Gli amanti timidi/Atto I
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ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Arlecchino solo.
Ripulisce un abito disteso sopra un tavolino, ch’è ben innanzi, e facendo le sue incombenze, parla come segue:
Dise el proverbio: o servi, come servo, o fuggi, come cervo; no voggio ch’el me patron s’abbia da lamentar de mi. Ghe piase la pulizia, e amo anca mi la nettisia1. E po el xe cussì bon, ch’el merita de esser servìo de cuor. Qualche volta el par un pochetto fantastico; ma un omo che xe innamorà, el gh’ha delle ore bone e delle ore cattive, (porta l’abito sull’altro tavolino, e prende il cappello per ispazzarlo) So mi, che brutta bestia che xe l’amor. Ma mi son più bestia de lu. Xe do mesi che son in sta casa; do mesi che semo qua mi e el2 me patron, ben visti, ben trattadi, e ben alozai: el me patron fa anca un pochetto l’amor colla patroncina de casa; e mi non gh’ho coraggio de dirlo alla cameriera, e moro, e crepo, e me desconisso3 per una che no lo sa, e che probabilmente no ghe pensa gnente de mi. (rimette il cappello a suo luogo, poi ritorna pensoso) Come mai poderàvio far a saver, se la me vol ben, o se no la me vol ben? Se no ghe lo domando, non la me lo dirà, e mi non gh’ho coraggio de scomenzar. Se la me dasse qualche motivo... Se la me vardasse qualche volta con un poco de distinzion; ma sior no, no la m’ha mai dà un’occhiada... una de quelle occhiade che digo mi. No posso assicurarme de gnente. Ma no gh’ho gnanca rason de desperarme. Se savesse scriver, rischierave una lettera. Ma per mia disgrazia, mio padre e mia madre no i saveva nè lezer, nè scriver, e no i ha volesto che so fio sia più virtuoso de lori. Xe vergogna che un omo della mia sorte no4 sappia scriver, e in st’occasion la me despiase piucchè mai. Imparar a scriver? Xe tardi. Farme scriver da qualchedun? No voggio confidarme con chi se sia. La più curta5 xe de farme animo, e dirghe i mi sentimenti. Sior sì, bisogna farlo assolutamente... Ma co sarò là... Maledetta la mia modestia! Son seguro che no farò gnente.
SCENA II.
Roberto agitato, ed il suddetto.
Roberto. Arlecchino.
Arlecchino. Signor.
Roberto. Il pittore è venuto? (agitato)
Arlecchino. Sior no, nol s’ha visto.
Roberto. Bisogna ritornare da lui; dirgli che mi preme il ritratto: che se non l’ho prima del mezzogiorno, non mi serve più.
Arlecchino. El ritratto so ch’el giera fenìo. So che no mancava altro che metterlo... Come se elise? Sì, in t’una scattola, in t’un stucchio6.
Roberto. E bene, egli si è incaricato di assistere alla fattura, mi ha promesso di mandarmelo avanti sera; ma io ne ho bisogno prima del mezzogiorno.
Arlecchino. Caro sior patron, perchè sta gran premura? Da oggi a doman...
Roberto. Questa sera deggio partire...
Arlecchino. Sta sera? (con ansietà)
Roberto. Sì, che il baule sia all’ordine per questa sera.
Arlecchino. (Oh poveretto mi!) Per dove, sior patron? (patetico)
Roberto. Per Roma. (agitato)
Arlecchino. Mo perchè cussì, co sto precepizio?
Roberto. Sono dieci giorni che doveva esserci andato. Mio zio è moribondo; ed oltre all’affetto e al debito che mi sprona, vi è anche il mio proprio interesse. Sai ch’egli mi ha tenuto luogo di padre, e che dal suo testamento dipende lo stato mio.
Arlecchino. Sior sì; ma avè mandà el camerier: aspettè che Federigo torna da Roma, o che almanco el ve scriva.
Roberto. Non vi è tempo da perdere; ho ricevuto lettere questa mattina, che mi assicurano essere la malattia acuta, e che i medici non gli danno sei o sette giorni di vita. Va subito dal pittore.
Arlecchino. No la va fora de casa sta mattina?
Roberto. Sì, anzi; ho degli affari moltissimi.
Arlecchino. E no la vol che la vesta?
Roberto. Non so dove m’abbia la testa. Presto, vestitemi, e poi andate.
Arlecchino. (Gli leva l'abito che ha; lo veste, e gli dà tutto il bisogno; e frattanto parlano come segue) Lo sali qua in casa che la va via?
Roberto. Non ho ancora veduto nessuno; è ancor di buon’ora.
Arlecchino. Cossa dirà siora Dorotea? (vestendolo, come sopra)
Roberto. Son certo che sentirà della pena, ed io ne sono mortificato; ma è meglio così: è meglio ch’io me ne vada.
