Giulietta e Romeo/Atto secondo
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ATTO SECONDO
SCENA I.
Una piazza in fondo alla quale il giardino dei Capuleti.
Entra Romeo.
Rom. Potrò io allontanarmi, quando il mio cuore è qui? Riedi sull’orme tue, stupido volume di creta, e fermati nel centro che solo può darti riposo. (valica il muro che separa la piazza dal giardino)
Entrano Benvolio e Mercuzio.
Benv. Romeo! cugino Romeo!
Merc. Ei non è pazzo; e, sulla vita mia, da noi fuggì solo per correre a letto.
Benv. No; venne di qui, e valicò, senza dubbio, il muro di quel giardino. Chiamalo, buon Mercuzio, chiamalo un’altra volta.
Merc. Sì; ed anzi l’evocherò con magiche parole. Olà, Romeo, folle, appassionato, amator da romanzo, comparisci sotto forma di un sospiro; rispondine con una interiezione, e sono contento. Olà! soltanto un oimè! un ahi! una dolce rima. Fa chiusa a’ versi tuoi con cuore e amore, colomba e tomba. Solleva un canto a mia comare Venere; fa un epigramma al suo figliuolo ed erede Amore. Volgi una strofa al garzoncello Adamo Cupido, l’arciero famoso, che vibrava sì giusti i teli allorchè il re Cofetua prendeva in buon conto la mendicante pulcella1. Ei non m’ascolta, non si muove, non apparisce, la fa da morto. Ebbene, scongiurerollo con prestigi più potenti. (alzando la voce) Romeo, io ti comando per gli occhi lucidi della tua Rosalina, pel suo bel fronte, per le purpuree sue labbra, pel breve suo piede; per la ben tornita gamba, in fine per tutte l’altre sue celate bellezze, di comparirne dinanzi colla forma che t’è propria2.
Benv. Le tue celie l’offenderanno, s’egli le intende.
Merc. No, di ciò non isdegnerassi; chè solo sdegnarsi potria, se evocassimo qualche altro spirito nel circolo magico della sua ganza, e ve ’l lasciassimo infin ch’ella si fosse sottomessa al suo potere. Ma la mia invocazione è nobile e graziosa; ed è solo in nome della sua donna che l’esorto a mostrarsi.
Benv. Vieni: ei sarà penetrato nel più interno di quel bosco, per non avervi a compagne che la notte e le sue ombre malinconiche; il suo amore è cieco, e si uniforma bene alle tenebre.
Merc. Se cieco è il suo amore, mal vedrà il bersaglio. Ah! senza dubbio egli ora se ne starà assiso sotto qualche antico salice, per esalarvi fra l’aure gl’insensati suoi voti, e porger preci affinchè la sua fanciulla si renda flessibile come i rami che gli stan sopra. Romeo, buona notte; me ne vuo’ ire a letto. Questo strato de’ campi è per me troppo freddo, dormire non potrei. — Andiamo, Benvolio.
Benv. Andiamo, imperocchè è vana cosa il cercare un uomo, a cui non piace di essere trovato.
SCENA II.
Giardino dei Capuleti.
Splende la luna. Romeo entra.
Rom. L’Amore irride solo colui che non fu mai ferito da’ suoi dardi. (Giulietta si mostra al verone) Che veggo? Qual luce scende da quel verone? Ah! l’Oriente è quello, e Giulietta n’è il Sole! Sorgi, bel Sole, sorgi, ed eclissa quest’invida Luna, che mal patisce che tu, vergine del suo culto, splenda più chiara di lei. Spoglia le bende tue, dacchè le sei fatta incresciosa, e muta la bianca tunica della Verginità nel roseo mantello dell’Amore. Ah! sì, Giulietta, sei tu... sei tu, cuor mio. Oh dirti almeno potessi tutto che io sento per te! E’ sembrami vederla parlare, e niun suono ascolto della sua voce... Ma i suoi occhi favellano eloquenti, ed io loro risponderò. — Troppo fui temerario! a me non parlava. I due astri più belli del firmamento, chiamati ad illuminare altri mondi, pregarono gli occhi di lei ad assumere il posto loro. Ma se anche quegli occhi brillassero nell’etere celeste, lo splendore delle sue guancie oscurerebbe tutte le altre stelle, come il raggio del sole rende pallidi i lumi del nostro emisfero. Oh! sì, se quelle luci fossero nel cielo, gli uccelli ingannati dal chiarore che se ne diparte, canterebbero per tutta la notte, credendo salutare l’Aurora. — Ecco, essa declina il suo volto su quella mano di rose... Oh foss’io il guanto che quella mano ricuopre, onde essere al contatto di quella tenera guancia!
