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[p. 387 modifica]consequiva, et continua tristitudine, et l’animo di amaricata doglia indesinente affligere, il perché hogimai alcuna solertia et vigilante solicitudine non valeva, che esso vederme potesse. Et si acadeva (et questo raramente) non però comprehendeva minimo signo, né indicio in me d’amore, né di consentaneo dissimulamento, quale in duro silice non apparisse. Et advegna che il mio frigido core non fusse alieno. Niente dimancho Nymphe spectatissime, era materia rimota alla dispositione degli amorosi fochi, tenendo la mente mia totalmente indisposita, et inepta, a mi non si prestava alcuna cognitione alhora del summo et amoroso affanno, che Poliphilo da vehemente amore crudelmente strugendose pativa.


PERCOSSA POLIA DI PESTIFERO MORBO, A DIANA SE VOTOE, ET CONSECRANDOSE, A CASO POLIPHILO NEL TEMPIO LA VIDDE. OVE UNO DÌ DAPOSCIA SOLA ORANTE LA TROVOE. ALLA QUALE ESSO NARRANDO LA NOIOSA PENA, ET IL MARTYRIO CHE PER LEI AMANDO SOSTENEA, ET CHIAMANDO MITIGIO. ESSA PERSTANDO IMMISERICORDE IL VIDDE TRANGUSIRE A MORTE. DIQUÉ QUALE MALEFICA D’INDI PRESE CELERE FUGA.

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NIVERSALMENTE IN QUELLI DÌ GRANde strage di mortalitate de gli humani, et di qualunche etate promiscui, essendo per lo infecto aere corrupto da contagioso et internecivo morbo pestilente, una extrema multitudine moriteno. Et già atroce terrore, et spavento venuto sopra della morbata terra, et gli homini di terrifico mortale concussi ritrovandose, ciascuno solicitamente fora delle sue citate, fuga prehendendo, agli suburbani et rurali lochi fugivano. Laonde horribile di gente essendo uno exterminio, quasi sospicavasi che gli fetutini flati Austrini da la rosida Egypto non l’havesse apportata. Quando che per superfluo incremento del turbido Nilo, negli campi generoe multiplici animali, gli quali poscia putrefacti olenticeti, nel suo decremento l’aere infetorno. Overamente che il sacrificario di Argiva non havesse anchora gli bovi da sacrificare a Iunione perduto. Et di avenire quello che ad Egina vene. Et poscia il disio bello di Eacho. Et la proiectione facta nel Parnaso monte da Deuchalione, et da Pyra. Diqué per mia debile et maligna sorte di glandula mi sentivi nel pudico inguine percossa, piacendo per adventura ad gli summi Dii per mio meliore successo. Et essendose multiplicata la pestilente invasura inguinaria gravemente mi affaticava.

A iiii [p. 388 modifica]Per la quale cosa deserta da tuti, et relicta fui, si non dalla mia pietosa et optima Altrice, che restata adiuto, et ad veder era l’ultimo suspiro et exito del spirito mio. Et già sovente fiate implicata dal grave morbo, incomposite parole et sepiculi lamenti et gemiticuli variamente carivarendo et vacillante io i’ ritornava in me. Et quivi melio che io poteva et sapeva sinceramente dalla Divina Diana soccorso invocai. Il perché alhora a mi d’altri Numini non era notitia, né cultura alcuna se non essa Dea. Et cum multiplicate prece, cum la tremula voce puramente exorante precava. Alle sue sancte et gelide castimonie, cruciantime di grave valitudine pollicita, supplice me votai, et religiosamente di servire sempre agli sui sacrati templi, cum tenace castimonia. Si ella me miserata, liberava dal mortale contagio et morbo. Cum fermo et persevero proposito nella mente mia. Et cum tanto meliore sperancia, quanto che io me aricordai del benigno favore, che lla dicta Dea ad Ephigenia prestoe. Dummentre che Agamennone per Apollineo monito, ello la voleva in sacrificio immolare. Et gli pietosi parenti duramente collachrymanti, commota diciò ella et miserata, una fumifera nube interpose, reservando et Ephigenia, fue ritrovata la cerva. Dunche per così facta simigliancia io secura quasi, il suo sancto adiuto et difensaculo sperava. Et peroe non stete dilatione di tempo, che io fui curata, et miraculosamente revalescente la salute pristina restituta. Per tanto a l’alte et spontanee promesse, et solemni obligi ligata, alla executione me intentamente exposi, et sedula