Arlecchino. Mo perchè meggio? Per cossa? Se vussiorìa ghe vol ben, per cossa no ghe la domandelo a so sior padre?
Roberto. E come vuoi che ardisca di domandargliela? Tu conosci mio zio; sai qual sia la sua delicatezza: si offenderebbe s’io lo facessi senza parteciparglielo; ed il signor Anselmo medesimo non me l’accorderebbe senza essere da mio zio prevenuto.
Arlecchino. E ben! che la ghe lo scriva al sior zio.
Roberto. Sciocco! Adesso ch’è moribondo?
Arlecchino. Ghe domando perdon; se la savesse quanto che me despiase a lassar Bologna!
Roberto. E perchè?
Arlecchino. Cussì... No so gnanca mi.
Roberto. Hai tu ancora qualche amoretto?
Arlecchino. Oh! mi amoretti? (vergognandosi)
Roberto. Oh! via, va a vedere di questo ritratto.
Arlecchino. Me par che i abbia battù alla porta dell’anticamera.
Roberto. Va a vedere.
Arlecchino. (Poveromo mi! Tutte le mie speranze xe andade in fumo). (da sè; va a vedere alla porta) Oh! via, che la se consola, che xe qua el servitor del pittor.
SCENA III.
Giacinto ed ì suddetti
Giacinto. Servitore umilissimo.
Roberto. Avete portato il ritratto?
Giacinto. Eccolo qui, signore.
Roberto. Vediamo. (lo apre, ed osserva)
Giacinto. In verità, è un capo d’opera.
Roberto. Non vi è male.
Giacinto. Osservi quella verità... quella delicatezza del colorito. Osservi quel panneggiamento; e quella mano?7 Oh quella mano! Benedetta sia quella mano!
Roberto. Tutto va bene. La pittura è bellissima; ma circa la somiglianza non ci vedo portenti. Che ne dici, Arlecchino? Che te ne pare?
Arlecchino. Che xe qualcossa. Ma el poderia someggiar da vantazo.
Giacinto. Circa la somiglianza... dirò... non faccio per dar contro al mio padrone; ma questo è un dono di natura, è un talento che non si può acquistare con l’arte. Per esempio... Io, veda... io... per rassomigliare ho un dono particolare.
Roberto. Bravo! Siete anche voi pittore )
Giacinto. Vuol veder qualche cosa del mio?
Roberto. Vi ringrazio, ora non ho tempo. (Vo’ vedere di darlo subito alla signora Dorotea. Posso far meno per soddisfar le di lei premure, ed il mio cuore medesimo?) (da sè) Arlecchino.
Arlecchino. Signore.
Roberto. (Darai la mancia a quel giovane). (piano)
Arlecchino. (Quanto?)
Roberto. (Quel che ti pare. Sai ch’io non amo di farmi scorgere). (piano ad Arlecchino, e parte)
SCENA IV.
Arlecchino e Giacinto.
Giacinto. (Mi pare abbia dato qualche ordine in mio favore). (da sè)
Arlecchino. El me padron m’ha ordenà de darve una piccola recognizion per el vostro incomodo...
Giacinto. Oh! signore... (cerimonioso)
Arlecchino. Tolè, amigo, per l’acquavite, (allunga la mano per dargli il danaro.)
Giacinto. Oh! non s’incomodi, (ritirasi un poco; ma poi allunga la mano.)
Arlecchino. Senza cerimonie.
Giacinto. Per non ricusar le sue grazie. (prende il danaro)
Arlecchino. Compatì, se i xe pochi. Anca nu gh’avemo delle spese.
Giacinto. Oh! che cosa dice? Vossignoria è troppo compito. Corrisponde l’animo liberale all’aspetto gentile e manieroso8.
Arlecchino. Oh! troppa bontà; mi no gh’ho nissun merito. Eseguisso i ordeni del mio patron.
Giacinto. È vero, capisco benissimo; ma vi sono de’ servitori che vorrebbero tutto per loro, che fanno scomparire i padroni, e che strapazzano i galantuomini in vece di ricompensarli.
Arlecchino. Oh! mi, compare, no son de quelli. Poveromo, ma galantomo.
Giacinto. Ne son sicurissimo. Subito che ho veduto la vostra fisionomia, mi è piaciuta infinitamente. Mi è restata impressa per modo tale... Aspettate un momento. (Tira fuori un astucchio da ritratto, simile a quello di Roberto, e l’apre) Conoscete questo ritratto?
Arlecchino. Come! La mia figura! (con ammirazione)
Giacinto. Ah! Vi pare che vi somigli?
Arlecchino. Sangue de mi, el me someggia terribilmente.
Giacinto. Ve lo diceva io, che per li ritratti vi vuole un dono di natura particolare?
Arlecchino. Ma chi l’ha fatto sto ritratto?
