Hypnerotomachia Poliphili/XXV
Questo testo è incompleto. |
◄ | XXIV | XXVI | ► |
POLIA ALQUANTO EPILOGA LA SUA IMMANITATE, ET CHE FUGIENDO FUE DA UNO VERTIGINE SUVECTA, ET SENZA AVERTIRE PORTATA IN UNA SILVA. OVE VIDE FARE STRACIO DI DUE DAMIGELLE, DICIÒ ISPAVENTATA, PER QUEL MODO AL SUO LOCO RITORNOE. POSCIA DORMENDO GLI APPARVE DA DUI CARNIFICI ESSERE RAPITA. TERRITA PERCIÒ MOVENTISE DAL SOMNO SE EXCITOE LA NUTRICE ET ESSA. LA QUALE UTILE CONSIGLIO SOPRA QUESTA CAGIONE LI DETE.
ERITAMENTE POLIA ESSENDO A QUEsto passo divenuta, non poté moderarse, né continerse, che alquanto piatosamente ella non suspirulasse. Et più volte parlando negli amorosi ochi tirate le lachryme, et le rosee guance alquanto fluxe, commosse provocando et similmente le circumastante Nymphe a compassione del doloroso amante Poliphilo, che cusì tristamente egli per vehemente amore, et excessivo dolore fusse perito, trasseno diciò dal profundo del tenero core amorosi suspiri. Et in me gli placidi et humecti ochii benignamente convertendo, quasi rea damnavano Polia. Ma pertanto avide più essendo, la fine di tale iniusta cagione d’intendere. Et facta uno pauculo di morula, elle solicitavano, che essa il suo gratioso parlare sequitasse. Et quivi Polia morigeratamente accepto il sutilissimo sudariolo, che dagli candidi humeri pendeva, gli succidi ochii terse, et le purpurissime gene asucte. Et interdicti gli caldi sospiri, et affermata la suave voce, cum matronali gesti per questo modo sequendo disse.Beatissime Nymphe, audite grande sevitia, che io non so qual animo mansueto et pio, che hora contra me iniuriabondo non se alterasse. La divina ultione alhora ove era absconsa? che per mia malvasia obstinatione, et dura pervicacia morisse il mio dilecto Poliphilo indignamente. O celeste vindicta perché stavi tu alhora tarditata a dimorare? Che dritamente contra al mio iniquo et perfido animo in quel puncto non te dovevi sopire. Ma bene non stette peroe guari di tempo, che io manifestamente preparato vedeva le succense ire della offensa Dea, et del suo sagittante filio, si non expiava la mia rude iniquitate, et che candescendo il frigidissimo et rigente core, quel Sanctissimo Nume, non havesse divotamente placato, et che fora del mio pertinace proponimento, degli falsi suasi et vani pensieri, et la mente mia di fallace et subdole oppinione opportunamente non la havesse ritracta. Dunque solamente prehendendo celata fuga, essendo pure il core mio duriculo persevero, et alhora intrectabile, la mente insuperabile, la voluntate aspera et seva più crudele di Phinao, et di Harpalice frigorissimamente il pecto mio glaciato havendo, più che il duro crystallo de l’alpe di septentrione, et più di Gagite rigido, l’ova della Aquila conservante. Quanto si me inspeculata nel spaventoso speculo di Medusa havesse. Il quale era di amore inhospite, et di pietate aspernabile. Che ello cum queruli eiulati et voce precarie mestissime, et cum frequentia di più pietose lachryme che le Hyade non pianseron. Et cum più dolce modo et più angustiose et lamentabile voce a commoverme usando, che non proferite cusì Britannico le sue infelicitate al populo cantando, humilmente desiderando precante adiuto et mercede in tanti sui assidui langori, et lachrymosi guai, cum ogni conato di ritrarme et da l’aspera, et dura, et atroce inclinatione sedurme propiciante insistendo. Ma io inexorabile digli sui cruciati, cum dulcissime supplicatione, et cordiale execratione, et amorose prece. Et incontaminata di ogni sua angustia perdurabonda, spreta et renuente ogni humanitate, et repugnante di qualunche consenso, non fue modo né via, che ello in quel nephasto dì potesse uno quantulo, quel rigido et Tigreo pecto domare, né commovere, molto più che si converebbe inadulabile, et maledicto. Nel quale Amore per niuno modo se poteva adherire, né approximarse. Spreta et stupefacta la potentia sua, tanto diversamente ad gli humani cori applicabile signorigiante. Quale cera, quantunque viscabile, nello udo saxo affigere