Grammatica filosofica della lingua italiana/Introduzione

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Grammatica filosofica della lingua italiana Capitolo I


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INTRODUZIONE


In ciascuna cosa naturale o artificiale
     è impossibile a procedere, se prima
     non sia fatto lo fondamento.



Pieno del sentimento di questa aurea sentenza di Dante, e avendo io riconosciuto che a noi Italiani pur troppo manca lo fondamento, mi parve non poter fare cosa più utile alla patria, di quella di sovvenire, giusta mia possa, a tanto difetto. E quì, acciò che ognun m’intenda, mi convien dire quello, che altri forse, per non offendere li più, si tacerebbe; e dal che me non terrà pusillanimo riguardo, non essendo io disposto a blandire lo errore per non dispiacere ai ciechi suoi seguaci. Dico dunque che generalmente, e anche da quelli che fanno un corso di studj regolare, salvo i pochi, non si conosce nè la grammatica nè la lingua italiana; non tanto per colpa nostra, quanto per difetto del modo di educazione; perciò che, sebbene si studii il Latino, il Greco, quindi si passa alle scienze, e si lascia indietro lo fondamento, cioè lo studio della grammatica e della propria lingua; venendosi ad imparare le predette per comparazione con una che non si sa. Chiunque ragioni potrà pertanto immaginare di quanti errori possa esser cagione il mettere una base imperfettissima alle nostre cognizioni1; che, finalmente, noi non abbiamo a parlare, a disputare, nè a scrivere in greco o in latino2. [p. VI modifica]

E veramente io non mi posso dar pace, quando considero che, sebbene anche fra noi si cerchi di migliorare il sistema d’educazione, e in ispecie quello delle fanciulle che è il più difettoso; sebbene sian molti che fanno ammaestrare le lor figliuole in quelle scienze e in quelle arti che tanto accrescono di leggiadria alla donna; io forte mi meraviglio come avvenga che, per la maggior parte, si lasci indietro il più bello ornamento, la scienza prima e massima, lo studio della propria favella! Se elle sapessero quanta vaghezza spanda un puro e fluente ragionare che scorra dalle lor dilicate labbra, e quelle tanto più che ebbero la sorte di crescere nelle parti d’Italia ove meglio si pronuncia il nostro bello idioma, io non dubito che ad esso non volgessero il primo lor pensiero. Con questa scienza, del desio della quale io ardo di accendere gli animi loro, perverrebbero a poter leggere i nostri migliori autori; i quali hanno possanza d’infondere ne’ cuori, bontà, virtù, grandezza d’animo, e gentilezza; laddove non si pascono ora se non di fole e di romanzi. Sì, a voi, donne, tocca questa digressione; che ogni animo gentile sa quanto possa in noi il vostro buono esempio, di quanto nostro ben fare sia stimolo la vostra perfezione! E non mi si venga a dire che le donne non possano darsi a cotale studio della lingua e degli autori quale io propongo; elleno sono capaci quando vi si voglian mettere per tempo; ai parenti s’aspetta questa cura. [p. VII modifica]

Che la vera e più bella lingua italiana sia quella degli autori del Trecento, credo che oramai tra i pochi, dei quali solo io desidero l’approvazione, non ne sia più alcun dubbio; come che nulla sarebbe il mio dire, a quello che si è già pubblicato a questo proposito da Biagioli, da Cesari, Monti, Perticari, e tanti altri valorosi sostenitori della gloria nostra. Di quella dunque io m’accingo ad esporre le regole grammaticali, e la filosofia; perchè colui scriverà meglio, che più studierà in quegli autori; e quando dico lingua italiana, intendo della toscana, e viceversa; non facendo io alcuna differenza fra questi due vocaboli.