Giacinto. Il vostro umilissimo servitore. (annunziando se stesso)
Arlecchino. Vu? (guardandolo bene)
Giacinto. Vi pare impossibile9, perchè mi vedete con questa livrea? Ho del genio, ho del talento per la pittura; e un giorno farò anch’io la mia figura nel mondo.
Arlecchino. Ve stimo infinitamente. Circa al dessegno, mi no me n’intendo; ma per someggiar, el someggia.
Giacinto. Ciascuno ha il suo talento particolare.
Arlecchino. Ma come aveu fatto? Come diavolo m’aveu depento, senza che lo sappia? senza che me n’accorza?
Giacinto. Mentre il mio padrone dipingeva quello del vostro10, fingendo io di ripulire le tavolozze, lavorava guardandovi segretamente. Questo si chiama un ritratto rubato; e questa sorta di furti fanno onore ai ladri della mia abilità.
Arlecchino. Me consolo della vostra abilità. Tolè, amigo, e andè là che se un omo de garbo. (gli vuol render il ritratto)
Giacinto. Signore... (ritirandosi un poco indietro)
Arlecchino. Cossa?
Giacinto. Il ritratto è suo. Io l’ho fatto per vossignoria.
Arlecchino. Per mi?
Giacinto. La prego di riceverlo, e di aggradirlo.
Arlecchino. Ricusar un presente sarave un’inciviltà. No so cossa dir; no lo merito, ma ve ringrazio. (lo chiude)
Giacinto. Credo di aver impiegato bene il mio tempo per una persona come vossignoria.
Arlecchino. Tegnirò memoria de vu, e a Roma parlerò de vu.
Giacinto. (guardandolo attentamente) Tre o quattro giorni di lavoro li sagrifico assai volentieri. (mortificato)
Arlecchino. In verità, ve son infinitamente obligà.
Giacinto. La prego solamente di aver in considerazione la spesa dei pennelli, dei colori, dell’avorio, dell’astucchio, della legatura.
Arlecchino. Sior sì, gh’ave rason; no gh’aveva pensa. Quanto valerà tutta sta gran spesa?
Giacinto. Mi rimetto alla sua cortesia.
Arlecchino. (Ho capio). (da sè) Vedè ben, un povero servitor no pol corrisponder come meritè. (mette la mano in tasca)
Giacinto. Oh! signore... nè io pretendo ch’ella mi paghi il ritratto.
Arlecchino. Lo ricevo come un presente; e per le piccole spese, tolè. (gli dà un testone)
Giacinto. Perdoni. (lo ricusa mostrandosi malcontento)
Arlecchino. Come! El xe un teston; tre paoli. Ve par poco tre paoli?
Giacinto. Perdoni. (come sopra)
Arlecchino. Ma cossa aveu speso? Disè, parie.
Giacinto. Nè tutto donato, nè tutto pagato... Io non le domando nè sei, nè otto, nè dieci zecchini. Il suo padrone ha pagato il ritratto dodici zecchini, e non somiglia quanto il mio.... A far la cosa miserabile... per essere vossignoria... mi darà tre zecchini.
Arlecchino. Amigo, tolè al vostro ritratto. (lo prende dal tavolino,) e glielo vuol rendere.
Giacinto. Ma io l’ho fatto per lei. (ritirandosi un poco)
Arlecchino. Ma mi no ve l’ho ordenà.
Giacinto. È vero; ma il ritratto è suo.
Arlecchino. O mio, o vostro, mi no voggio spender tre zecchini.
Giacinto. Per un ritratto di questa sorta! (sempre senza scaldarsi)
Arlecchino. E chi v’ha dito de farlo? Chi ve l’ha domandà? Per cossa vegnìu11 a offerirmelo? Per cossa me voleu obligar a riceverlo?
Giacinto. Perchè l’ho fatto per lei.
Arlecchino. E mi ve digo che no lo voggio.
Giacinto. Vossignoria lo prenderà. (con flemma)
Arlecchino. La mia signoria no lo prenderà. (scaldandosi)
Giacinto. Son sicuro che lo prenderà. (con flemma)
Arlecchino. Debotto me vien voggia de buttarlo zo del balcon.
Giacinto. È roba sua; ne può far quel che vuole... (con flemma)
Arlecchino. Me faressi vegnir el mio caldo. Tolè el vostro ritratto. (glielo vuol dare per forza)
Giacinto. È roba sua. (ritirandosi modestamente)
Arlecchino. Ma mi no lo pagherò. (in collera)
SCENA V.
Roberto e detti.
Roberto. Cos’è questo strepito? (ad Arlecchino)
Arlecchino. St’omo me fa dar in bestia, signor. L’ha fatto el mio ritratto, senza che gh’el domandà. El s’ha esebio de donarmelo; e adesso el pretende che ghe lo paga12.
Roberto. E quando l’ha fatto? Io non so che tu ti sia fatto dipingere. (ad Arlecchino)
Arlecchino. El m’ha visto, e gh’è vegnù in testa de farlo.