impulsa, et compressa non vale. O formidoloso troppo, et acerbo caso, per il quale non me terriva, meno me moveva. Et me di tute femine sevissima, niuno stimulo, alcuno indicio di dolore et pietate excitava, dalgli ochi niuna lachryma exprimeva, gemito alcuno provocava, per niuno modo valeva sospiro alcuno, nel diro pecto componere, né ritrovare. Nel quale non poteva gli freni della incarcerata pietate rumpere. Onde Phebo quasi già volendo le onde della extrema Hesperia cum la sequente Vesperugo ritrovare, postponendo Poliphilo extincto, come suspicava, al perfugio intendeva conscia et rea carnifice del suo amante core. Per la qual cosa non nimio porrecto tracto dal recensito Phano festinante ritrovantime cum sinisterrimi auspicii, et gli puellari passi accellerando pernice. Ecco che repente disaviduta, da uno ventale vertigine rapta et turbinatamente circunvoluta, senza altro nocumento et lesione alcuna, in uno agreste Nemore, arbusto, et umbrifico bosco, di proceri et vasti arbori consito, et silvestrato, di horridi spini luco, molto impedito et invio, in B ii momento fui per l’aire deportata et demissa. Et quivi diciò cum il batente core, oltra il credere ispaventata di tanto repentino caso et tanto insperato, incominciai di sentire quello che ancora io voleva, guai guai fortissimamente exclamare, cum feminei ullulati, et voce flebile, et pavurosi lamenti, quanto più valevano. Quale sentite et vide il Nobile ravennate. Ove senza inducia vidi disordinariamente venire due dolente et siagurate fanciulle, indi et quindi, et spesso cespitante, summa provocatione di pietate, ad uno ignitato vehiculo angariate, et cum cathene candente di forte Calybe al iugo illaqueate. Le quale duramente stringiente le tenere et bianchissime et plumee carne perustulavano. Et decapillate nude, cum le brace al dorso revincte, miserabilmente piangevano, le mandibule stridente, et sopra le infocate cathene le liquante lachryme frissavano. Incessantemente stimolate da uno infiammabondo et senza istima furibondo, et implacabile fanciullo. Il quale alligero di sopra l’ardente veha sedeva, cum l’aspecto suo formidabile, più indignato et horribile non fue la terribile Gorgonea testa ad Phineo, et alli compagni, cum beluina rabie et furore, et cum uno nervico et incendioso flagello, feramente percoteva, senza pietate stimulante le invinculate puelle. Et cum magiore vindicta di Zeto et Amphyone, contra Dirce noverca.
Le quale errabonde et inscie, intentissime alla fuga per devii et avii lochi, et per densi spini ire coacte, et per illacerante et mortale fragritio et per l’ardore del infocato carro molte fiate exorbitante scalpitando per gli arbusculi, da capo a piedi laniate, et di sangue gli membri discussi piovevano, et le lacerate carne. Et il vermiglio et fumido sangue, copiosamente spargiersi per le acculeate sente, et per la terra io vidi. Et disordinatamente per le folte et puntute vepre da furiosa rabie concite, mo qui, mo lì, malamente lo ardente et pondoso carro trahevano, che ancora crudelmente incendeva le molle et delicate carnule. Le quale non solamente erano cocte, ma como uno perusto corio crepavano. Et sì con vahu, et cridi miserabilmente affligentise ad alti clamori et pianti, et miserabili eiulati exclamavano, verse in magiore furia di Oreste. Diqué il scabroso et arborissimo locho, tuto degli pietosi accenti risonava, et hogi mai le mandibule restringentise, et raucitata la stanca et consumpta voce, non valevano più le dolorose exanime durare. Daposcia paucula hora, molti crudelissimi animali le iunsseron. Et il carnifice et immite fanciullo, doppo lungo et cruento stracio et immanitate delle sventurate et mischine adulescentule. Quale cruento et exercitato in simili carnificii, dell’ardente vehiculo di subito discese, cum una soliferrea et tagliente Romphea, solute dal molesto iugo, et grave trahere per medio del suo pulsante core. Ello spogliato di qualunche venia et miseratione, cum rigida et incontaminata severitate, subito tranfisse.