gli mei professi voti adimpire. Non cum minore proposito de illibata conservarme, che le Matrone negli Thesmophorii, negli strati degli folii di Agno arbore dormiente. Né cum menore divotione et religione, che Cleobis heberon et Bitone. Et intromissa nel sancto tempio, et nel consortiale convento et solitate de molte altre virgine puelle ricevuta, che a quella Dea pudica et mundamente famulavano. Incominciai et io sedulamente cum epse di visitare et humilmente le Dianale Are venerare. Onde la più bella parte quasi dela mia fiorentissima puellitia et piacevole etate consumando negli casti algori. Intervene che Poliphilo nostro fervido et insolentemente inamorato, tuto questo intervallato tempo, che fue uno anno et più, il mischino sempre stete discontento et in cordolio. Postea che più ello il mio aspecto, et gli biondi capegli per alguno pacto non poté revedere, et essendosi islontanato dal mio fredo core, et più diviso che Abila da Calpe, et del mio sterile pecto d’amore, fora abraso, et totalmente diluto, et dalla mia reminiscentia obliterato, unque ne veniva nella mente mia. Né più né meno, immo non era così liturato dagli parieti dil tempio della Bona Dea, gli scripti et dipincti animali mascoli, et lo ingresso di qualunque vivente excluso, quanto fora del [p. 389 modifica]mio core deleto et exterso era omni cogitato di esso Poliphilo. Como si anchora l’aque di Letheo filio di Phlegethonte potate havesse, né meno quale si annulata fuss’io dell’annulo del bono Hebreo, come l’amorosa Ethiopessa obliviosa. Ma esso che acerbamente di cieco foco era, et di stimulante amore vulnerato, et della Cupidinea lancinatione il pecto lancinoso. (Io non intendo chomo suapte l’intellecto il poté imaginare, o vero che la sua favorabile fortuna gli prestasse benignamente la comosa fronte, che esso doloratamente strugientese, et in asperitate d’amore consumantese, et in lui il sevo Cupidine intemperatamente domesticatose) me ritrovoe nel dì della mia sacra dedicatione, cum alquante altre virguncole consecrarme. Nella quale solemnitate solito è la procace et turba giuvenile agli sacri spectaculi avidamente convenire. Et di me chiaramente avidutose totalmente se perdette. Daposcia ello per questo affectuosamente sperava di haver ritrovato suadentesi dil suo infiammato core rimedio presentaneo et opportuno, tamen ignaro che fare egli dovesse. Si non mirare et remirare cum intentissimi obtuti la gratissima testa, cum decoramento delle flave trecce. In cui decoramento esso summamente collocato havea solidamente et fabricato, omni suo ameno et delitioso piacer, et contento felice et determinato, et fixo pensiero. Ma perché d’indi in retro che religata me hebbi cum votivo core agli sponsati voti, da homo unque, overo rarissime fiate più me lassai vedere. Ma celatamente et la velata facia obtecta, cum occultissimo recesso, et accesso al sancto tempio, et quasi incognita per lungo tracto di tempo, opera dava di riservarme inconspicua. Poliphilo misello amante che non appretiava più la gratiosa vita, che la spaventevole morte, computando il dì in anno per longo indugio di non poterme rivedere, tuto anxio et perplexo, ma cum constante animo pertinace, tantillo astutamente, et cum provida et insomne disquisitione et diligentia. (Quale homo invinculato in horrendo ergastulo detruso solo intento alla fractura per fugire vigilantissimo, et quale egrotante alla sospitate desideroso intende alla evasura). Sapé ello tanto angulatamente pervestigare explorabundo. Et forsa dal volante Amore directo ad tanta pervigile excubia, che nel tempio uno dì, ove sola rimansi ad orare. Lui bindato di excessivo amore, et orbato da focoso desio. (Quale animale sencia discurso il fine non pensicula del suasivo appetito) moribondo accesse, là unde non più presto dinanti di me il vidi, che properamente contaminata el mio indisposito core, como frigido Adamante, che per incendio non se altera rigiente se geloe, più algente divenuto che la petra Porphirica. Et cum animo immite et efferato, spreta et stupefacta omni pietate, in grande odio in