Giacinto. È un ritratto rubato. Questa è la mia abilità.
Roberto. Lasciatemi vedere questo ritratto. (ad Arlecchino)
Arlecchino. Eccolo qua; mi no ghe l’ho ordenà. (dà il ritratto a Roberto)
Roberto. Non si può dire che non somigli. Ma circa al disegno, signor pittore, ci si conosce la lavatura de’ pennelli.
Giacinto. Somiglia. Ecco la mia abilità.
Roberto. Oh! via, Arlecchino, buono o cattivo che sia, il ritratto somiglia, e bisogna prenderlo.
Arlecchino. Per mi, ghe voleva dar un teston; ma adesso no ghe daria sie baiocchi.
Roberto. L’accomoderò io. Signor abil uomo, signor pittore,13 quanto domanda di questo ritratto?
Giacinto. Ella sa quanto ha pagato il suo.
Roberto. E vorreste mettervi col vostro padrone?
Giacinto. Ciascheduno ha la sua abilità.
Roberto. Pretendereste dodici zecchini? (scaldandosi)
Giacinto. Non signore, s’acquieti; una miseria, una bagatella: per li colori, per l’avorio, per l’acquavite, tre zecchini, tre zecchini, e non più. (con flemma)
Roberto. In verità il lavoro non val tre paoli; ma in grazia della somiglianza felice, siete contento di due zecchini?
Giacinto. Povera virtù strapazzata! Li prenderò. (come sopra)
Roberto. Dategli due zecchini. (ad Arlecchino)
Arlecchino. Mi?
Roberto. Due zecchini per conto mio.
Arlecchino. Ghe li darò. (El l’ha vinta colla so maledetta flemma). (da sè, va a prendere il danaro)
Roberto. Perchè fare un ritratto senza che vi sia ordinato? (a Giacinto)
Giacinto. Oh! non è il primo ch’io abbia fatto così. Ne ho fatti parecchi altri.
Roberto. Ma perchè?
Giacinto. Perchè se aspettassi che me li ordinassero, non ne farei mai.
Roberto. E perchè farne?
Giacinto. Perchè questa è la mia abilità.
Roberto. (È curioso costui). (da sè)
Arlecchino. Ecco qua i do zecchini. (a Roberto)
Roberto. Dateli al signor ritrattista. (ad Arlecchino, ridendo)
Arlecchino. La toga, sior virtuoso. (dà i due zecchini a Giacinto)
Giacinto. La ringrazio infinitamente. (Due zecchini! chi non s’aiuta, si affoga). (da sè, parte)
SCENA VI.
Roberto ed Arlecchino.
Arlecchino. Cossa vorlo far de sto ritratto? (a Roberto)
Roberto. Farne un presente ad Arlecchino. (glielo dà)
Arlecchino. Ma veramente me someggielo?
Roberto. Sì, per dire la verità, somiglia moltissimo.
Arlecchino. La ringrazio infinitamente. (lo mette sul tavolino)
Roberto. Non mi è stato possibile di vedere la signora Dorotea; procura di vedere la cameriera, e dille che venga qua.
Arlecchino. La vuol parlar a Camilla? (con passione)
Roberto. Sì; ella è a parte di tutto, e voglio pregarla di dar ella il ritratto alla sua padrona. Trovala, e dille che si solleciti; perchè ho cento cose da fare, e questa sera si ha da partire.
Arlecchino. E sta sera s’ha da partir? (sospirando)
Roberto. Sospiri? Sei sì fortemente innamorato di questa città?
Arlecchino. E la vol che lo diga a Camilla? (sospirando)
Roberto. Sì. Perchè?
Arlecchino. Ghe lo dirò. (sospirando, e in atto di partire)
Roberto. Vieni qua, vieni qua. Sarebbe ella forse che ti fa piacere Bologna?
Arlecchino. Caro sior patron, son de carne anca mi.
Roberto. Ed ella ha dell’inclinazione per te?
Arlecchino. No so gnente.
Roberto. Povero pazzo! Va, va, domani sarai guarito.
Arlecchino. Ah! sior patron.
Roberto. Cosa c’è?
Arlecchino. Son inasenìo14 come va. (parte)
SCENA VII.
Roberto, poi Camilla.15
Roberto. Povero giovane! Lo compatisco. So anch’io che cosa è l’amore. Non s’è mai spiegato! Non avrà avuto coraggio. Conosco il suo temperamento. È timido. È il più buon figliuolo del mondo.
Camilla. (Povera me! Che nuova mi ha dato Arlecchino! Se va via, mi porta via il cuore). (da sè) Che cosa mi comanda, signore?
Roberto. Oh! quella giovane, scusate se vi ho incomodato.
Camilla. Niente, signore. Son qui ad obbedirla. (confusa)
Roberto. Voi sapete che ho promesso il mio ritratto alla signora Dorotea... e siccome deggio partir questa sera...