Giul. Oimè!
Rom. Favella! Oh! parla di nuovo, bell’angelo, parla un’altra volta. Nell’altezza in cui ti discerno, tu mi appari raggiante come un celeste messaggiero, che agli occhi de’ genuflessi mortali sfolgora un istante, e scompare.
Giul. Romeo! Romeo! perchè sei tu Romeo? Disconosci tuo padre; rinnega il tuo nome; o, se meglio l’ami, giura d’essermi amante, e cesserò d’appartenere ai Capuleti.
Rom. (a parte) L’udrò io ancora, o risponderò a queste parole?
Giul. Non v’ha che il tuo nome che mi sia nemico; e cessando d’esser de’ Montecchi, non a te rinunzieresti. Or che è un nome per te? Il fiore che chiamiam rosa, con ogni altro nome rosa pure sarebbe, e con profumi egualmente eletti empirebbe le aure. Or tu, Romeo, rinunziando al tuo nome, non meno conserveresti le doti che m’han presa di te. Oh! abbandona dunque tal nome che non fa parte dell’esser tuo, ed abbine in ricompensa tutta me stessa.
Rom. Ubbidisco al tuo detto; mi sia nuovo battesimo l’Amore; chiamami tuo amante; io non sono più Romeo.
Giul. Che ascolto! Chi sei tu, che nascosto fra le tenebre spii i miei segreti?
Rom. Non ho nome, mio bell’angelo, per dirti chi io mi sia; abborro il mio nome perchè è odiato da te.
Giul. Questa voce m’è nuova ancora; ma pur la riconosco. Oh! di’, non sei tu Romeo, della stirpe dei Montecchi?
Rom. Nol sono, amore, se essendolo ti dispiaccio.
Giul. Oh! come entrasti tu qui? ed a qual fine? I muri che circondano questo giardino sono ardui, e pressochè inaccessibili; e il luogo in cui stai ti sarà tomba, se alcuno de’ miei ti sorprende.
Rom. Coll’ali dell’Amore valicai l’altezza di que’ muri, chè barriera non v’ha al prepotente Amore: tutto che Amor può tentare, Amor l’osa; onde a’ tuoi non ebbi riguardo allorchè qui venni.
Giul. Ma se qui ti colgono, ti uccideranno sotto i miei occhi.
Rom. Oimè! ben più gravi pericoli vi sono per me in que’ tuoi occhi, che in tutte le armi che lo sdegno potesse far loro impugnare. Addolcisci gli sguardi tuoi, e sarò invulnerabile per loro.
Giul. Oh! per tutto il mondo non vorrei che quivi ti vedessero.
Rom. Avvolgerommi nel mio mantello, per sottrarmi a’ loro sguardi; ma se tu non puoi amarmi, mi sarà grato che qui mi ritrovino. Ben più dolce mi sarebbe il terminare la vita sotto i loro colpi, che il protrarla diserta d’ogni consolazione.
Giul. Ma chi ti fa guida a questi luoghi?
Rom. L’Amore... che m’infuse il suo genio, com’io diedi a lui gli occhi miei. — Odi: io non appresi l’arte del navigante; ma fossi tu oltre i più remoti mari, orridi d’infiniti scogli, non esiterei un istante a dar le vele ai venti per approdare al lido che serbasse un tanto tesoro.
Giul. Se questo velo di tenebre, che mi ricuopre, non mi togliesse a’ tuoi sguardi, tu vedresti come il rossor della modestia mi colorisca le gote per la ricordanza de’ sospiri che mi udisti esalare testè. Oh foss’io stata più cauta! e ritrattar potessi le proferite parole! — Ma vano è il desiderio: lungi sia dunque da me ogni sembianza simulata. — Mi ami, Romeo? So che risponderai affermando; e il tuo affermare m’empirà di gioia... Oh! non proferir giuramenti che mal t’impedirebbero di divenire spergiuro; perocchè le infedeltà degli amanti si hanno in conto di giuochi dell’Amore. Gentil Romeo, se m’ami, dillo con fede schietta; dillo con quel candore ch’è affine solo della verità. Ma forse di me mal pensi, perchè sì tosto m’arresi a’ voti tuoi... Ah! se ciò è, riprenderò un aspetto severo, e disdirò quella confessione che in altra guisa ritrattar non vorrei per tutti i tesori del mondo... — Forse però, amabile Montecchio, troppo affettuosa ti sembro, e temi sia in me soverchia la femminile leggerezza. Oh! se ciò credi, male credi; e più fedele mi troverai d’ogni altra che ostenti maggiore ritrosia. Sì, forse più cauta io doveva essere, lo confesso; ma le parole che per sorpresa intendesti, esprimevano veracemente il mio cuore, e rivelavano con ingenuità i miei sentimenti.
