Pagina:Poemetti italiani, vol. I.djvu/229


217

Che d’infierir, non d’emendar bramosa
Qual grandin ria, che in verzier colto, e ameno
Cadendo a un tempo fa d’ogni vil erba,
E de’ bei fiori ampia indistinta strage,
Non altrimenti ella si ruota, e ingiusta
Tenton percuote, e d’atterrar pur gode
E falli, e pregi in un sol fascio avvinti.
Sorgo pertanto, e de’ sinceri tuoi
Sacro insigne Pastor, sperati applausi
Accorto Vate adamantino scudo
Farommi incontro all’importuno ed acre
D’imperiti Pantili, e stolti Fanni
Baldanzoso garrir; intento solo
A ricrear col non spregevol canto,
Nato da patrio amore delle muse
Fautor inclito, e saggio, e i buon Pisoni,
Cui delibar dal biondo Apollo è dato
Il divin miele, ch’entro i sacri carmi
Serbasi ascoso con mirabil arte
Piacciati adunque col pensier seguace
Dei detti miei venir a parte a parte
Di quest’inclita nostra avita sede
I pregi a contemplar. Vedi, deh vedi
Quale a locarla amena parte, e quale
Avventuroso più d’altri terreno
Abbian scelto i suoi padri, anzi gli Dei.
D’un piccol colle sul curvato dorso