Camilla. Questa sera assolutamente?
Roberto. Senz’alcun dubbio.
Camilla. (Ah il mio Arlecchino! Ah non vedrò più il mio caro Arlecchino!) (da sè)
Roberto. Che avete, Camilla? Vi dispiace tanto la mia partenza?
Camilla. Signore... mi dispiace sicuramente.
Roberto. Dite la verità. Vi dispiace per me, o per Arlecchino?
Camilla. Arlecchino... ha il suo merito... Ma nè egli pensa a me, nè io penso a lui.
Roberto. E se egli pensasse a voi?
Camilla. Io non so niente. Io non sono portata per queste cose; e mi farete piacere a mutar discorso.
Roberto. (Non saprei. Mi pare, e non mi pare). (da sè)
Camilla. (Ho taciuto finora. Sarebbe imprudenza la mia, se mi spiegassi fuori di tempo). (da sè)
Roberto. Orsù, volete voi dare il mio ritratto alla signora Dorotea?
Camilla. Cosa volete ch’ella faccia del vostro ritratto?
Roberto. Se non volete darglielo, non l’avrà.
Camilla. Date qui, date qui. (prende il ritratto, e lo mette in uno dei due taschini del grembiale.)
Roberto. Il signor Anselmo è in casa?
Camilla. L’ho veduto ch’era per sortire.
Roberto. Andrò ad avvertirlo della mia partenza.
Camilla. Andate, che prego il cielo... (alterata)
Roberto. Di che?
Camilla. Niente, niente.
Roberto. (Potrebbe darsi ch’ella amasse Arlecchino. Se così è, questo viaggio gli farà del bene). (da sè, parte)
SCENA VIII.
Camilla sola.
Mi sento proprio che l’ammazzerei. Andar via, e condurmi via il mio caro Arlecchino! Il mio Arlecchino? E come posso chiamarlo mio, se probabilmente egli non pensa a me, nè poco, nè molto? In quattro mesi ch’è in questa casa, non mi ha dato mai il menomo segno d’inclinazione per me. Io sì, l’ho amato, posso dire, dal primo giorno che l’ho veduto; e si è accresciuto l’amor mio a tal segno, che sono pazza per lui. Eppure non gliel’ho mai detto e non gliel’ho mai voluto dare a conoscere. Ho sempre avuto paura di non esser gradita, di essere disprezzata; ora se n’anderà, ed io resterò qui colla pena di non vederlo, e col rammarico di non aver mai saputo s’egli ha qualche stima per me. Se sapessi questo, alla buon’ora, lo lascierei partire; spererei che ritornasse a vedermi. Ma sa il cielo, se lo vedrò più! Ah pazienza! È tardi; non vi è più rimedio. Andiamo, andiamo a portare il ritratto. Andiamo a dare la buona nuova a quest’altra afflitta. (nell’atto di partire, getta l’occhio sul tavolino, e vede l'altro astucchio da ritratto) Ma qui vi è un altro ritratto. Almeno l’astucchio è da ritratto. Che sì, che la signora Dorotea ha fatto fare il suo, e lo ha dato al signor Roberto? (apre e vede il ritratto d’Arlecchino) Ah! il ritratto di Arlecchino. Il ritratto del mio caro Arlecchino! Oh come è bello! Oh come è somigliante! Gioia mia! Oh caro! Oh che tu sia benedetto! Quegli occhi guardano, quella bocca parla. Dimmi se tu mi ami, consolami, se lo puoi; consola la tua povera sfortunata Camilla. Ma perchè mai Arlecchino ha fatto fare questo ritratto? Avrebbe egli qualche innamorata in Bologna? Ah! sì, senz’altro. Ha un’innamorata; le lascierà il suo ritratto. Tanto peggio per me. Non si cura di me. Sono disperata. (getta il ritratto sul tavolino) Ma quel ritratto non potrebbe anche averlo fatto fare per me? Come il suo padrone lo dona alla mia padrona, non potrebbe egli aver in animo di far lo stesso presente alla cameriera? Oh se la cosa fosse così! (torna a prendere il ritratto) Quanto sarei contenta, quanto sarei fortunata! Caro il mio bel ritratto! Amor mio, gioia mia; dimmi, caro, è vero quel che dico? Arlecchino ti ha fatto fare per me? Chi tace, conferma. Sì, sì, tu sei mio.
SCENA IX.
Carlotto e la suddetta.
Carlotto. (Che ha nelle mani Camilla? Mi pare un ritratto. Ho sempre paura di quel maledetto Arlecchino, Sarebbe bella che un forestiere venisse a soverchiare un servitore di casa! Che un contrabbandiere venisse a frodare sugli occhi miei!) (da se)
Camilla.16 È bello, è rassomigliante; ma l’originale il sorpassa. Ha un certo vezzo Arlecchino, ha un certo riso grazioso... (Povera me! Carlotto!) (mette via il ritratto, perchè non sia veduto; e lo mette nell’altro taschino, non in quello dove ha messo il primo ritratto)
Carlotto. In che si diverte la signora Camilla?
