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ochii mei il doloroso, maledicto, et infelice somno, et la paurosa visione me svegliai, niente dicendo, si non mestissimamente suspirando dire. Heu heu me, vahu vahu me, ritrovandome tuta concussa, et piena di gravi langori. Et il conquassato et contaminato pecto mio, più cum frequentato et importuno palpitato era percosso dal vivace, et terriculato core, che il solicito Vulcano gli tremendi fulguri dil tonitruale et fulminatore Iove fabricante percute. Et di irrorante lachryme havea già humefacti gli candidi linteamini, et la sutilissima Camisia al virgonculo alvulo adherendo uda, era degli mei capilli inconcinna, cum l’alma afflicta in doloroso cruciato et lamentosa, da mortifero pensiero circumvenuta, et invasa. Né poteva diciò per qualunche via usare le mie force giovenile et exigue. Ma abandonata et intermissa da gli mortificati membri, del tuto prosternati, di grande lassitudine, più morta che viva, et quasi Clinica. Allhora il vivere non arbitrando gratioso, imbecille et destituta, et deplorata. Et poscia alquanto, poi che la benigna Nutrice mia, cum molti blandimenti adulante, et dolce precature, et femelli suasi (in queste cusì facte angustie vedendome) dulciculamente suadevami ad sublevamento, et ricevere conforto et consolamento. Quello che si fusse inscia. Et in quel puncto desiderosa summamente, et quello che mi sentiva d’intendere percupida, et cum anxia cura conquirente, et quello che se voleva dire tanta mania. Et tenendome negli sui senili amplexi, et brachiamenti, essa parimente doloravasse del mio male, et non inteso accidente. Et meco amaramente piangendo, doppo lungi et cariciosi blandimenti, et protracte mie angustie et afflicto, in me l’animo alquanto pusilamente rivocato, cum più spavento tremebonda, che fusse quello del supremo Iove, quando quel summo padre per gli Giganti si personoe in hyrsuto Ariete. Et la horrenda visione malamente, et cum suspiri sinconpando, gli narrai blacterando. Et il fortuito caso pridiano, et che dal violato Tempio ritornando cadette seriamente gli dissi. Excepto che della indebita et importuna morte di Poliphilo, como suspicava unquantulo non gli parlai. Ma bene che malivolamente ad Amore me haveva insulsa et blitea dimonstrata. Non più presto dunque ricontato questo hebbi, che ella pensiculatamente, et cum senicula peritia, la cagione suspicava, piamente refocilante, cum molte suasivole blanditie, la mente mia alquantulo sedata et pusillo tranquillata refece. Proferendose di tuti mei gravi et molesti langori, essere vera remediatrice, si io ad gli sui trutinati et salutiferi moniti arendevola, me prestarò observabile. Et quivi sublata di omni altro pensiero, et extraneo cogitato soluta, precipua et solamente, ad gli sui fidi et dolati consiglii sequissima imitatrice et cum miro effecto mansuetissima disciplinabonda, me offerisco. Si essa