Rom. Giulietta, pel sacro astro che inargenta le cime di questi alberi ti giuro...
Giul. Non giurare, non giurare per quell’astro incostante che muta forme sì spesso; temerei che il tuo amore non divenisse mutabile al par di lui.
Rom. Per che giurerò dunque?
Giul. Non giurar per nulla, o se giurare pur vuoi, giura per te stesso, per te ch’io adoro, e a cui mi affiderò.
Rom. Se mai fu amore al mondo...
Giul. Fermati; non dir per anche. La tua presenza mi colma di gioia; ma di lieto augurio non m’è lo stringere in questa notte il legame del nostro amore: con troppa inconsideratezza, troppo temerariamente formato, stretto colla rapidità del lampo, forse rapido come il lampo si discioglierebbe. Amabile Romeo, riedi a’ tuoi lari; il germe d’amore che è in noi, e di cui siam fatti consapevoli, potrà essere divenuto un bel fiore al nostro primo colloquio. Addio, addio: possa tu godere d’un sonno sì dolce, come dolce è la pace che mi empie il seno.
Rom. Oh! così dovrò partirmi?..
Giul. Che chiedi di più?..
Rom. La fede del tuo amore...
Giul. Te l’impegnai prima che la chiedessi, e vorrei averlati ad impegnar una seconda volta.
Rom. Forse ritormela vorresti? perchè ritorrestila, amore?
Giul. Solo per ridonartela, e farti accorto di mia sincerità. Oh! Romeo! il mio amore per te è vasto come l’Oceano; come l’Oceano è inesauribile: e più verso te ne spando, più n’ho copia; chè entrambi immensi, infiniti sono. Ma odo qualcuno che si avanza... Mio amico, addio (la Nutrice dal di dentro della casa chiama Giulietta) Sono da te, buona nutrice... Amabile Montecchio, rimanti ancora un istante, che in breve tornerò. (entra)
Rom. Oh fortunata, fortunata notte! eternamente mi starai scolpita nell’anima. (Giulietta apparisce di nuovo)
Giul. Anche alcune parole, Romeo, e poi addio. Se questo tuo amore intende ad onorevoli fini, se scopo de’ tuoi voti è la nostra unione, rispondimi dimani col mezzo che te ne offrirò, e dimmi in qual luogo, in qual tempo riempirai la sacra cerimonia. A questa allora verrò per deporre a’ tuoi piedi tutte le mie ricchezze, e seguirti, mio fido, sino agli estremi del mondo. (la Nutrice dal di dentro chiama Giulietta) Son con voi, madonna. — Ma se le tue mire altrove si volgessero, se... (la Nutrice ripete la chiamata) Intesi, madonna, son con voi. — Se mal mi apposi nel crederti mio amante, desisti, te ne scongiuro... (la Nutrice di nuovo)... Vengo, vengo, madonna... desisti dal ricercar di me, e abbandonami in preda a tutto il mio dolore.
Rom. Così possa l’anima mia...
Giul. Mille volte addio! (scompare)
Rom. Oh! mille volte infelice d’esser privato della tua presenza! L’amore vola verso l’amore coll’ardore con cui il giovine studente fugge i suoi libri; l’amore, dividendosi dall’amore, prova la tristezza che sente il discepolo richiamato allo studio dal suo maestro odioso3. (si allontana lentamente, Giulietta ritorna)
Giul. Romeo! Romeo! Oh avessi la voce del falconiere, per richiamare a me quell’amabile uccello! ma nella schiavitù è arduo parlare ad alta voce... Se altrimenti fosse, vorrei empire l’aria de’ miei gridi, e affaticar gli echi col nome del mio Romeo.
Rom. È l’amor mio che proferì il mio nome? Oh come gli accenti d’un’amante risuonano dolci e chiari nel silenzio della notte! Di qual celeste melodia inebbriano l’orecchio che gli ascolta!
Giul. Romeo!
Rom. Giulietta!
Giul. A quale ora dimani manderò il mio messaggio a te?
Rom. Alle nove.
Giul. Non lo dimenticherò, sebbene per arrivarvi tanto tempo abbia a trascorrere... Ma perchè ti chiamai? Io più non me ne rammento.
Rom. Resterò qui finchè te ne sii ricordata.
Giul. L’obblierò sempre se ti vedrò vicino a me, e solo mi pascerò del piacere di contemplarti.
Rom. Ed io resterò teco per fartelo sempre obbliare, e obbliare vicino a te tutto l’universo.