lui convertiti l’animo mio. Per aventura più [p. 390 modifica]atroce et inhumano di quello di Etheocle et Polynice, gli quali inimicissimi mutuamente occidendose, cum reciprochi vulneri, et nel ardente rogo, gli cadaveri sui proiecti, per alcuno pacto inseme se poteron cremare, finché separati elli non fusseron, cum aperto indicio nella morte ancora del infracto odio, et più crudele di Isiphyle, né tanta sevicia hebbe Horeste verso Clitemnestra. Et esso me pietoso riguardando remirando, semimortuo io sencia fallo il vidi, et le sue carne cum erubescente dolore impallidire, et dalle extremitate il naturale calore fugirsene, et fortemente di mortale accidente invadere. Et quanto horamai esso valeva, cum gli pauculi spirituli trovandose, et cum debelecia et laxitate, et cum il volto discoloro, in me cum summissa et tremula et sola rimasta vocula disse tale tenue parole, non sencia lachrymamento et sospiroso consortio alle eliquante lachryme. Heimè Polia Nympha Callitrica. Dia mia. Core mio. Vita mia. Et lanista dolcissima di l’alma mia. Habi pietate di me si nella tua diva natura et nella tua singulare bellecia, vive quella virtute, che l’alma mia, como ad solo nel seculo electo precipuo et primario signore, non renuente, ma festivamente offerentime inclinoe arendevola. Hora movite placabile, benigna, et mitifica, soccorrendo agli mei gravi martyri. Imperoché io evidentemente cognosco, che si a quelli hora opportunamente propiciata non sovenni, giammai omni sperancia truncata, del tuto me vedo perire, per non poter tante mie triste pene incessante tolerare. Et per novissimo refugio di questo, nel presente il morire meglio mi fia, che erumnosamente et sencia il tuo amore vivere. Et così più presto me hilaro expono perire, che sencia la tua optatissima dilectione, così miseramente la nocua vita vivi, perché meglio è uno propero interito, che diutinamente morire. Et si per caso Nume alcuno cum sevitia inexorabile me preme, almeno licito mi fia per te morire, si licito non mi è il dolce vivere, perché semota essendo da gli ochii mei la tua angelica et venerata presentia, et sublato et partitosi quel verace unico, et solacioso dilecto, che io di quella avido, et non saturo prehendeva. Quale più damnosissimo male, et di questo più exitiale unque potrebbe sentire? Et però a questi mei asperi, et insuportabili langori, non più sperava di potere opportuno rimedio consequire, si non quando gli benigni cieli te rivedere mi concedesseron, perché altramente dela mia tediosa vita aspre ruine vedeva invasure minitante. Et per tanto quale damnato il capitale colpo inevitabile aspectando, quasi non se dole, dedi et consegnai la misera vita mia nella mano delle terrifice sorore, distemperato et più furioso alcuna fiata per rabido et stimulante amore, non fue Atys et Pentheo dalle sorore et dalla mysera Agave gionto, perché io me vedea relicto, quale Achimenide lassato da Ulysse tra Scylla et Charibdi. [p. 391 modifica]Et tanto me exacerbavano gli urgenti ardori nel intimo del core mio rebulliscenti, non havendo altro bene da sperare et desiderare, salvo che te sola Polia precipua et valentissima medicina. Et io era inscio di te, privo di te, relicto da te. Et quanto più excogitava della ingrata absentia della prestante forma et della celeste belleza, et decorissima facia, et del cumulo elegante delle tue eximie virtute, tanto più mi accresceva pena et amaritudine, non le potendo fruire. Per le quale cose, o me misello amante, cum tanto impeto, inconsulto et precipitante acceptai, queste horrende iniurie et fallace blandicie, et subdoli allectamini d’amore, velando et subtegendo la amaritudine, et inquietissima agitatione, che d’indi alcuna fiata, immo più delle fiate invasivamente ne doveva consequire. Et peroe puramente havendo, et cum tanta tolerantia voluntariamente per te Signora mia Polia dulcissima, queste sue asperrime insidie suscepte, me hano facto poscia iniustamente rimanere, heu tristo me, tanto interposito di tempo senza rivedere te tuto mio bene tuta mia speranza, tuto il mio consolamine, te