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Questo testo fa parte della raccolta Poemetti italiani, vol. I


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I FASTI DI CHERI

POEMETTO INEDITO

D’UN CONCITTADINO

A MONSIGNORE

BALBIS BERTONE

VESCOVO DI NOVARA


Non per desio di conseguir col canto
Sognato onor di favolosi allori
Sacro Pastor a celebrar imprendo
Di questa, che d’aver con te comune
Sede avita mi vanto, e mi rallegro,
Le dimentiche glorie, e i prischi fati,
Ma sol per far opra gradita, e accetta
A tutelari numi, e ad ogni buono
Cittadino gentil questa riscossi
Cetra romita dal fatal filenzio,
In cui lunga stagion giacque sepolta,
Colpa de’ tempi alle bell’arti avversi.
Quindi non cerco i’ già che all’umil suono
De’ versi miei di Pindo, ed Elicona

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Rimbombino le sacre eccelse rupi,
Contento, e pago appien se i pochi egregì
Pietosi cittadin di vero accesi
Patriotico amor, alle mie voci
Faran dolce eco entro i lor cor commossi;
Che se pur entro al tuo materno seno,
Quasi vil loglio in aurea messe ascoso,
Saravvi, o patria mia, chi di me laudi
Osi il suono spregiar, voi Cheriesi,
Avite ombre immortai, di questo suolo
Già ornamento, e splendor, il grave scorno
Deh non soffrite, che sen vada inulto,
Ma da que’ vostri freddi avelli i gridi
Sdegnosi alzando, ammutolir confuso
Ne fate il derisor. Ma tolga il Cielo
Ch’alma sì misleal in questo annidi
Fortunato terren, ove onestate,
Ed ogn’aureo costume alberga, e regna.
Dunque m’accingo, e dell’aperto giorno
I son ancor provati raggi affronto.
Impavido cantor con fermo ciglio
Bramoso amai, che il solitario carme
Uso finor inonorato sonno
A tirar fra l’ombre d’obblioso scrigno
Batta le penne, e a non temere impari
Il van fischiar d’incolorita, e aspersa
Di pedantesco fiel censoria verga,

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Che d’infierir, non d’emendar bramosa
Qual grandin ria, che in verzier colto, e ameno
Cadendo a un tempo fa d’ogni vil erba,
E de’ bei fiori ampia indistinta strage,
Non altrimenti ella si ruota, e ingiusta
Tenton percuote, e d’atterrar pur gode
E falli, e pregi in un sol fascio avvinti.
Sorgo pertanto, e de’ sinceri tuoi
Sacro insigne Pastor, sperati applausi
Accorto Vate adamantino scudo
Farommi incontro all’importuno ed acre
D’imperiti Pantili, e stolti Fanni
Baldanzoso garrir; intento solo
A ricrear col non spregevol canto,
Nato da patrio amore delle muse
Fautor inclito, e saggio, e i buon Pisoni,
Cui delibar dal biondo Apollo è dato
Il divin miele, ch’entro i sacri carmi
Serbasi ascoso con mirabil arte
Piacciati adunque col pensier seguace
Dei detti miei venir a parte a parte
Di quest’inclita nostra avita sede
I pregi a contemplar. Vedi, deh vedi
Quale a locarla amena parte, e quale
Avventuroso più d’altri terreno
Abbian scelto i suoi padri, anzi gli Dei.
D’un piccol colle sul curvato dorso

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Siede Chieri, e di là, donde apre il varco
Febo al novello dì, cinta all’intorno
Sen va da un vasto pian, ch’in verdi prati
Lungi si stende, e colti campi aprici,
Bipartito teatro ove natura
Per non finta distanza il curioso
Del passeggier occhio smarrito indarno
Le mete estreme a ricercar n’invita;
Nè meno vaga, e dilettosa scena
Dal lato occidental del bel soggiorno
Offresi al guardo; Ivi d’ameni poggi
Sorge gradata schiera, eletta sede,
Dove Bacco, e Pomona i loro doni
Con benefica man spandendo invitano
L’agiato cittadin scevro di cure
All’autunnale villeggiar festoso,
Ma canti altro di me più gaio vate
I fruttiferi colli, il pian ferace
E il puro Cheriese aer vitale,
Mentr’io, che l’alma di più serie accesa
Mi sento arcane liriche faville
A più alto segno gli Apollinei dardi
Deggio ora sollevar. Scendi pertanto
Sacra musa agli Eroi, terror di Lete
Dotta figlia di Giove, augusta Clio,
E con quell’alma inestinguibil face,
Onde i rosi diplomi, e polverosi

