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atroce et inhumano di quello di Etheocle et Polynice, gli quali inimicissimi mutuamente occidendose, cum reciprochi vulneri, et nel ardente rogo, gli cadaveri sui proiecti, per alcuno pacto inseme se poteron cremare, finché separati elli non fusseron, cum aperto indicio nella morte ancora del infracto odio, et più crudele di Isiphyle, né tanta sevicia hebbe Horeste verso Clitemnestra. Et esso me pietoso riguardando remirando, semimortuo io sencia fallo il vidi, et le sue carne cum erubescente dolore impallidire, et dalle extremitate il naturale calore fugirsene, et fortemente di mortale accidente invadere. Et quanto horamai esso valeva, cum gli pauculi spirituli trovandose, et cum debelecia et laxitate, et cum il volto discoloro, in me cum summissa et tremula et sola rimasta vocula disse tale tenue parole, non sencia lachrymamento et sospiroso consortio alle eliquante lachryme. Heimè Polia Nympha Callitrica. Dia mia. Core mio. Vita mia. Et lanista dolcissima di l’alma mia. Habi pietate di me si nella tua diva natura et nella tua singulare bellecia, vive quella virtute, che l’alma mia, como ad solo nel seculo electo precipuo et primario signore, non renuente, ma festivamente offerentime inclinoe arendevola. Hora movite placabile, benigna, et mitifica, soccorrendo agli mei gravi martyri. Imperoché io evidentemente cognosco, che si a quelli hora opportunamente propiciata non sovenni, giammai omni sperancia truncata, del tuto me vedo perire, per non poter tante mie triste pene incessante tolerare. Et per novissimo refugio di questo, nel presente il morire meglio mi fia, che erumnosamente et sencia il tuo amore vivere. Et così più presto me hilaro expono perire, che sencia la tua optatissima dilectione, così miseramente la nocua vita vivi, perché meglio è uno propero interito, che diutinamente morire. Et si per caso Nume alcuno cum sevitia inexorabile me preme, almeno licito mi fia per te morire, si licito non mi è il dolce vivere, perché semota essendo da gli ochii mei la tua angelica et venerata presentia, et sublato et partitosi quel verace unico, et solacioso dilecto, che io di quella avido, et non saturo prehendeva. Quale più damnosissimo male, et di questo più exitiale unque potrebbe sentire? Et però a questi mei asperi, et insuportabili langori, non più sperava di potere opportuno rimedio consequire, si non quando gli benigni cieli te rivedere mi concedesseron, perché altramente dela mia tediosa vita aspre ruine vedeva invasure minitante. Et per tanto quale damnato il capitale colpo inevitabile aspectando, quasi non se dole, dedi et consegnai la misera vita mia nella mano delle terrifice sorore, distemperato et più furioso alcuna fiata per rabido et stimulante amore, non fue Atys et Pentheo dalle sorore et dalla mysera Agave gionto, perché io me vedea relicto, quale Achimenide lassato da Ulysse tra Scylla et Charibdi.