solacioso ergastulo del mio core, et senza il spectaculo dell’eximio et venerabile adornato di questo tuo bellissimo capo, senza intuitione di questo tanto gratioso aspecto, et insigne et mirando simulachro. Quale Arbonense laco di Aphrica absentantise il Sole, l’acque dil quale fervidamente bullino, et nella sua presentia nel meridie, algente se infrigidano. Cusì io nella tua absentatione Polia Sole mio irradiantissimo, io tuto adusto infervescente quale liquabile cera me strugea liquabondo. Et hora nella tua Solaria presentia di horrore me gielo. Diqué pensicula alquanto Polia delitia et colume mio, che tanto protracto di tempo in suprema angustia et formidabili periculi del vivere mio me ho ritrovato. Il quale vivere per tuo amore et perpetuo servitio libente io riservava, a magiore periculo che le bionde et mature frugie negli spatiosi iugeri, a periculo degli crepitanti fulguri, et degli corruscanti tonitri, et degli corruenti Imbri et spiranti flabri rimangono. Et a similitudine della serpente et discola Hedera il vetere populo amplexante, d’indi giù extirpata et divulsa, non per se stessa poscia salibile, corruente all’humida terra iacendo molle et debile, et lentosa rimane. Et quale scandolosa vite sencia il suo pedamento et pertica suffulta, et senza il grato Ulmo prostrata incumbe. Cusì né altramente sencia te mia firmatissima columna et colume pila et sublica constantissima. Alla quale apodiato havea amorosamente inflexibile, et cum obstinato proposito la vita mia. La tua absentatione dunque, causa è che io prolapso al morire cusì derelicto me trova. Per la qual cosa, tanto ampliato se era il furore mio, che el non permitteva unoquantulo di persentire il grave dolore, immo più stimolosamente exagitato et puncto dal solicito Amore [p. 392 modifica]me inferociva più validamente ad maiore tolerantia. Niente dimeno fingeva multiplice, et varie cose nel animo mio simulando prosperamente venture, molti subsidii, solatii, et suppetii meco verisimili componeva, et cose di mira magnificentia d’amore a mi medesimo largamente prometeva, et tuto trovo fallace speranze, et inani cogitamenti. Onde divortiata la tua eximia, et tanto illice presentia, et da questi tristi occhi abstracta dedi primordio de inchoamento di medulito distrugere il basiale suffulcimento, della vita mia, et di percotere o me amarissimamente il pulsante pecto, sospiroso tonante, cum crebri singulticii anhelante. Et quale inane harundine, overo canuscula della sua alma, che in te sola iace et vive, me ritrovava. Et più dille fiate contristato, non sapendo che diciò io dovesse fare, io plorava lachrymando, et tra me ingemiscente, te inimica di ogni mio quieto bene insimulava, te cagione di tuti questi errori, et erumne incusava, te degli mei ardenti amori perfuga te hoste dolce di mia salute calumniava, et quasi amente et maniaco coacto, contra te l’ira cupidanea provocando. Come ad attroce, et crudelissima, le sue sanctissime facole protervamente spretora et sola cagione degli damni mei estimo. Audito patiente tale ragionamento contra me fina a questo puncto, ignara di simile cose, interrumpendo et il suo molesto, et displicibile, et ingrato dire, et le mie precatione, senza non solamente responderli, ma ancora per la facia non spectato, indignabunda erubescente subito me levai. Et d’indi lassatolo parvifacte come vane parole, io fugiti deridendolo. Ma il dì successore venuto, arbitrando che ello non perseverasse, alla pridiana invasione a molestarme. Non più rato io nel dicto loco orante veni. Ecco che io respecto esso cum plumbea et trista facia, cum il medesimo modo a perturbarme aggresso, cusì similmente suspirulante disse temporio. Heu me Polia bellissima, immo conspicuo exemplare di qualunche bellitudine, commovite mite hogi mai, et pia a tante mie lacescente pene, le quale senza intercalamento, et dì, et nocte, et incessante me affligono, et ad te venire me constringono. Et il tuo indecente acerbito core humectalo in tanta duritudine, et uno pauculo molicula. Et repugnando non te insurdire agli mei iusti desii, causati