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Non leggibil volumi avvivi, e spargi
D’erudito fulgor, cortese accorri
La profonda a sgombrar densa caligo
Cui barbarici tempi, e deplorati
Abbastanza non mai prischi disastri
Apriro in sen del patrio archivio il varco.
Ahimè porte distrutte, e trionfali
Archi, e colonne infrante, e a terra sparte
E torri eccelse al suol curvate, ahi! dura
Rimembranza fatal; ma non per tanto
Reverende rovine ancor segnate
Di gloriose note, che del volgo
Sogliono agli imperiti erranti sguardi
Bene spesso sfuggir, e ai saggi sempre
Ferir d’immota meraviglia il ciglio:
Ma a qual tropp’arduo punto, a qual rimoto
Da bel principio inarrivabil segno
Il sottil occhio tuo già mi par volto,
Sacro Pastor, di rinvenir bramoso
Fra le opache latebre, e fra le ambagi
D’inveterata obblivion sepolta
Di quest’alma Città l’incerta origo?
Impresa è questa in ver che di buon grado
Consegnar giova all’aborrito vaglio,
Di riottoso indagator severo,
E intentata lasciandola fra il cupo
Di vetustà non penetrabil bujo.

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Sia consiglio miglior volgere il guardo
Là dove s’erge il massimo delubro
Già di Palla in onor ne’ più rimoti
Idolatrici tempi alzato, e poscia
Sacro al verace Dio; superba mole
Ch’indi a campar ai rovinosi oltraggi
Degl’anni edaci, e a ristorar rivolse
L’occhio pietoso, e la munific’opra
Pastor provido, e pio, che il crin velato
O grande Aurelio, come tu sen gìa
Del venerando episcopale ammanto.
Or quale da ogni lato aura non spira
Di memoranda antichitate illustre
L’augusto tempio, o sia di fuor ne miri
L’ampla facciata infigne che la fronte
Di piramide in guisa al cielo estolle,
Di marmorei rilievi, e vario-sculpti
Fregi tutta aspregiata, ardua nel vero
Mirabil opra intorno, a cui più d’uno
Non ignobil sudò Goto scalpello;
Ovver per entro alle sacrate mura
L’attento sguardo a contemplar ne giri
Delle eccelse colonne il maestoso
Bipartito ordin, la capace volta
Locate a sostener; e ad esse in cima
Pei ben curvati archi insorgenti il vago
Tondeggiante contesto alma spirante

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E all’occhio grata simmetria concorde,
Ma pria che il piè dalla sagrata soglia
I’ tragga fuor del divin Tempio augusto
Ed a profano segno io drizzi, e volga
I Delfici concenti, ah no, non sia
Che i vostri nomi, o sante, o beate alme
Vive stelle di Chieri, onor di questo
Mio patrio suol taciuti io lasci, e senza
Il meritato onor d’Aonie note.
Di voi vuo’ dir, Antiocheni illustri
Campion di Dio, le cui sacrate spoglie
In urna aurata accolte onora, e cole
De’ miei Concittadin lo stuol devoto.
Ah! se il Dio d’Israel al suo diletto
Popol diè già non dubbioso segno
Dell’alta sua protezion sovrana
Allor che in nuova e portentosa guisa
Della contesa Ebrea cherubic’arca
Gli fè il gran don, talchè per lo stupore
L’orgoglioso Filisteo le ciglia
N’ebbe a inarcar; forse non fè sugl’occhi
Di quest’inclita gente avventurosa
Del gran prodigio, che già d’alta gioia
Colmò Israel gioconda espressa imago
Rifolgorar, allor che i due giovenchi
Cui duro giogo non avea per anco
Segnato il vergin collo, arbitri eletti

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Della grave tenzon, il nobil carro
Delle cobrese sacrate ossa onusto
A questo dolce patrio nido in grembo
Trar balenanti, e rapidi fur visti?
Certo assai più per sì celeste dono
Per sì raro tesor, che in te si serba
Vantar Chieri ti dei, che non per quanta
Nei fatti della pace, e della guerra
Gloria e splendor t’accumularo al crine
I magnanimi tuoi figli vetusti.
Ma quai dentro al tuo cor, sacro Pastore,
Quai di patria pietà teneri sensi
Non desteransi immantinenti udendo
A qual orrido scempio a quale estrema
Fatal rovina i furibondi artigli
Dell’aquila Germana abbian ridotto
Del primo Federico a un feral cenno
Questo infelice suol, questo fiorente,
E allor sì illustre nostro patrio nido?
Ohimè? di quanta strage, e orribil guasto
N’andò Chieri dolente a ferro, e a fuoco
Dall’esercito fier dannata, e quali
Di crudeltà inaudite orme profonde
Non si videro impresse in ogni lato
Dell’oppressa cittade? un folto nembo
D’aste, e saette, e di ferrate mazze
E di cent’altri bellicosi ordigni,