B iii
O spectaculo di incredibile acerbitate, et di crudelitate insigne, o inaudita et insolente calamitate, scena da spectare horrenda, di considerato miserabile, di sentire formidolosa et spaventevole, et di pensiculato aspernabile et fugienda. O me trista me, et meschina dolente, ove senza sperancia ad questi mortali periculi son io cusì venuta. Heu me afflicta et sconsolata, che cose sono queste maledicte et furiabile? che io real et apertamente i’ vedo? Per la quale cosa invasa da mortale spavento, dubitando di essermi approximata la statuta et decreta morte, incominciai alhora dolorosamente a piangere, cum copiosa frequentia di lachryme, et crebri et suppressi sospiri, et non sonori gemiti, aspectando et che ancora ad me non fusse facto simile dilaniamento, cum tirato obtuto observando, che lo irato, et atroce Puello, cum le hostice arme, et cum saeviente severitudine, me in quello loco essere connivando non vedesse latitante. Daposcia al micante et casto pecto mio, gli ochii lachrymosi alquanto inclinava. Gli quali io credeva hogi mai nelle irrorante lachryme conversi et liquati. Cum anxiose parole vacilante, interotte da singultato anhelito nel pecto tumido di soventi gemiti, contendendo di errumpere gli inclaustrati sospiri, cum la debilitata voce, et impedita lingua, tacitamente diceva. O giorno infasto et funesto. O dì formidabile et horrendo per tuta la vita mia al lucto et B iiii amarissimo pianto consecrabondo. Omè dolorosa et infelice, in che calamitate son implicita et intricata, in che stato me trovo, non vaglio explicare, chi unque vide la subdola fortuna, cum sì maligno et atroce aspecto? che debono per tale modo (O sancta domina Diana a cui servo) queste mie femelle et virginee carne impietosamente mactate et consumpte? Et il fiore della mia piacevole aetate, in questo dumoso et silvestrico nemore perire? Et cum tanto cruciato et saevientia la dolce vita finire? Hogi mai le feminile virtute sento detracte, il spiritulo caro dil suo loco fugirsine, et d’indi quasi dimoto a questo passo, omè omè amaricatamente plorando, cum uberrimi rivuli di lachryme (Humore peculiare sencia fallo foecundo et parato) riganti la facia, et il pecto madefacto, le mane disperata nella flava capillatura puosimi, cum odio del mio ornato, et sparsi gli crini illachrymava, et il bellissimo volto, cum le infeste ungue russando foedava. Et ultra mensura tribulantime, et affligentime, questo al mio grave dolore incremento accedeva, di non potere exaurare gli angustiosi lamenti et gemiti, et in tanta affligente et perdita sorte, et in tante cruciabile poene, non possi reserare il claustro del mio dolore, nel core impaciente di più continere sé. Et molto più che non era modo ch’io valesse investigare, questo turbulentissimo caso, et che inadvertente cum innoxia vectura deportata, pavida et trepida deflente, me ritrovasse illaesa, et sencia più sperare in quel medesimo loco, ove fui rapita et asportata. O me caelite Nymphe cogitate quanto alacre et contenta me ritrovai, non se presti alcuno intellecto di explicare, et alienata la mente mia del compassionabile caso (ch’io poco teniva) del miserando Poliphilo exanimato. Perché dalla vexata memoria terso et abraso in sé non lo servava. Ma solamente alle devorate fanciulle et impiamente occise, et asperrimamente stentate, teniva occupata et implicita la mente mia, et ad tanto iniquissimo carnificio. Non trovando prohibitione ad gli singultanti et crebri sospiri, né di sedare l’angustiata mente apto modo, a mala poena sequestrate le fluente lachryme, tandem io ritornai, non più viva che morta alla optata et secura mansione, la occorsa immanitate tacitamente succensendo nel core repetibile. Et l’ardente Phoebo incominciando il rotondo dorso del suo pernice et volante Pyroo et Ethon alla Hesperia ad dimonstrare, et gli crini d’oro nel croceo splendore ritingendo, il sereno coelo incominciando le irradiante stelle ornatamente a dipingere, et alle lunge et diurne fatiche, già