Camilla. Oh sì certo! Chi sente voi, io non penso che a divertirmi.
Carlotto. Che cosa osservava di bello con tanta attenzione?
Camilla. Io? Niente.
Carlotto. Oh! questo niente è un poco troppo. Chi tutto nega, tutto confessa. Se non avessi veduto, non parlerei.
Camilla. Ebbene, che cosa avete veduto?
Carlotto. Che cosa ho veduto?
Camilla. Sì, sentiamo che cosa avete veduto.
Carlotto. Non ho avuto l’indiscrezion di sorprendervi; ma ci giocherei la testa che quello era un ritratto.
Camilla. Un ritratto?
Carlotto. È un ritratto. Ne son sicuro.
Camilla. È un ritratto? Bene, è un ritratto. E così?
Carlotto. E m’immagino di chi sarà quel ritratto.
Camilla. Di chi?
Carlotto. Di Arlecchino.
Camilla. Di Arlecchino?
Carlotto. Sì, di Arlecchino, e so quel che dico; e avanti che colui vada via, corpo di Bacco! mi vendicherò.
Camilla. Voi non sapete quel che vi dite.
Carlotto. Eh! ora vedremo, s’io so o s’io non so. Anderò dal padrone. (in atto di partire)
Camilla. Fermatevi; venite qua. (Oh che bestia!) (da sè)
Carlotto. Il ritratto nelle mani! Lo contempla, lo adora!
Camilla. Se vi dico la verità, mi promettete di non dir niente a nessuno?
Carlotto. Oh! se mi dite la verità, non parlo con chi che sia. (Sciocca se lo crede). (da sè)
Camilla. È vero; aveva nelle mani un ritratto.
Carlotto. Di Arlecchino; ne son sicuro.
Camilla. Ne siete sicuro?
Carlotto. Sicurissimo.
Camilla. Tenete dunque. Eccolo qui. (gli dà il ritratto di Roberto serrato)
Carlotto. A me si fanno di questi torti? A me che vi amo tanto, e che ho intenzion di sposarvi? E che posso fare la vostra fortuna?17 (prende il ritratto con disprezzo, e lo apre) Come! il ritratto del signor Roberto?
Camilla. Oh! oh! Vede, signor politico, che sa tutto, ch’è sicurissimo, che non falla mai, che indovina sempre? È restato con tanto di naso.
Carlotto. Oh! oh! signora innocente, che crede difendersi, quando più si condanna. Il di lei merito è grande: non è più il servitore, che l’ama; è il padrone. Se non è Pasquino, è Martorio.
Camilla. E avreste ardire di credere?...
Carlotto. Che ardire? Se il signor Roberto non vi amasse, non vi avrebbe dato il ritratto. E voglio dirlo, e tutto il mondo l’ha da sapere. (in atto di partire)
Camilla. No; venite qua, sentite. (Oh povera me! Sono ancora in un maggiore imbarazzo). (da sè)
Carlotto. (Io so come bisogna prenderla). (da sè)
Camilla. Sentite. Vi confiderò ogni cosa; ma per amor del cielo, non parlate. (da sè)
Carlotto. Oh! non vi è pericolo... (ch’io taccia).
Camilla. Questo ritratto è destinato per la signora Dorotea.
Carlotto. Da chi?
Camilla. Dal signor Roberto.
Carlotto. Cosa mi volete dare ad intendere? Un galantuomo, un uomo d’onore, come il signor Roberto, donerà il suo ritratto ad una giovane onesta e civile, alla figliuola di un amico che l’ha ricevuto in casa sua; lo donerà senza che il padre lo sappia, e senza alcun principio di matrimonio?
Camilla. È tutto vero; ma questa sera il signor Roberto parte per Roma, e glielo lascia per una finezza, senza cattiva intenzione.
Carlotto. E voi lo dareste alla signora Dorotea?
Camilla. Cosa volete ch’io faccia? La padrona mi ha tanto pregato.
Carlotto. (Eppure non ne sono ancor persuaso). (da sè)
Camilla. Datemi che glielo porti.
Carlotto. Glielo porterò io.
Camilla. E bene, dateglielo voi. Basta che il signor Anselmo non sappia niente.
Carlotto.(Bisogna dunque che dica il vero, se accorda ch’io glielo porti). Tenete, tenete. Sarà meglio che glielo diate18 voi. (glielo dà)
Camilla. Oh! sì, sarà meglio. (lo prende, e lo mette per distrazione nel taschino, dove è quello19 d’Arlecchino.)
Carlotto. Perchè non dirmi subito la verità?
Camilla. E perchè non credermi, quando dico una cosa?