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Allor fu che si vide orribilmente
Su Chieri tempestar, e sfrantumati
Quà e là cader da ferro ostil percossi
Merli interi, e bastioni, e in ogni canto
Arder templi, e palazzi, e gli altri tetti
Atre fiamme eruttar. Allor fu, allora
Che si mirò, spettacol doloroso!
La turrigera fronte bellicosa
Spirante maestà, gloria e possanza
Di quest’alma Cittade infranta, ed arsa
Precipitar al suol. Pavidi, erranti
E nobili, e plebei quindi fuggiro
A procacciarsi ne’ vicini monti
E nell’erme spelonche asilo e scampo
Ai feri strazi, e all’odiata morte,
Ed ivi rintanati giorno e notte
Traendo ognor dal conturbato petto
Angosciosi sospir stettero ahi! lassi!
Finchè d’intorno la bramata, e lieta
Novella risuonò d’essere omai
Cessato il fiero sacco, e il truce aspetto
Dell’oste predator rivolto altrove.
Però omai torci da sì tetra scena
Il mesto ciglio di pierà compunto,
Sacro Pastor, e dal pensier cancella
Ogni imago d’orror. Novella luce
Rifulse pur di rediviva gloria

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La patria a ristorar, Deserta e vuota
D’abitatori non rimase punto
Lunga stagion. Di patrio zelo accesi
I fidi cittadin, cui dall’ostile
Micidial naufragio al ciel pietoso
Piacque campar, il dolce aer natio
Bramosi ormai di respirar, tornaro
Queste lor care Cheriesi mura
Malconce e guaste a riveder, che poscia
Corretti i danni, e lo squallor deterso
Fero in più vaga e maestevol foggia
Rifolgorar del passaggier sugli occhi;
Quinci le tante, e a tutta Europa conte
Cheriesi prosapie antiche, e illustri
Che da que’ primi rannestati germi
In quest’almo terren l’eccelsa origo
Traggono, e i chiari gloriosi nomi;
E quanta e qual di sì grand’avi degna
Di magnanimi figli indi non sorse
Non degenere mai nelle seguaci
E più vicine città copia felice?
Taccio i prodi guerrieri, i sommi Duci
E i togati Patrizi, e i grandi io taccio
Incliti personaggi, che i supremi
Aulici onori presso eccelsi Regi
Che scettro hanno in Europa, e vasto Impero
Giunsero a conseguir. I chiari nomi

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N’erge alle stelle ognor sulle sonanti
Robuste penne eternatrice fama
E Italia, e Francia, ed il Germano suolo
Nei vivi successor, nei gran Nepoti
Che di presente pur in grembo annida,
Di que’ grand’Avi la verace imago
Oggi ne onora ancor. Bastimi solo
A solenne argomento delle illustri
Cheriesi prosapie, il folto equestre
Drappello rammentar di venerandi
Gerosolimitani invitti Eroi
Di rifulgente Croce ornati il petto
Che da questa cità di nobil sangue
Oltre ogn’altra feconda usciro in luce
Veri campion di Cristo, innanzi a cui
Tremar ben spesso, e impallidir fur viste
L’Ottomane falangi, e imbelli a terra
Gittar le scimitarre inutil pondo
Al balenar di lor fulminee spade.
L’antica gloria, e il celebrato vanto
Chi non fa di quest’inclita Cittade,
Che sì lunga stagion borghi e castella
Signoreggiar fu vista, e al par dell’altre
Italiche repubbliche bandiera
Innalzar vincitrice; correvol fede
Di sua esimia possanza a’ tempi andati
Fan le nobili leghe, i bellicosi

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Eserciti stranieri, i replicati
Ostili assedi, le vittrici palme,
Che di gran senno, e di valor armata
Strinse, sconfisse, rintuzzò, raccolse,
Il sa Testona ben munita, e forte
Cittade un tempo; or un deserto fatta,
Inabitato suol cui raro appena
Prisco vestigio urban oggi ne segna
La vasta rena ancor; a sì fatale
Luttuoso esterminio già ridotta
Dal bellico valor, dal forte braccio
Dell’Astegiane, e Chieriesi genti
Che unite a danni suoi sotto il temuto
Gemino accolte trionfal vessillo
Corsero ad espugnarla, e farne al suolo
Precipitar le incendiate mura.
Con qual preclaro, e generoso ardore
Questo popol guerriero, e non mai usa
Nei duri casi dell’avverso Marte
Ad invilir, non fè le valorose
Trionfatrici in pria Galliche schiere
De’ secondi cimenti andar pentiti?
Voi ditelo per me chiare e veruste
Città, tu, a cui coll’umil fiotto il piede
Il bel Tanaro bacia, e tu, che a tergo
Bianco di neve ognor l’erto cacume
Ti vedi torreggiar, Monviso alpestre;