per amore che le tue non mortale belleze hai diffuso per tuto me doloroso. Et ancora extrica, et solvi gli implicatissimi vinculi della tua tenace mente. Et ridute et disponite misericordiosa di ristorare conservando, cum equivalente dilectione questo poco del fluctuante et periculoso vivere mio, consummentise, di nocturne lachryme, et anihilantise da diurni languori. Et per tanto non volere te prego isvillire la tua non humana conditione per attrocitate, monstrantite contra chi sì dolcemente ardendo, te ama, te desidera, te venerante cole. Perché essendo ingenua excessivamente bella, et di ogni virtute, et elegantia decorissimamente insignita et [p. 393 modifica]prestantemente dotata, et de etate florentissima, et ad agli amorosi mysterii acceptissima. Dunque non infuscare tanti amplissimi muneri dalla benigna natura, cum improba pertinacia, et impia obstinatione, a questo dolce, ducibile, et molliculo sexo denegata. Como heri senza ragione contra me infelice, te rea dimonstrastii. O me heu me Polia precipua domina del core mio, si tu una minima portiuncula sentisti, et si sentire questo fusse crudele et illicito, almeno corculo mio imagina sentirlo, coniecturando queste conquerule et lamentabile parole, non d’altronde procedere, si non dal intimo cruciato del amoroso, et mortiferamente percosso core cum più letale percussura di Philoctete. Per la quale così dolorosamente patisco per questo morsicante affecto, tanto continua pena in me tribulosamente corrodendo più che la rodente Tinea agli lanacei indumenti. Et più che sitibonda Eruca nel liquore delle pallide fronde de Minerva, et più che rosicante Teredine nel trabe ceso, sotto lo hirsuto Ariete. Et più che Uredine ad gli arbori et ad gli cariosi stipiti. Et più che mordicante Terma nella Suilla carne. Et più che croceo Rugine al duro Calybe, et più che de spuma le canescente unde impetuosamente le petracee ripe demoliente. Et è ad me più infesto che Anteo in Libya. Et allo opido Lixo del promontorio Ampelusa, overo Tinge et cum più dira pugna che le Grue agli Pygmei. Et per questo recensito modo, gli anni della mia celibe adolescentia infructuosamente dissipo. Et così da crudele amore, in me succenso diuturnamente me crucio. Ad pegiore stato et conditione, che le insensibile creature ritrovantime. Quale le virente plantule sotto il torrido Sole, nel feroce Leone inuste, et quando Sirio è nela bucca dell’ardente Cane. Le quale poscia, nella succida nocte dal matutino rore irrorantise, se ricentano, et per la roscida aspergine ritornano vivificate, come si pridiana lesione sentita non havesseron. Heu me misero amante, per tuo amore Polia mia audi, continuamente nel vespero me accendo, nel crepusculo me tuto infiammo, me cremabondo nel conticio ardo, nello intempesto me consumo, et nel gallicinio como cosa cinerea me sento. Ma che fae poscia il tuo tristulo Poliphilo o Polia mia optatissima? Similmente per tuo amore così in me acerbito, nel matutino in suspirosi pianti me commovo, et nel diluculo in quelli tuto perfuso algentemente gelato me trovo, nella corruscante aurora, la mia sterile et noverca fortuna io maledisco. Et il mio ardente amore causato dalla più elegante et formosa Nympha del mondo, gratulantimi io benedico, nella fresca matutina ancora accenderme incomincio, tuto infiammato me trovo il novo dì ricentantise, nel meridie languescente, morire me sento, senza specula di alcuno adiuto del mio adverso amore, et senza alcuno consolamine in tanta granditate di ardore, dunque que constantia si ritrovarebbe, et corpo robusto, che in tanti et tali supplicii evadere duraturo potesse? Ma senza dubio si el non fusse animula mia bellatula et dulcicula, che solo di te imaginando fingo, et in me mentisco uno suave dilecto [p. 394 modifica]et uno piacevole figmento, già islocata l’alma liberamente demigrata sarebbe, quale nel presente a quel puncto disposita io sento adventare. Et per tale modo provo alquanto il conquassato core ristorarse, et uno poco respirare. Di subito poscia me vedo totalmente frustrato et relicto inane et