qualunche animale, il dolce et soporigero quiescere optava. Cum per tale simigliancia havendo io tutto quel spaventevole dì in gravissime pene consumato, et di sospiranti plorati tutto dispensatolo. Summamente affligendome, che fatale cagione poteva essere, che cusì insolita et dissueta, et impia immanitate, alle issagurate fanciulle fare vedesse. Et oltra questo, cum quale repente modo dal mio infugato camino fusse impedita, et per l’aire riportata. Tute queste cose, cum sollicitati et sospirulanti singulti distrectamente considerando heumè afflicta, o Nymphe foelicissime audite. Si non angossa et pianti et ancipite et doloroso vivere per l’avenire portento mi fusse, et fatale decreto arbitrava. Et obstupefacta per questo da stimulante timore intendeva, et per varii et turbidi cogitamini coniecturare. Non poteva per niuna via investigare la occulta causa. Conscia di ciò tacitamente tuto quel infoelice et nephasto dì ingemiscente fastidiosamente consumantilo el passai. Nel quale più presto i’ vorei havere trovato il pallido Corydone, che essere imbattuta a tante invisitate tristitie. Et quivi circundata da acerbi doloramenti, et copiosamente da molestissime poene oppressa, trafugata da me securitate qualunque, et non ausa per le nocturne fallacie sola dormire, et per la obscura et ambrosia nocte, meco chiamai la cara et reverita (in loco di parente) la Nutrice mia, nella quale deposita riposava, et collocato havea ogni mia fiducia et sperancia. Perché sola io per il passato, cum la mia Dea Diana pudica stata era. Hora ambe due essendo adventata l’hora, che la candicante Cynthia havesse relicto gli Lamii Scopuli, et le condense silve, et posto fine alle solacevole venatione, finalmente (occluso et obsepto il thalamo) ivissemo insieme alla nocturna quiescentia. Et quivi il pulsatile pecto, che ancora cum inquieti battimenti sepicule batteva, a pena in sé adunati gli spaventati et smariti spirituli. Et cum supreme fatiche et conati, rachiuso il largo corso delle rotonde et guttante lachryme alquantulo interdicto. Incominciai malamente et cum difficultate (sepicule da spaventosi interumpamini expergefacta) di dormire. Et nel summo et primo soporoso et molle somno demersa il laxato et conquassato corpusculo, perfuso dormiva nella tacita nocte. Ecco cum grande et strepente impeto ad me parve (quale si supposita al capo si fusse Eumete petra) di essere dimoti gli pessuli, et rapiti gli obiici, et da perfossori fracte le sere, et violentemente patefacti gli occlusi hostioli, et obserati limini della camera mia. Et intrare temerariamente cum concitato et celere grado adventando, dui horribili carnifici cum l’enfiate et tumide bucce, cum rude culto, cum gesti rusticamente atroci et ruvidi. Molto nell’aspecto suo effreni et displicibili, cum spaventevoli et torvi ochi, più di quelli dil mortifero Basilisco, grossi et rotondi, instabilmente stanti incavernati, sotto li hirsuti cilii et ingrottati. Le quale erano foltamente hispide, dure, et di lungi pili, qual Siloni. Havevano dui grandi musaci, cum gli labri dependuli, tumidi, crispanti, et crassi, del suo colore mortificati. Cum grandi denti maselloni, inequali, et feruginosi et fracidi. Como lo anticho ferro, dalle gingivie destituti, et abandonati, et dagli labri, che da quelli non erano protecti. Cum hiante buccacia bronchi come dentato Apro spumida nel venatorio, et di fetore sordente, cum l’aspecto manio et deforme. Di colore Pullo, overo Impluviato. Pieno