,,3 Quelli che discesi di monte Asinaio, o usciti di qualche locanda, sia pur di Siena anche o di Roma, e dietro la carretta di qualche mylord, fattisi portare in Francia o in Inghilterra, quivi si spacciano per professori di lingua italiana, meriterebbero la scuriada di que’ demon crudi di Malebolge, che facesse lor levar le berze e ricorrere a casa; però che, non essendo da loro il potere, non che sentir l’essenza delle bellezze eterne dei nostri classici, ma pur fiutar di che sappiano, vanno gridando questi esser cose rance e antiquate che più non si leggono da niuno, per tema che gli sciocchi che a lor ricorrono per imparare la nostra nobilissima lingua, non gli ponessero loro davanti. Ma d’altra parte, ben meritano di non conoscere altro che la feccia de’ nostri scrittori que’ forestieri, i quali, [p. VIII modifica]quando ben lor venga raccomandato alcuno che sia versato nella lingua, e sappiala anche bene insegnare, essi voglion pur mercanteggiare e stiracchiare il prezzo delle lezioni, come si farebbe con uno di questi mercatantuzzi che vanno per le botteghe da caffè, e non si vergognano di rinfacciare a un vero professore, che il tale insegna sol per tanto, e il cotale lo fa per meno, quasi potesse aver luogo paragone fra questo e quelli. Essi si troveranno, nondimeno, aver perduto il tempo e la fatica dietro una lingua, la quale io ardisco predire dover cadere, non passerà molt’anni, nell’obblivione, e nel disprezzo di tutti gli uomini sensati; perciò che, laddove otto anni fa, quando pubblicai la prima edizione, io mi contentava della approvazion dei pochi, ora veggo essere in tanto numero cresciuti i giovani che si danno allo studio della lingua, che io spero vedere, a’ miei dì, il tempo che pochi, per lo contrario, si diran coloro che del vero bello non si diletteranno. Troppo era duro il confessare, nel principio del risurgimento della buona letteratura, a coloro che già avevano passato il sommo dell’arco dell’età loro, se essere errati; e non saper nulla, e peggio che nulla, in quanto è a stile; et quae imberbes didicere, senes perdenda fateri; ma la gioventù del presente tempo, avendo in ogni parte d’Italia, e in Francia, e in Inghilterra, alcun zelante che loro accenni il sole nuovo e la luce nuova, non altri che gl’ignoranti e i poveri d’ingegno vorranno tener gli occhi chiusi, o dar le spalle allo splendore che gli abbaglia.[p. IX modifica]

Nel manifesto che precedette quest’opera (quello della prima edizione), avendo io condannato tutte le altre grammatiche per insufficienti e difettose, lo qual motivo m’avea indotto a scrivere la presente, fu detto da alcuni essere oggimai cosa nota, chi pubblica un libro, sprezzare e cercar di distruggere la riputazione degli altri che trattano della stessa materia. Ora, io rispondo che per ciò produssi in quello l’opinione di due letterati sopra la medesima necessità d’una grammatica; i quali, per non avere quel fine che a me si poteva attribuire, dovean essere imparziali. Senza che, potrà il lettore giudicare da per se, dalla seguente definizione di una parola che dà la grammatica del Corticelli, la quale ha voce d’esser la migliore!

costruzione della preposizione di

1. Di serve ordinariamente al genitivo di cui è segno; per esempio,

Erano gli anni . . . . al numero pervenuti di mille trecento etc. B.

2. Serve talvolta al dativo in vece di a.

Erano uomini e femmine di grosso ingegno; e i più di tali servigi non usati. B.

3. Serve anche all’ablativo in vece di da.

Il Guardastagno, passato di quella lancia, cadde. B.

4. Parimente serve all’ablativo in vece di con o in.

Maestri, lavorate di forza. B. Dimmi di che io t’ho offeso. B.

5. Fa ancora le veci di per.

Egli piangeva; e di grande pietà, non potea motto fare. B.

6. Serve altresì all’accusativo e all’ablativo in vece dell’in e dell’inter de’ Latini.

La natura umana è perfettissima delle altre nature di quaggiù. D.

7. Talora è segno di particolarità, e vale alcuni o alquanti.

Ebbevi di quelli che intender vollono alla melanese. B.

8. È ancora contrassegno o titolo, ma incorporata coll’articolo.

Siccome il Tamagnin della porta. B.

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Non è questa una solenne confusione l’attribuire nove sensi a una parola che non ne ha più d’uno? A che servirebbero le altre preposizioni se di potesse stare per tutte quante? E chi sarà mai colui che arrivi a formare un’idea di questo mostro, di, che si presenta sotto nove differenti aspetti? E che voglion dire queste definizioni, costruzione della preposizione di, una preposizione esser segno di particolarità, e, incorporata coll’articolo, esser contrassegno o titolo? Questi son pure i libri che finora si sono usati per lo studio della lingua italiana, atti veramente a confondere anche la mente meglio ordinata del mondo.