Carlotto. Perchè alle volte voi altre donne...
Camilla. Oh! io non direi una bugìa per tutto l’oro del mondo.
Carlotto. Sì, sì; ma, Camilla mia, questa tresca della signora Dorotea... Questo ritratto non mi piace.
Camilla. Se parte questa sera...
Carlotto. Non importa. Se il padrone lo sapesse... io credo che siamo in obbligo di avvertirlo.
Camilla. No, per amor del cielo.
Carlotto. No, no, non dirò niente. (fa sospettar di voler parlare)
Camilla. Avvertite bene.
Carlotto. Se vi dico di no. (Al mio padrone vado a dirglielo immediatamente). (da sè, parte)
SCENA X.
Camilla sola.
Ho una paura grandissima che per zelo, o per vizio, costui parli. Ho fatto male io, lo so; ma ho fatto per coprire me stessa. Non vorrei che si sapesse ch’io ho dell’amore per Arlecchino. Non che mi prema di Carlotto, che non ci penso; ma non voglio che si sappiano i miei segreti. Non ho parlato; non l’ho detto a nessuno, e nessuno l’ha da sapere. Non so, s’io abbia da rimettere il ritratto sul tavolino...
SCENA XI.
Dorotea e la suddetta.
Dorotea. Camilla. (con premura)
Camilla. Signora.
Dorotea. Datemi il ritratto che vi ha dato per me il signor Roberto.
Camilla. Come lo sapete che vi ho da dare un ritratto?
Dorotea. Me l’ha detto egli stesso.
Camilla. (Dubitava di Carlotto). (da sè)
Dorotea. Licenziandosi da mio padre, me l’ha detto in passando.
Camilla. Che dite eh? Vuol partire.
Dorotea. Ma! pur troppo per me.
SCENA XII.
Il Servitore e le suddette.
Servitore. Camilla, il padrone vi domanda; ma subito con premura.
Camilla. (Povera me!) (da sè) Carlotto è con lui? (al Servitore)
Servitore. Sì, parlano segretamente. (parte)
Camilla. (Oh! Il briccon me l’ha fatta). (da sè) Presto, presto. (in atto di partire)
Dorotea. Venite qua.
Camilla. Vengo, vengo, (in atto di partire)
Dorotea. Datemi il mio ritratto. (con forza)
Camilla. Tenete, tenete. (gli dà un ritratto senza badare) (Uomini ciarloni! e poi dicono di noi donne). (da sè, parte correndo)
SCENA XIII.
Dorotea sola.
Che diamine ha costei? Cosa può volere mio padre che l’inquieta in tal modo? Lo saprò, quando la rivedrò: quello che mi dà pena, è la partenza del signor Roberto. Ma! i suoi interessi lo vogliono. Chi sa? Se mi ama davvero, spero che otterrà da suo zio la permissione di rivenire, di parlarne a mio padre, e che mio padre sarà contento. Ma intanto che farò, lontana da lui? Almeno mi consolerò col ritratto. Vediamo, se il pittor si è portato bene. Cosa vedo! Questo è il ritratto del di lui Servitore. Che cosa è mai questa stravaganza? Un equivoco di Camilla? Potrebbe darsi. Questo ritratto potrebbe essere a lei destinato. Oh cieli! Ecco mio padre. Nascondiamolo, se non per altro, per salvare almeno Camilla. (si mette il ritratto in tasca)
SCENA XIV.
Anselmo e la suddetta.
Anselmo. Che cosa si fa in questa camera? (con (sdegno)
Dorotea. Sono qui... così... Ci sono venuta per accidente.
Anselmo. In questa camera non ci si viene; non ci si viene, e non voglio che ci si venga.
Dorotea. Signore, ci sono venuta in tempo che non c’è nessuno, e non credo che possiate per questo rimproverarmi.
Anselmo. Il ritratto. (bruscamente glielo domanda)
Dorotea. Che ritratto?
Anselmo. Il ritratto. (come sopra)
Dorotea. Io non capisco niente.
Anselmo. Fuori quel ritratto.
Dorotea. Io non ho ritratti20.
Anselmo. So tutto. Fuori quel ritratto.
Dorotea. In verità, quasi, quasi mi fareste ridere.
Anselmo. Non ridere; giuro a Bacco Baccone. Metti fuori il ritratto.
Dorotea. Qual ritratto?
Anselmo. Del signor Roberto.
Dorotea. Signore... (le viene da ridere)
Anselmo. Non ridere, che giuro al cielo, ti farò piangere.
Dorotea. Chi vi ha detto che io abbia il ritratto del signor Roberto?
Anselmo. Chi me l’ha detto? Carlotto me l’ha detto. E Camilla voleva negarlo, ed è stata convinta, e l’ha confermato.
Dorotea. Che cosa vi hanno detto?
Anselmo. Che tu hai avuto un ritratto; e fuori quel ritratto. E... giuro a Bacco Baccone...
