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Ma non è di piccol momento, come io avviso, a coloro che si dan pensiero di ristorare la lingua patria, il fare accorti i leggitori del maggior vizio con cui par che ognuno s’ingegni di difformarla, e che poco mancò non distruggesse il nostro più grande onor nazionale; intendo de’ gallicismi de’ quali è tanto, nella maggior parte delle scritture moderne, infestata la nostra lingua, che non è più nè una nè due. Avrei voluto passar sotto silenzio questo soggetto per lo riguardo che già più opere si son pubblicate sopra di esso; se non fosse che ogni giorno mi occorre di vedere che quei libri massime che sono proposti per l’istruzione della gioventù, o per suo passatempo,1 essere quelli che più sono contaminati di galliche dizioni; tanto che alcuni si possono tradurre ad literam in francese; segno manifesto che pochi sono ancora coloro che si sono avveduti della via erronea nella quale ci eravamo già troppo innoltrati, o che non si è detto quanto basti a farne retrocedere. Ho quindi dedicato un capitolo ai gallicismi; e credo che non sarà il meno importante.

È chi domanda qual possa essere la cagione che tra ’l 3oo e ’l 5oo, qual più qual meno, tutti scrivevan puro italiano, il che, in vero, al presente sì di rado incontra. La cagione è che allora non si parlava, comunalmente, nè si scriveva in altra lingua vivente, che nella propria; e ben pochi erano quelli che le straniere

  1. La moltitudine, per esempio, loda a cielo le Lettere di Jacopo Ortis, che altro non sono che un composto di gallicismi e di scipitezze. Anch’io le lessi con grande avidità quando beveva alla comun fonte!