L’officio della preposizione di, come si vede pienamente nel primo e nell’ultimo esempio, è quello di qualificare, insieme con un’altra parola, il nome che la precede. Ora, negli altri sette esempj sopra citati, la parola qualificata è sottintesa e la piena loro costruzione è 1° I più non usati (cioè non avendo l’uso) di tali servigi; 2° Il Guardastagno, passato (per lo stocco) di quella lancia, cadde; 3° Maestri, lavorate (con pienezza) di forza; 4° Dimmi (in fatto) di che io t’ho offeso; 5° Egli piangeva, e (per eccesso) di grande pietà etc. 6° La natura umana è perfettissima (fra tutte le specie) delle altre nature; 7° Ebbevi (certo numero) di quelli etc.

È ben vero che in quasi tutte le parole che ho supplite si trovan quelle preposizioni, le quali, nella grammatica citata, sono identificate in una sola; ma, nella nostra analisi, la preposizione di mantiene sempre la sua natura; e tanta è la differenza che passa dal supporre quelle preposizioni sottintese, come sono in fatti [p. XI modifica]per forza della ellissi, allo attribuire la virtù di tutte ad una sola, quanta è tra l’ordine e il caos; quantunque a chi non vede più là che tanto, possa parere la medesima cosa. Senza che, per qual ragione, replico io, avrebbesi ad usar di in luogo di da, a, per, in, con, quando queste preposizioni vi sono per fare il loro ufficio? Troppo si sono finora confuse le parole nel trattare la grammatica, e troppo insipido è stato il modo con cui si è trattata!

,, Quindi senza dubbio deve procedere la quasi generale avversione che s’è finora avuta per questa scienza, quella tanto erronea opinione, che frivole siano le occupazioni di essa, cioè dall'uso de’ vocaboli grammaticali quasi tutti falsi come, nominativo, genitivo, verbo neutro, gerundio ecc., privi di senso, e lasciati senza definizione; i quali non potendo trasmettere alla immaginazione alcuna giusta idea, o pur tali che smarrir la fanno, e non essendo possibile a chi legge il cavare nè costrutto nè diletto da ragionamenti confusi, inconcludenti, o puerili, non può far che la materia non riesca stucchevole e gravosa; e come lo studioso non sa onde venga il difetto, attribuisce alla scienza ciò che agli spositori inesperti di essa dovrebbe ascrivere. Onde a quelle altre grida poi che si levano contro la grammatica, che sia uno inceppamento allo ingegno, il titolo medesimo della nostra risponde dovere per essa avvenire il contrario; però che il trattar delle idee filosoficamente, non che vincolar l’ingegno, gli dà forza e ali da spaziarsi per la loro infinitade. E qual’altra fu la cagione dell’essere stata [p. XII modifica]la lingua nostra trascurata e quasi abbandonata, per due secoli, in balìa della sorte, se non il difetto di una grammatica filosofica che la bellezza, la forza, e la varietà sua facesse conoscere e sentire? A coloro che m’han detto che il titolo di filosofica non si conviene a una grammatica, io rispondo che non sanno quel che si dicano, o che parlano passionatamente; perchè, in questa mia opera, io non faccio altro di continuo che definire e dichiarar le idee e i concetti che son contenuti ne’ vocaboli e nelle locuzioni; e se Locke ha chiamato filosofia il trattar delle idee ch’egli fece, similmente posso anch'io il mio trattato nominare; però che per grammatica io intendo la scienza non solo delle lettere e delle parole, ma quella ancora del collocamento tra esse, cioè lo stile della lingua. ,,

F. M. Zanotti, in un suo ragionamento sopra la volgar lingua, dopo aver detto essere impossibile il fornire alcuna regola per giungere ad acquistar grazia e leggiadria nello scrivere, conchiude che l’uso è quello che ci deve menare a sì bello acquisto, aggiungendo: il qual uso acquisteranno quelli che vorranno leggere con assiduità e con attenzione i libri de’ migliori autori. Certo egli direbbe vero, se alla sua opinione non si opponesse la difficoltà di trovar piacere nella lettura di quei libri, allor che se ne ha maggior bisogno. Questo gusto de’ buoni autori non può alcuno acquistare se non quando sia già fatto da tal pasto; bisogna prima che abbia buono fondamento di grammatica e di logica. Quindi sono i nostri migliori conosciuti fra noi se non dai pochi. [p. XIII modifica]