di cossi et sulcato, degli sui capelli Hircipili, gli quali unctuosi et incomenti, nigerrimi, semicani sordenti, et como la scorcia di uno antico ulmo ruvidi appariano. Et le sue callose mane grande, insanguinate, et delibute et putidi digiti fedamente ungiuti. Quelle in me meschina puella saevamente appariano volere usare, cum crispante et caperata fronte maledicti et blasphemati, gli supercilii subducti, cum volto turgido. Gli quali negli robusti humeri ancora due intortile fune vastasavano. Et sotto il suo cingiere, erano intraversarii lictorali instrumenti securicule. Vestiti di Cyniphia sopra il nudo, quali io suspicava dil habito di sanguinolenti spiculatori, et pollutissimi homini. Et quivi cum atroce et terrifere voce baubare, como il boato mugire, nelle cavate spelunche sentivi, cum superbo et arrogante parlare et obstinato animo carinanti dicendo. Hora veni, veni superba et nepharia, veni, veni ribella, et ad lo imperio, degli immortali Dii adversaria nemica, veni veni pacia fanciulla, repugnaria et negligente della sua piacevolecia. Hai cativella cativella, che hora la condigna et divina vindicta di te crudele se farae, rea femina et grande straciamento. Sì como heri di matina vedesti di du’ altre (simigliante ad te) malvagie adolescentule degli sui membri lacere, et como pauculo instante ad te il simile fare vedrai. O me misera cusì perterrefacta per gli obiectamini cum iurgio prolati, Nymphe mitissime cogitate di quale temperamine alhora l’animo mio perterrefacto ritrovavase. Vedendo dunque nella Camera mia insueti et sì immanissimi et truculenti satelliti introgressi. L’advento degli quali molto più istimai spaventevole et assai più mi dispiaque, che al sacrificabondo Pelias l’advento del figlio di Tiro Nympha cum il discalciato pede. Che apena le rude et terrifere parole austeramente dicte, più me spaventorono, che quelle dil sfortunato Polydoro ad Enea Pio. Et cum magiore angonia, che Andromeda allo littore trovantime, et cum magiore terriculamento di Aristomene vedendo Panthia et Meroe testudinato. Incontinente in me extente le malefice et nervicose bracce, sacrilege et prophane, cum le mane sanguinarie et spurche, et pollute et perlite, per gli mei biondi capelli dihonestando ringibondi decapillandome, incominciorono impiamente trahere, senza alcuna clementia, che unquantulo in essi non era proma. Più spavento et terrore mi misseron, che alla casta Lucretia Sexto Tarquinio cum la evaginata spatha in mano la opprobriosa morte minitante. Laonde senza spirito, oltra il credere isbigotita, ad un'hora meraviglia et timore me incusseno gli diri et sanguinarii homini. In tanto che evacuata et exinanita ciascuna vena, al doloroso et moerente core concorse. Più timida effecta d'una dammula, et più pavida che il aurito et timoroso lepore, tra gli densi arbusculi, et ioncosi cespiti latitante, ode circum sé intorniato gli latrati degli saevienti et feri cani. Per la quale cosa senza mora dirottamente principiai ad alto vahu di piangere, et decapillata da quelli o me o me a cridare. Et volendo resistere al incendioso tiramento, io quanto valeva, le bracce sue aprehense ralentando, me sforciava, et cum le laese et tutte debilitate forcie adnixa di mitigare, il violento trahere degli furibondi homini. Più duri di Scyrone figlio di Neptuno, et più asperi di Phineo et di Polydecte Seriphio. Et per niuna prece et supplicamento volevano cessare, ma intendevano diciò trarmi del mio già madente lecto. Ma o me o me per Dio mercede et soccorso chiamando et suppetie, et cum gli nudi pedi et cum ambe due le mano renitente. Et elli più violentarii, rabiosamente adirati minabondi, offendando lo olfato mio, cum grande dispiacere, d'uno evomico putore, che movendose