credo più obbligato di restare all’uscio di una chiesa, di cui si fa una bisca; gli è che io mi son detto: ella è sola, ella piange, ma non osa implorare sua madre; Ella non ardisce gettare un grido, ma ella à bisogno di me. Ed eccomi qua....
— Ed ecco là la porta, signor conte di Alleux; perocchè voi avete presa la mia per quella del manicomio di Charenton. Addio.
— Ancora una parola allora, Vitaliana. Sappiate tutto, poichè non dobbiamo più rivederci... Sì, io sono pazzo. Io ò rappresentato una piccola commedia per assicurarmi che tu eri felice. Ora, io lo so. Io lo vedo. Come l’è bello qui! come l’è dolce! Vi si corrige perfino la volontà di Dio, che manda la pioggia ed il sole, che ordina a quelle foglie di cadere l’inverno, ed a quei fiori di sbocciare a primavera. Non mancano che quei piccoli uccellini dei Tropici, azzimati dall’iride, sotto questi Tropici al carbon fossile che tu ài creato qui. Come si deve dormir con delizia in questa gabbia d’oro! Come si deve impinguare con beatitudine in questo nido del silenzio! Vi si diviene devoto per fermo! Come dunque non adorare la mano di Dio che manda il sorriso e le lagrime, quando si è circondati da tante belle opere della sua mano? Come si deve ben digerire andando a zonzo per questa valle di lagrime! Si esce di qui come un vasetto di pomata ai mille fiori! Si debbe aver voglia di abbracciar il suo portinaio, per dare sfogo ai sentimenti filantropici ed umanitari, cui questo Sahara della pace, ben nutrita e ben fiorita, debbe infiltrare nel cuore...
— Adriano, termina codeste buffonerie, e conchiudi.
— A proposito, ma io vorrei stringere la mano al duca, prima che me ne vada.
— Vado a fargli annunciare che tu sei qui — se egli è nei suoi appartamenti.
— Allora, siamo intesi. Tutto è santo qui; tu sei felice; tu non ài bisogno di me; tu ti culli sur una pelugine di bianche nuvole: rispetto all’armellino! Addio!
Vitaliana restava immobile, gli occhi fissi alla porta del suo boudoir, donde ella vedeva suo marito venire alla loro volta.
Maria lo precedeva.
Il duca parve un poco confuso alla vista di Adriano, cui egli aveva talvolta incontrato nel mondo, ma giammai presso di sua moglie. Cambiò con lui qualche complimento, mentre la cameriera susurrava a Vitaliana:
— Il signor duca dimanda i diamanti di madama.
— Perchè vuoi tu quei diamanti, Carlo?
— Ah! mia cara, il 31 di questo mese l’ambasciatore d’Austria comincierà i balli della stagione. Ora, e’ non è conveniente che ti veggano quest’anno con i medesimi gioielli dell’anno scorso e dell’anno precedente. Quelle dame si burlerebbero di te e di me. Non potendo cangiarli, ò parlato con Froment Maurice, onde ne varii la montatura. Sarà splendida. Io vado da quella parte. Gli porto quelle gioie onde dargli il tempo di comporre dei capi d’opera.
Adriano aveva udito quelle spiegazioni, gli occhi sbarrati, diventando ora di porpora ed ora pallido.
— Ma egli non à ancora restituito i due monili di perle e di smeraldi, cui e’ doveva montar pure sur un altro modello — osservò Vitaliana.
— Perchè aspetta i diamanti per armonizzare tutte le gioie — rispose il duca.
— Prendili dunque. Tu lo sai bene, io lascio di gran cuore alle Inglesi ed alle Russe questa esibizione di gioielleria su i loro seni e nei capelli. Io preferisco i fiori.
— Lo so. Venite a vederci più spesso, cugino — soggiunse il duca stringendo la mano di Adriano ed uscendo seguito da Maria.
Adriano s’inclinò assai leggiermente, senza nulla rispondere, poi azzeccò i suoi occhi brillanti sulla cugina, che sembrava inquieta, e fece due o tre passi per allontanarsi in silenzio.
D’un tratto, però, egli si rivolse; si avvicinò vivamente a Vitaliana; prese le mani, cui bruciò del suo contatto, e gridò:
— Vitaliana, posso dirtelo adesso: Io ti amo!
E senza attendere risposta veruna, applicò le sue labbra sulle labbra della cugina, vi depose un bacio — che alla giovane donna sembrò un morso — ed uscì precipitosamente, senza voltarsi.
Vitaliana restò come annientata.
Il duca correva sul lastrico di Parigi, portando via i diamanti di sua moglie.