Ma non è di piccol momento, come io avviso, a coloro che si dan pensiero di ristorare la lingua patria, il fare accorti i leggitori del maggior vizio con cui par che ognuno s’ingegni di difformarla, e che poco mancò non distruggesse il nostro più grande onor nazionale; intendo de’ gallicismi de’ quali è tanto, nella maggior parte delle scritture moderne, infestata la nostra lingua, che non è più nè una nè due. Avrei voluto passar sotto silenzio questo soggetto per lo riguardo che già più opere si son pubblicate sopra di esso; se non fosse che ogni giorno mi occorre di vedere che quei libri massime che sono proposti per l’istruzione della gioventù, o per suo passatempo,4 essere quelli che più sono contaminati di galliche dizioni; tanto che alcuni si possono tradurre ad literam in francese; segno manifesto che pochi sono ancora coloro che si sono avveduti della via erronea nella quale ci eravamo già troppo innoltrati, o che non si è detto quanto basti a farne retrocedere. Ho quindi dedicato un capitolo ai gallicismi; e credo che non sarà il meno importante.

È chi domanda qual possa essere la cagione che tra ’l 3oo e ’l 5oo, qual più qual meno, tutti scrivevan puro italiano, il che, in vero, al presente sì di rado incontra. La cagione è che allora non si parlava, comunalmente, nè si scriveva in altra lingua vivente, che nella propria; e ben pochi erano quelli che le straniere [p. XIV modifica]apparassero; onde, nel conversare ancor co’ plebei, non si poteva apprendere se non vocaboli e modi italiani; laddove adesso, pochi son coloro i quali, o bene o male, non le sappiano; e tanto che basti a guastare di continuo la lingua propria con voci e locuzioni strane. Se allora di mille uno usciva del suo paese, adesso li dieci in cento, e forse più, corrono il mondo; e in molto maggior proporzione siam noi visitati dalle altre nazioni; il perchè sciocca presunzione sarebbe, pure in un toscano, poichè Toscana è frequentata dagli stranieri più d’ogni altra parte d’Italia, il credere di saper parlare e scrivere in buona e pura lingua, solo per esser nato e cresciuto in su le rive d’Arno. Qualunque voglia scrivere in italiano, si persuada oramai che la purità della lingua non si succia più col latte in verun luogo d’Italia; e che non è più impresa da ognuno, sia egli pur fornito d’idee e di pensieri, quando non abbia ancora onde vestirli; ma gli è il frutto d’assidui, lunghi, e instancabili studii; e però non cosa da troppo giovane uomo; e questa lingua non s’ha a studiare ne’ vocabolarj, sì nella costante lettura dei classici e con la grammatica. La cagion principale della corruzione del nostro idioma ho dimostrato evidentemente, in un altro manifesto che feci precedere alla pubblicazione di una grammatica inglese, essere i libri ne’ quali si studiano le lingue straniere; e come che paia che questa non dovesse avere influenza alcuna ne’ letterati; pure ognuno concederà che, se per li più si parla e si scrive uno stile ripieno di barbarismi, chi studia non potere acquistare, nella [p. XV modifica]conversazione e nel consorzio degli altri, se non quello di che spogliar si deve scrivendo. Quindi il bisogno tanto più pressante d’una grammatica che assicuri la lingua sopra una pura e solida base, e che escluda da quella tutto ciò che la difforma.

