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18 | ATTO PRIMO |
Arlecchino. Cossa dirà siora Dorotea? (vestendolo, come sopra)
Roberto. Son certo che sentirà della pena, ed io ne sono mortificato; ma è meglio così: è meglio ch’io me ne vada.
Arlecchino. Mo perchè meggio? Per cossa? Se vussiorìa ghe vol ben, per cossa no ghe la domandelo a so sior padre?
Roberto. E come vuoi che ardisca di domandargliela? Tu conosci mio zio; sai qual sia la sua delicatezza: si offenderebbe s’io lo facessi senza parteciparglielo; ed il signor Anselmo medesimo non me l’accorderebbe senza essere da mio zio prevenuto.
Arlecchino. E ben! che la ghe lo scriva al sior zio.
Roberto. Sciocco! Adesso ch’è moribondo?
Arlecchino. Ghe domando perdon; se la savesse quanto che me despiase a lassar Bologna!
Roberto. E perchè?
Arlecchino. Cussì... No so gnanca mi.
Roberto. Hai tu ancora qualche amoretto?
Arlecchino. Oh! mi amoretti? (vergognandosi)
Roberto. Oh! via, va a vedere di questo ritratto.
Arlecchino. Me par che i abbia battù alla porta dell’anticamera.
Roberto. Va a vedere.
Arlecchino. (Poveromo mi! Tutte le mie speranze xe andade in fumo). (da sè; va a vedere alla porta) Oh! via, che la se consola, che xe qua el servitor del pittor.
SCENA III.
Giacinto ed ì suddetti
Giacinto. Servitore umilissimo.
Roberto. Avete portato il ritratto?
Giacinto. Eccolo qui, signore.
Roberto. Vediamo. (lo apre, ed osserva)
Giacinto. In verità, è un capo d’opera.
Roberto. Non vi è male.