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Giacchè entrambe del gran conflitto entrambe
Delle vittrici Cheriesi squadre
Foste ad un tempo e spettatrici e preda.
Chi tutte potrà poi ad una ad una
Le celebri narrar pugne e sconfitte
Onde di Monferrato al gran Marchese
Ruppe le tante volte aste e bandiere
Il maggior oste allora, il più temuto
Infestator, che d’ostinato e vano
Prurito ardea d’assoggettar coll’armi
Questa nobil città, cui salde mura,
E larghe fosse, e ben munite rocche
E folta selva di ventose torri
Ognor veglianti a sua difesa e scampo
Rendean sicura, ed a rispinger atta
De’ suoi fieri aggressor gl’insulti, e l’ire.
O de’ nostr’Avi adunque ombre felici,
Che in sen miraste a questo patrio nido
Fiorir grandezza, autorità, decoro,
E il bel consorzio di que’ tanti Eroi
Fuvvi dato fruir, e ad una ad una
Le vittorie, i trofei, le prodi imprese
Annoverar, onde alla patria amata
Di gloria e di splendor l’ampio n’emerse
Immortale retaggio, e il chiaro suono.
Ma di gran lunga noi più fortunati,
Cui con tardi natali il ciel prescelse

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A rimirar su augusto soglio affiso
Giusto e clemente Re volgere il freno
Di quest’alma città, che alla grand’ombra
Del Monarchico scettro i dì traendo
Sereni e sgombri da discordie amare,
Anzichè rammentar d’invidia accesa
Di sua libera infanzia i tristi eventi,
Conscia per prova del miglior destino,
Ch’oggi il ciel le comparte sull’estinto
Fosforo menzognero di sua prisca
Torbida libertate esulta e ride;
Oh con qual d’ogni libertà migliore
E più dolce servaggio il procelloso
Cangiasti, o Chieri, anarchico governo
Dacchè al sesto Amedeo, del gran Beroldo
Alta propago, oracol vero, e speglio
D’Italia tutta, e di sua età splendore
Spontanea ti donasti, e del sovrano
Invitto suo valor usbergo e scudo
Ti festi incontro al doppio turbo avverso
Dell’estrinseco Marte, e dei civili
Fra tuoi patrizi insorti emuli sdegni;
Indarno, o patria mia, allorchè scossa
Eri dentro, e di fuor da sì crudele
Nembo d’affanni or questo Prence, or quello
Cieca scegliesti in tua difesa e scampo.
Indarno del Partenopeo Monarca

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Ligia ti festi, e al di lui scettro indarno
Giurasti fè, che l’implorata aita
Perchè troppo lontana a’ tuoi bisogni
Giunse mai sempre o inadecquata o tarda
Ma più perchè in Adamante eterno
Scritto era in ciel, che da’ Sabaudi Eroi
Pender dovesse il tuo miglior destino.
Ed oh! quai non senti benigni influssi
Chieri pioversi in sen tosto che il ciglio
Da sì lunga stagion, doglioso e mesto
Potè bear del grand’Eroe Sabaudo
Al vivo lume, e videsi in suo scampo
L’invincibil di lui temuta spada
A fianco balenar; allor fu, allora
Che i suoi feroci assalitor costretti
Di sì gran Prence, e valoroso Duce
I cenni a rispettar, quasi percossi
Da inaspettato fulmine, fur visti
Ammutolir confusi, e l’arme a terra
Unanimi depor, e in un con essi
L’idra fatal de’ non mai spenti in pria
Odj cittadineschi allor mirossi
Esanime cader. Ma indarno io tento
Tutto adombrar il lungo filo immenso
Nè interrotto giammai di tue venture
Chieri, dal dì, che ad incurvar la fronte
De’ semidei Sabaudi appiè del Trono

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Fosti scorta dal ciel. Però sia meglio
Che al giusto gaudio, che m’inonda il petto
Sciogliendo il fren pien di stupore esclami;
O sovra quante alla paterna cura
Di magnanimi Regi ha il ciel commesse
Cittadi illustri, patria mia felice,
Ch’alla benefic’aura, al dolce impero
Di sì clementi Regnator mai sempre
Risponder festi di servente zelo
Di pronta ubbidienza, e di sincera
Inviolata fè costante omaggio.
Deh così piaccia a quei, che sopra gl’astri
Delle umane vicende arbitro siede
I sinceri esaudir caldi miei voti
Com’io ti bramo, e prego, che non prima
L’arbor regal, la cui benefic’ombra
Da sì lunga stagion t’allegra, e bea
Cessi di germogliar, che d’erbe il suolo
Il mar di flutti, il ciel di stelle, il sole
Rimanga de’ suoi rai spogliato e privo.