Quanto poi sia falso quel che alcuni hanno detto che, con sbandirne i gallicismi, io renda povera la lingua, avrò occasione più volte di dimostrarlo ad evidenza nel corso di quest’opera, e proverò che anzi, col seguitare lo stil francese, s’era resa la lingua, non che povera, ma poverissima, abbandonando un numero infinito di vocaboli e bei modi di dire che l’ignoranza chiamava disusati; e io facendo apparire lor forza, lor virtù e bellezza, gli ho rimessi in vigore. E la cosa è chiara; col troppo leggere i francesi, gl’Italiani, che da prima non se ne guardavano, ma più presto cercavano d’imitarli, introdussero a poco a poco vocaboli e modi francesi nel loro stile; e quei che vennero poi in seguito, leggendo i francesi e questi loro imitatori, si assuefacevano ad una lingua tutto differente dal vero italiano; e se per sorte si abbattevano a por l’occhio in un classico, non trovando più lor solita pastura, chiamavano antico e disusato quello che essi nè sentivano nè conoscevano. In due mie grammatiche, fatte per uso degli inglesi che studian l’italiano, sono 24 esercitazioni in una, e 44 nell'altra; tutti gli esempj tratti da’ classici, e li più dal Decamerone; ora, mi bastò far scrivere quelle medesime esercitazioni ad alcuni miei scolari italiani che imparan l’inglese, di quelli che non son privi d'ingegno, per far sì che [p. XVI modifica]lor venissero a fastidio quegli autori che fino allora avevan letto e ammirato; laddove prima si ridevano di mio purismo e de’ miei classici5. E, s’io facessi una grammatica latina con sì fatte esercitazioni, li vorrei convertire alla mia opinione a centinaia; e non avrei allora bisogno di sfiatarmi in cercare di persuadere con le ragioni. Adunque, voi che siete giovani, e cui il prendere più tosto l’una che l’altra via costa poco più fatica, e ne potete aspettare in cambio infinito diletto, badate bene a quel che i sofisti che han già calato il sommo dell’arco, o li scioperati che non leggono, vi posson dire a questo riguardo; ma leggete, e giudicate da voi; e dite poi che non sia vero che s’allarga quì il campo della lingua assai assai, e si rende amenissimo. ,,

Appongo il titolo di filosofica a questa grammatica, non perchè io intenda di trattare solamente le materie più astratte; che io voglio che vi si truovi ogni cosa; ma perchè, qualunque sia la parte che io tratto, procedo con la ragione.6

Finalmente mi bisogna avvertire chi legge, che gli potrà avvenire d’abbattersi ad ora ad ora, nei classici, in espressioni che parranno deviare dalle regole [p. XVII modifica]stabilite in quest’opera. Se volessi produrre tutti gli esempj che porgon materia di ragionamento, potrei forse mettermi in un mare senza fine; poichè dice Dante che nella grammatica, per la sua infinitade, i raggi della ragione non si terminano in parte alcuna; ma essendo il lettore dal bel principio dell’opera avvezzato a investigare la ragion delle cose e la cagion d’esse, egli potrà poi, fatto forte per la virtù del metodo, argomentare da se medesimo sopra tutte le eccezioni che gli capiteranno sott'occhio nel discorrere gli autori.

Ma a coloro i quali, per lo contrario, dicono che quanto più una grammatica è breve, tanto è migliore, io vorrei mi dicessero donde traggono questa loro opinione. A un tal ragguaglio quella che non contasse più che una pagina sarebbe perfettissima! E altresì vorrei sapere quali grammatiche si sian fatte finora, sia pur anche in lingua latina; però che io intendo quì di dare un’opera del tutto nuova, e oramai tutta mia; in modo che, o quelle opere che portano cotal nome non sono grammatiche, o se quelle sono, questa non è7. Io voglio che mi basti il ragionamento sopra il pronome onde; si vedrà se, di quanto io quivi definisco e chiarisco, altri fece mai pur cenno. Se quegli che desideran cotal brevità son già dotti nella lingua, la mia fatica non è per loro; perchè, questa seconda volta, l’ho aumentata, e migliorata, e la pubblico, specialmente per li giovani, e particolarmente per quelli che non hanno sentor di stile nè buono nè [p. XVIII modifica]falso, i quali spero assai più agevolmente trarre dalla mia; e questi, quanto più avranno da leggere, più lor gioverà, e disporragli per lo studio e la dilettanza de’ classici. La quantità de’ buoni esempj quì citati preparerà loro l’orecchio a quella armonia, alla quale per non essere usi, o per conoscer solo la falsa, senza un tal preludio, lor parrebbe al primo di strumenti scordati. Io lo dico appunto perchè sono alcuni che a prima giunta si sbigottiscono, o fanno le meraviglie. E costoro pe’ quali io mi sono affaticato, non bisogna che lascino indietro pure un verso; se vorranno saltare quà e là, si smarriranno, non intenderanno; perchè di mano in mano ch'io procedo, definisco questo e quel termine grammaticale del quale io fo uso; non ricordandosi i quali, diventa oscuro quel che è chiarissimo. Ai dotti lo so anch'io parrà grave il dover leggere ciò che già sanno, per trovar quello che potrebbero forse non sapere; ma pure, se un Bartoli, un Perticari, e un Monti, hanno fatto errori nello scrivere, quando essi meco convengano che siano errori, potranno anch’eglino, leggendo queste carte, camminar più sicuri ove eran dubbii; se non, sia pur loro lecito quelli imitare.