vacuo di omni subsidio et iuvamine. Et così orbiculariamente negli predicti agitamenti recidivando passano et fugano gli dì mei, questa exasperata vita dolorosamente vivendo. O me sovente fiate cum industrioso et sagace cogitato, me vorei da tanto molesto pondo sutrarme, et da questo urgente fasce et premente iugo, et da sì dolce pensiculare di te, et da questa exitiale subiectione liberarme, tentabondo. Heu me alhora più irato et più indignabondo me di mali errori incapistra Cupidine, et contra la tentata fuga più vigile, et più intricantime inviluppando, di non fugire impedisce. O bellissima sopra tute prestante Nymphe ad gli superi piacesse hogimai da te più presto essermi la odibile morte data che nel presente in tanta exasperata amaritudine non exaudissi queste mie amorose et iuste petitione cum affectuose precatione, et prolissi lamenti, dala subministrante occasione producte, già più di intro il cremato core concepte et coacervate. Il perché Polia di venerato dignissima, bella cosa et eterna gloria, et preclara laude, per tuo amore morire mi suado, et per inconveniente feritate di Cupidine. Il quale iuridicamente perdonar mi pole, si in questa mania improperando esso et la sua crudele et malefica potentia maledicesse. La quale me sì forte al tyrannico arbitrio delle sue urgente et fallace lege hae sottomesso et presso. Et haventime in così forte fiamma captivato, retrogrado volante, per tale modo me hae spoliato et deserto di ogni adiuvamento, et di ogni quiescentia destituto. Daposcia in un momento penitendo quelle imprecatione et maledicto revoco, territo temendo, omè, che ello in me più impiamente non sé ad iracundia provochi. Et poscia più fecundo pena al mio core et doloramento non fermentisca. Et che esso non accendi più il mio dilecto, et ardente disio della tua conspicua elegantia et legiadria. Et da l’altra parte te intractabile et meno pia come al presente suspico. Et quando questo, o me io premedito considerando intrinsecamente la hesterna impietate sencia dubio derivato parmi essere tra la bucca cum attrito di denti sonace et spumea del Apro Calidonio, et tra Phitone horendo, et tra la framea leonina, che elli la carne mia lancinanti devorano. Et parmi di audire tristamente summurmurare l’alme inferne, et tute le infernale furie, et la spaventevola Proserpina di insinuose vipere Cesariata, et il tricipite Cerbaro, et lo interno Plutone et Acheronte disgratiato tartareo traiectatore al tremendo Schaphidio invitarme ad navigare le Styge onde di Letheo et Cocyto al tremebondo iudicio di Minoe, Rhadamanto, Eaco, et Dite. Ma ultra tute queste cose abhominabile, uno più pestifero et formidabile accesorio nella mente me offende, che temo essere da te, come heri etiam hogi repudiato. Heumè che [p. 395 modifica]pegio? In veritate niente. Et così tuto me impavorisco, et tuto me perdo decisa qualunque sperancia. Et talhora me assicuro dicendo. In me di Ixione non sa trova la falsa iactancia, né quella di Anchise. Né la insolentia di Salmoneo. Né li sacrilegii di Brenno, et di Dionysio Syracusano. Né la impudentia di Echo. Né la improba loquacitate di Syringa. Né la temeraria audacia delle Piche. Né la stulta confidentia della textrice Aragne. Né la crudelitate delle filie di Danao. Dunque perché Cupido contra me sì reo et sì diro sì sevissimo palesemente se dimonstra? Perché tanta deceptione ad gli teneri, et creduli amanti, offerirse cum tanta dulcitudine simulata, cum tanta fallacia di mortifero veneno et pestifero confecto illito alla pernitie? Non intendando misero me del maligno fato, et exitiale sorte il suo exito et exitio alla mia paucula vita imminente. Et ad quale clade la Fortuna me intenta non cognosco. Né posso sapere, né provedere, cum quale calamitate, cum quale erumne, cum quale lucto et merore som implicato, et allo eterno pianto proscripto, si tu mia precipua sperancia non mi soccorri nelle presente angustie devoluto et prolapso. Onde considerando questo effecto d’amore, disproportionato, a quella causa, non posso per alcuno pacto in la cognitione di quella