Dorotea. Oh! se Carlotto vi ha detto che ho avuto un ritratto, se Camilla l’ha confermato, dirò la verità: sì, signore, l’ho avuto.
Anselmo. Ah! ah! fuori quel ritratto.
Dorotea. (Fa bocca da ridere.)
Anselmo. Imprudente! sono cose da ridere?
Dorotea. Oh! io non rido. (si sforza) Ecco qui; io sono figlia obbediente; ecco il ritratto che mi domandate. (glielo dà)
Anselmo. Sfacciata! Direi di quelle cose che non si dicono e che non sono state mai dette. (sdegnato)
Dorotea. Si potrebbe saper, signor padre, che cosa avete con me?
Anselmo. Ancora me lo domandi?
Dorotea. Pare ch’abbia fatto qualche gran cosa.
Anselmo. Ti pare una bagattella? Sono cose da ridere?
Dorotea. Parliamo sul sodo, signor padre. Di chi credete voi che sia quel ritratto?
Anselmo. DI quel discolo, di quel malcreato, di quell’impostor di Roberto.
Dorotea. (Fa bocca da ridere.)
Anselmo. Tu ridi ancora? Uh! mi sento pizzicare le mani. (minacciandola)
Dorotea. Qualche volta le persone si potrebbero ingannare.
Anselmo. Non m’inganno, e non parlo senza esser sicuro di quel che dico. E quest’infame ritratto... (lo apre, e vede che non è quello. Si volta alla figlia senza parlare, ed ella non può trattenersi di ridere) Maledetto sia questo ridere. La volete finire? Questo non è il ritratto ch’io vi domando. Fuori il ritratto di Roberto.
Dorotea. Signore, vi protesto sull’onor mio, non ho avuto altro ritratto che questo. È uno scherzo, è una bizzarria, è una burla; e non merita che vi mettiate in furia, e vi scaldiate il sangue, e che diciate di quelle cose che non si dicono, e che non sono state mai dette. (con caricatura)
Anselmo. Non c’è altro ritratto che questo?
Dorotea. No certamente. Ve l’attesto per il rispetto e per l’amor che vi porto.
Anselmo. (Giuro a Bacco Baccone, Baccone, Baccone!) (mortificato, da sè, guardando il ritratto)
Dorotea. Signor padre, la riverisco. (ridendo parte)
SCENA XV.
Anselmo solo.
Quel ridere non lo posso soffrire. Da una parte non ha tutto il torto. Mi son lasciato dar ad intendere... Che Carlotto e Camilla si siano presi spasso di me? Per Camilla mi pare impossibile, ella è sempre stata una figliuola dabbene... Eh! chi n’ha la colpa, è quel briccone di Carlotto. Giuro a Bacco Baccone, lo caccierò via, giuro a Bacco Baccone. (parte)
Fine dell’Atto Primo.
Note
- ↑ Nettisia, nettezza.
- ↑ Pasquali e Zatta: e ’l.
- ↑ Mi consumo, mi distruggo (vol. II, p. 603): vedi G. Boerio, Dizionario del dialetto Veneziano.
- ↑ Ed. Pasquali: non sappia. E così più sotto: non voggio, non mancava, non la va fora ecc. Seguiamo l’ed. Zatta.
- ↑ Ed. Pasquali: corta.
- ↑ Astuccio.
- ↑ Ed. Zatta: Osservi quel panneggiamento e quella mano. Oh quella mano!
- ↑ Così l’ed. Zatta. Nell’ed Pasquali e nella Bolognese è stampato: gentil, manieroso.
- ↑ Nell’ed. Pasquali c’è qui il punto interrogativo.
- ↑ Così l’ed. Bolognese e l’ed. Zatta. Nell’ed. Pasquali c’è per isbaglio: dipingeva il vostro.
- ↑ Ed. Pasquali: vegnìo.
- ↑ Ed. Bolognese e Zatta: che lo paga.
- ↑ Nell’ed. Zatta c’è qui il punto, e dopo L’accomoderò io c’è la virgola.
- ↑ Innamorato come asino. V. Boerio.
- ↑ Si avverta che nell’ed. Pasquali è stampato sempre Cammilla. Nelle sue lettere il Goldoni scrive ora Cammilla e ora Camilla; ma in francese dice sempre Camille. Noi seguiamo l’uso più comune dell’ed. Zatta.
- ↑ L’ed. Pasquali apre qui subito la parentesi. Noi seguiamo l’ed. Zatta, che trasporta il segno là dove Camilla si accorge di Carlotto.
- ↑ Nelle edd. Bolognese e Zatta è saltata una riga; e così si legge: A me che vi posso fare la vostra fortuna?
- ↑ Ed. Pasquali: date.
- ↑ Ed. Pasquali: quel.
- ↑ Ed. Pasquali, ed. Bolognese: Io non ho ritratto.