Restami ora a dichiarare quali scrittori io mi prenderò per arbitri in una quistione di grammatica. Per esempio, nella classica traduzione di Salustio di Fra Bartolomeo da San Concordio, contemporaneo di Dante, io trovo il pronome cui usato per agente del verbo: Cui io sia tu ’l saprai da colui che io ti mando. Ora io dico, questo cui messo per agente in luogo di chi [p. XIX modifica](poichè il verbo essere porta due agenti), essere errore, e per intima mia persuasione, e per autorità dei tre sommi, Dante, il Petrarca, e il Boccaccio; però che, altrimenti si potrebbero trovare esempj di una infinità di errori, prendendone un da questo e un da quello anche classico autore; e in tal modo non vi sarebbe più freno. Una prova ne sia Il Torto e il Diritto del Non si può del Bartoli, il quale, attenendosi ai soli autori classici del Trecento, trovò pure con che poter giustificare qualunque errore si voglia fare in grammatica. Egli vuol provare per esempio che si possa dire alcuna cosa per alquanto o un poco; ed eccolo in Pietro de’ Crescenzi: In catino che abbia alcuna cosa d’acqua, E lo trova anche in Matteo Villani: La misura del sale fu alcuna cosa consentita. Ma chi può tollerare questo alcuna cosa? Io son di parere che il più corretto scrittore in prosa sia il Boccaccio8; Dante e il Petrarca, in poesia; però la massima parte degli esempii è tolta da loro. Ora, io dico che, quando pure all'orecchio mio ripugnasse l’usare quel cui per agente, l’ammetterei non pertanto come giustissimo, se ne trovassi esempio in tutti e tre i gran maestri; non già se fosse adoperato solo in rima; se in due o pur in uno occorresse, esporrei là mia opinione con più o men [p. XX modifica]guardo, secondo che la verità mi dettasse; ma non trovandosi approvato da alcuno dei Tre, allora affermo ch’egli è manifesto errore. E non è da credere ch’egli possa avvenire che un vocabolo grammaticale, qual è un pronome, non abbia ad occorrere, non una volta, ma molte nel caso della regola che si vuol determinare; se cui si potesse usare per agente, questo vocabolo è di sì frequente occorrenza, che non può dar campo a tale obbiezione. Dietro questo patto dirò dunque che anche nè non, nè niuno, immediato, che il medesimo da San Concordio di continuo adopera, sarebbe ora errore, perchè l’una delle due negazioni è affatto inutile, e all’orecchio noiosa; che lui per agente è cotale, sebben si usi dal Macchiavello; che gliene e gliele in luogo di glielo e gliela, non è cosa da imitarsi quantunque l’adoperi il Boccaccio, perchè questo forma una inutile confusione di termini, quando si può usar chiarezza e distinzione; che tutto per tutto che è oscurissimo, e non approvato dai Tre; e che avere da per avere a, nel senso di dovere, è errore, come proverò a suo luogo.