exhalava dalla Illuvie delle sue rancidule et putulente carne extrario et insupportabile, che Nauseoso evaporava cum odibile aspecto, cum la striata fronte feralemente terriculantime. A l'ultimo durando angustiosa et di moerore afflicta, in questo longo contrasto et altercamento affannata, et in amari pianti fortemente perturbata et exanime. Et forsa agitantime, et vertentime per lo incontaminato stratulo mio, tanto che la mia piatosa Nutrice che soporosamente dormiva, sentite per aventura le mie somnulente moventie, et mal intesi fringultiamenti, se excitoe, et expergefacta, et me excitoe dal furiale somno et inquiete nocturna, senza morula, me nelle ulne sue amplexoe, dimoventime del mio assido, et excitantime Polia figlia mia bellatula, Polia mia carissima animula, Polia vita mia et sanguiculo mio dicendo, che cose sono queste che tu senti? Subito amoto dagli ochii mei il doloroso, maledicto, et infelice somno, et la paurosa visione me svegliai, niente dicendo, si non mestissimamente suspirando dire. Heu heu me, vahu vahu me, ritrovandome tuta concussa, et piena di gravi langori. Et il conquassato et contaminato pecto mio, più cum frequentato et importuno palpitato era percosso dal vivace, et terriculato core, che il solicito Vulcano gli tremendi fulguri dil tonitruale et fulminatore Iove fabricante percute. Et di irrorante lachryme havea già humefacti gli candidi linteamini, et la sutilissima Camisia al virgonculo alvulo adherendo uda, era degli mei capilli inconcinna, cum l’alma afflicta in doloroso cruciato et lamentosa, da mortifero pensiero circumvenuta, et invasa. Né poteva diciò per qualunche via usare le mie force giovenile et exigue. Ma abandonata et intermissa da gli mortificati membri, del tuto prosternati, di grande lassitudine, più morta che viva, et quasi Clinica. Allhora il vivere non arbitrando gratioso, imbecille et destituta, et deplorata. Et poscia alquanto, poi che la benigna Nutrice mia, cum molti blandimenti adulante, et dolce precature, et femelli suasi (in queste cusì facte angustie vedendome) dulciculamente suadevami ad sublevamento, et ricevere conforto et consolamento. Quello che si fusse inscia. Et in quel puncto desiderosa summamente, et quello che mi sentiva d’intendere percupida, et cum anxia cura conquirente, et quello che se voleva dire tanta mania. Et tenendome negli sui senili amplexi, et brachiamenti, essa parimente doloravasse del mio male, et non inteso accidente. Et meco amaramente piangendo, doppo lungi et cariciosi blandimenti, et protracte mie angustie et afflicto, in me l’animo alquanto pusilamente rivocato, cum più spavento tremebonda, che fusse quello del supremo Iove, quando quel summo padre per gli Giganti si personoe in hyrsuto Ariete. Et la horrenda visione malamente, et cum suspiri sinconpando, gli narrai blacterando. Et il fortuito caso pridiano, et che dal violato Tempio ritornando cadette seriamente gli dissi. Excepto che della indebita et importuna morte di Poliphilo, como suspicava unquantulo non gli parlai. Ma bene che malivolamente ad Amore me haveva insulsa et blitea dimonstrata. Non più presto dunque ricontato questo hebbi, che ella pensiculatamente, et cum senicula peritia, la cagione suspicava, piamente refocilante, cum molte suasivole blanditie, la mente mia alquantulo sedata et pusillo tranquillata refece. Proferendose di tuti mei gravi et molesti langori, essere vera remediatrice, si io ad gli sui trutinati et salutiferi moniti arendevola, me prestarò observabile. Et quivi sublata di omni altro pensiero, et extraneo cogitato soluta, precipua et solamente, ad gli sui fidi et dolati consiglii sequissima imitatrice et cum miro effecto mansuetissima disciplinabonda, me offerisco. Si essa