venire. Imperoché questo amore, mi apparve cosa dulcicula, ma lo effecto ch’io sento è summamente amaro. Non intendo dunque che cosa sia questo monstruoso amore. Si non che io vengo in coniectura che tu Polia consenti alle tormentose angustie, né però nel volto tuo angelico, alcuno indicio vedo di pietate et clementia. Et per questo solamente fugire per disdegnio l’alma exasperata sento. Né più la posso sustentare, perché io perdo gli gelati spiriti, virtute et valitudine. Heumè dunque infelice amante sencia pare erumnoso. O sopra qualunque amatore calamitosissimo, io dinanti ad me vedo la obscura morte parata minitante, dell’aspecto de la quale territo, consternato et oppresso, per te sola sperancia del vivere mio che così essere mi suadeva. O fallace. O iniqua. O perfida, tu me hai conducto in questo amarissimo puncto. Heu Polia. He mia Polia, che debo più fare? che altro effugio, né soccorso valeo tentare? a quale lato voltarme posso? Heu Polia adiutame che ad me medesimo infelice sencia te non posso prestare auxilio. Per la quale chosa me sento perire. Et sublata la misera voce cum le promicante lachryme, misello, le ultime parole terminate, in terra prolapso moritte. Hora in questo solo extremo potere che lo homo tuti gli altri membri et sensi perduti pientissime Nymphe sola la dicacula lingua valorosa si rimane, fece longi lamenti molto meglio di quello io hora posso replicare cum tanta amaritudine di core pietosamente illachrymando, molto più che il pianto della misera Ariadna che il filio del celeste Iove commosse, et dicta la suprema parola, per me tuta subito io sentivi [p. 396 modifica]diffundere una obstinata frigidecia, et effecta rigibonda contra lui et impia, et ad gli sui supplici rogati sorda, cum displicebile et torvo aspecto et caperata fronte mirantilo. Durissima più che Daphne. Più scelerata di Medea. Più iniqua di Atreo et Thyeste. Più dira di Theseo. Più perfuga di Narciso molto più aspera di Anaxarte al suo Iphi crudele. Et quivi tribulantise et amaramente dolorantise, cum gli ochii grossissime lachryme stillanti, et cum sonaci suspiri, contra la mia sevitia et ferina duritudine, querulante passionevolmente lamentantise, et contra il mio obstinato silentio, solo di dirgli una responsiva paroletta, ma ad qualunque suo exorato le mie aurechie surdibonde et obturate teniva. Onde diciò in me non era alquantulo di vestigio di pietate per la mia pertinace voluntate captivata nel mio diro et saxeo pecto più che la silice di quel sacro sepulchro, non per altro modo che si io dil fiume degli Citoni potato havessi, dunque avidutosi di questo, perdita omni sperancia, et absumpte le naturale forcie non potendo più hogimai resistere, né ala vicinata morte obviare, respectante nel volto suo, grande merore succrescere una pallidecia et squalore appareva, cum gli ochii in terra defixi dimonstrando horamai philtrato fastidio et tedio di guardare la amicabile luce, et le macilente gene, già madide di liquanti rivuli di pianti, il vidi cassitare in terra, et prostrato obmutiti gli tubanti sospiri, cum le gemente voce, rachiusi gli somersi ochii allato me se morite.

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Per la qual cosa non dimota uno quantulo, però del mio fero proponimento, presentialmente vedendolo transgusito, altro diciò signo di compassione di esso havendo, se non dare opera cautamente di fugire, et lassarlo a che l’intravenisse, ma ardeliamente presolo (O immanitate più che ferina) per gli sui fredi pedi, illicitamente scelesta in uno angulo del tempio, per me nepharia impiato et poluto, io cum tuto il potere rivocato, trahendolo i lassai, et relicto senza altro polincimento io solicitava ocultamente fugire. Diqué molto d’intorno me mirato, cum gli ochii pervagava, né vedendo, né alcuno sentendo fora della Sancta Basilica evasa, per devie strate, cum grande fatica d’animo disagonata, me ingegnai d’indi dalla longa partirme, et prestamente, et veloce, forsa più che Hippa al mio palacio, qual conscia malefica remeare.

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