E poichè mi vien quì nominato Fra Bartolomeo da San Concordio, convien ch’io ammonisca i giovani studiosi della buona lingua che, tutto che ne’ trecentisti per la massima parte la lingua sia piena di semplicità e di bellezza, onde meritino uno studio profondo chi vuol ben scrivere, tuttavia la bellezza dello stile non consiste, nè manco cresce col dire saramento per giuramento; consigliamento, ingegnamento, piuvico, suto, aiutorio, retà, Viniziano, in luogo di consiglio, [p. XXI modifica]ingegno, pubblico, stato, aiuto, reità, Veneziano, nè in usar le forme antiquate e scartate de’ verbi, fossono, ebbeno, feceno, venneno, diciavate, sapavate, sappiendo, in luogo di fossero, ebbero, fecero, vennero, dicevate, sapevate, sapendo. Queste non sono altro che affettazioni; e non che rendere lo stile pellegrino, come forse alcuno crede, toglie a quello la forza e la vivacità. Le forme fossono, ebbono, e dicessono, fur cambiate in fossero, ebbero, e dicessero, non senza ragione, ma per variare alquanto la monotonia delle desinenze in no, delle quali tutto il verbo prima si formava. E sarebbe da desiderarsi, per lo pubblico bene, che anche coloro che sono sopra gli altri forniti d’immaginazione, d’ingegno, e di scienza, si volessero uniformare a quella armonia di parole dall’autorità dei sommi e dal general gusto approvate e accolte, affin che i giovani potessero trarre da’ loro scritti utile e diletto; dico i giovani, perchè questi son men pazienti a tollerare; e basta loro abbattersi in un piuvicamente o in un temporali9, perchè s’infastidiscano subito, e senza più dannino l’autore. Queste artificiate trasformazioni di vocaboli a che vagliono elle fuor solamente a recare il purismo in dispetto, e con esso mettere i suoi seguitatori in derisione?

Nel comporre questa seconda edizione io non ebbi altro davanti agli occhi che li scrittori classici i quali mi hanno fornito gli esempj per le mie speculazioni; ma non volli leggere nessuna opera che trattasse [p. XXII modifica]della grammatica, non pure il Torto e il Diritto del Non si può del Bartoli; perchè io voleva dir le cose come la logica e il gusto mio solo mi dettavano, riservandomi però a leggere quest’opera, finito che avessi il mio manoscritto, per vedere se mai aveva dato nell’eccesso del Non si può, per lo che ella è un eccellente antidoto; ma con mia maraviglia ora scorgo che quel suo libro non è se non una compilazione di bizzarrie, come ben dice il signor Amenta; il quale, in quelle sue dotte osservazioni le ha tutte, per quanto si può fare senza filosofici argomenti, smascherate e combattute, con trionfo della verità, e gran vantaggio del retto scrivere10. In questo il torto del Bartoli è manifesto; e io avrò occasione di provare in più luoghi quanto poco sentisse nella filosofia della grammatica; ma, per dire il prò e il contra, di quanto non siamo noi a lui debitori d’aver tenuto in vita la buona lingua! poichè, de’ pochi scrittori dello sterilissimo Seicento, egli, quasi legno [p. XXIII modifica]solingo in vasto oceano, è quegli il quale, per le tante sue opere letterarie, più conservasse la forza e la leggiadria dello stile, e non lasciasse sprofondare le lettere nello abisso della ignoranza.


ABBREVIAZIONI D'AUTORI CITATI


D. Dante. G. Gelli.
P. Petrarca. Dav. Davanzati.
B. Boccaccio. Da S. C. Fra Bartolomeo
F. Firenzuola.       da San Concordio.
M. Macchiavello. Bart. Bartoli. 11


      Gli altri sono posti col nome intero.

N. B. Gli esempj si troveranno qualche volta differenti dal testo dell'autore, o nella trasposizione delle parole, o in alcune delle parole medesime, mutato per esempio tu in voi o altro; ma ben si troverà l'espressione in su la quale cade la regola sempre d’accordo con l’originale.

Per gli errori detti gallicismi ho citato qualche volta un libro chiamato Antipurismo, del quale si fa menzione nel Cap. XXVIII.

Rispetto ad alcuni errori che io ho notati negli scrittori del presente secolo, io ho esaminato, e dato [p. XXIV modifica]mia opinione di coloro soli che furono o sono ristoratori o sostenitor della lingua vera e pura italiana, e che in quella hanno scritto, o hanno inteso di scrivere12; ma nè di romanzieri, nè di autori di commedie moderni, io non mi son curato; perchè la lingua in che questi scrivono va del pari con quella del predetto Antipurismo lor campione; e i loro maestri sono stati ben frustati dal Baretti. Chi parla per lo pubblico bene, bisogna che parli libero, avvenga che può;

E lascia pur grattar dov’è la rogna.

Per la presente opera io mi aspetto gratitudine e buona memoria ne’ secoli futuri; e se allora io non potrò far difesa contro chi a torto biasimar la volesse, vi sarà qualche giusto e zelante che la piglierà per me.


Note

  1. Comme une clef ouvre la porte d’un appartement, et nous en donne l’entrée, de même il y a des connoissances préliminaires qui ouvrent, pour ainsi dire, l’entrée aux sciences plus profondes; ces connoissances, ou principes sont appelés clefs par métaphore; la Grammaire est la clef des sciences, la logique est la clef de la philosophie. Du Marsais.
  2. Tale stima si faceva della lingua italiana quando diedi la prima edizione ma con gran piacere ho inteso poi che prima Monsignor Azzocchi, e poi l’Abate Sacchi, s’han preso a cuore di metterla in buon concetto agli studianti del Seminario Romano, e di far loro sentire la necessità di coltivarla.
  3. Quelle parti di questa introduzione che son segnate con due virgole ,, da capo e a’ piè, appartengono alla seconda edizione.
  4. La moltitudine, per esempio, loda a cielo le Lettere di Jacopo Ortis, che altro non sono che un composto di gallicismi e di scipitezze. Anch’io le lessi con grande avidità quando beveva alla comun fonte!
  5. Il medesimo avvenne a me in Parigi, traducendo dalla Grammatica francese italiana del Biagioli le esercitazioni; e quindi solo cominciai a leggere i classici che non aveva mai letti.
  6. Un Bartoli ha creduto dover far uso della voce filosofare ragionando della z; e’ dice „ che, quantunque il z non abbia forza di più che una delle altre semplici consonanti, non si deve però filosofarne, com’egli fosse due lettere distinte. „ Dico a quelli cui, come accennai, non aggrada il titolo di quest’opera.
  7. Nè gli Inglesi nè i Francesi hanno una grammatica filosofica; essi hanno dei frammenti, questi in Du Marsais, quelli in Harry.
  8. Del Boccaccio dice il Perticari: „ Ora, questi difetti (di coloro che avevano scritto prose prima di lui) il Boccaccio ben vide meglio che ogni altro, e tutti terminarono nelle prose di lui; che, conosciuto i tempi divenire più colti, e gli orecchi farsi più dilicati, ridusse più culto e delicato il modo della favella.... e sollevò il linguaggio italico fino all'ultima altezza.
  9. Antiche voci per pubblicamente e tempi.
  10. „ Ma a dirla fuor fuori, e salvo tutto il riguardo (dice il signor Amenta) che gli ho, come ad uno de’ miei maestri in sì fatto linguaggio, l’aver egli voluto in questo libro, con insopportabil fatica, scartabellare, leggere, e rileggere tutti i testi di lingua, per rinvenirvi con sommo piacere tutti i luoghi, ne’ quali son quegli usciti dalle buone regole del perfettamente scrivere, . . . . io non so di che sappia o qual lode possa o abbia potuto meritarne„ E poi: „ Io giurerei che m’appongo, se dico che egli volle, nella maggior parte che nota in questo libro, delle cose scritte sregolatamente dagli scrittori Toscani del decimo quarto secolo, difender se stesso. „
         E anche il Perticari: „ E crescendo i zelanti del purismo, si potranno forse in gran parte spiantare le fondamenta sulle quali il Bartoli pose quel suo libro del Non si può, onde (dovea dir col quale) con sapienza sofistica tentò persuadere che, in lingua italiana, o leggi non sono, o l’arbitrio de’ buoni le infrange. „
  11. Io non credetti dover far uso del Villani, perchè vidi che quasi tutte le volte che il Bartoli volle avvalorare uno errore col si può, egli ricorse a quelli, e di rado gli fallì; se essi son classici per li vocaboli, non sono per la grammatica. ‚‚ Il buon Gio. Villani ‚‚ dice il Bartoli ‚‚ con quel suo lui e lei mette ancor quì mezzo i grammatici in confusione, e mezzo la grammatica in iscompiglio. ‚‚ A noi però egli darà poca briga.
  12. E se io mi sono arbitrato a correggerli, mi scusa il Bartoli: ,, Che se verranno a correggervi d’alcun vostro fallo di lingua, portativi dalla ragione, e non avrete a dir loro come Aristotele infermo a quel medico da zappatori, che gli ordinava di gran rimedii, senza dirgliene il perchè, Ne me cures ut bubulcum; prendetelo in grado, e rendetevi all’ammenda.