Giul. Il giorno omai spunta... vorrei che tu fossi partito; ma che non fossi andato più lungi da me di quello che vada da un fanciullo l’animaletto ch’egli ha preso, e a cui talvolta allenta il laccio, senza però reciderlo; tanto il suo amore s’oppone alla di lui libertà.
Rom. Oh divenissi io l’augelletto prigioniero fra i lacci tuoi!
Giul. Lo divenissi! Io pure lo vorrei, mio amico; quantunque allora forse accader potrebbe che ti togliessi la vita colle troppe carezze. Addio, addio; e in quest’addio è infusa tanta dolcezza, che lo ripeterei finchè il mattino ne venisse a sorprendere.
(rientra)
Rom. Possa discendere il sonno su’ tuoi occhi, come la pace nel tuo cuore; e foss’io quel sonno e quella pace che riposano sovra sì care membra! — Ma tosto me ne voglio andare dal mio Padre Religioso per istruirlo della mia lieta ventura, e chiedere i suoi consigli. (esce)
SCENA III.
Cella di frate Lorenzo; al di fuori giardini pieni di piante aromatiche.
Entra il Frate con un canestro.
Fr. Il mattino dagli occhi grigi sorride fra le tenebre della notte; liste di luce cominciano ad imbiancare le nubi d’Oriente; la notte avviluppata nel negro suo manto fugge i raggi del dì, e come un ebbro vacilla, e si ritrae dinanzi alle infiammate ruote del sole. Prima che quest’astro mostri il suo occhio ardente che rallegra la natura; prima che i suoi fuochi abbiano assorbita la fresca rugiada, riempirò questo canestro con semplici d’ogni specie, con piante velenose, e fiori di succo raro. La terra è madre e tomba di natura, e il suo seno ne dischiude mille produzioni diverse, numerosi parti di sua fecondità. Oh qual potenza vivificatrice fu posta nelle piante, nell’erbe, nei sassi! quanta varietà nei loro attributi! In tutto ciò che vegeta e cresce sulla terra, non è cosa sì vile, che non offra qualche vantaggio; non alcuna sì buona, che, distolta dal suo uso, non degeneri dalla sua prima natura, e non si cangi in male. Talvolta la virtù stessa muta a vizio, quando è male estimata; e il vizio talvolta si nobilita con atti di virtù. Nel giovine calice di questo fiorellino sta pure il veleno, e la medicina ne sa trar partito: fiutandolo, rallegra i sensi; ingoiandolo, uccide. Così nel seno dell’uomo stanziano due nemici sempre in guerra, la grazia e la mala volontà; e dacchè la parte cattiva la vince, la morte irrigidisce ugualmente il seno dell’uomo e della pianta.
(entra Romeo)
Rom. Buon dì, Padre.
Fr. Benedicite! Qual voce mattutina mi salutò con tanta dolcezza? — Figlio mio, cotesta visita in tal’ora accenna a un’anima stranamente turbata. Qual cura vi fece abbandonare sì presto il letto? L’inquietudine stabilisce la sua dimora negli occhi del vecchio; e dov’ella resta, non mai scende riposo: ma nelle piume in cui s’adagia la spensierata giovinezza, il sonno suole piacere. Tanta solerzia perciò mi ammonisce che triste cure vi conturbano, e che forse non vi coricaste neppure nella notte passata.
Rom. Quest’ultima congettura è vera; ma non meno dolce fu perciò il mio riposo.
Fr. Iddio ve lo perdoni! Rimaneste forse con Rosalina?
Rom. Con Rosalina? Oh no, no, venerabile Padre. Dimenticai già questo nome, ch’è nome fatale.
Fr. Ben dite, figlio mio; ma dunque dove siete stato?
Rom. Non attenderò per dirvelo che me’l chiediate una volta ancora. Fui a un banchetto del mio nemico, dove un oggetto sconosciuto mi ferì, e rimase da me ferito: il rimedio ad entrambi noi è riposto nel vostro ministerio. Non nutro odii nel cuore, sant’uomo, e lo vedete; la mia preghiera implora egualmente la salute del mio nemico e la mia.
Fr. Parla chiaramente, buon figlio, e aprimi il tuo cuore; una confessione dubbia non è confessione che valga.
Rom. Sappiate adunque apertamente, che la mia tenerezza si fermò sulla figlia del dovizioso Capuleto, sulla bella Giulietta, il di cui amore m’imparadisa, come il mio la fa beata. L’intima unione de’ nostri cuori è pattuita; ora non v’è che da santificarla col matrimonio. Come imparassimo ad amarci, come divenissimo consapevoli del vicendevole nostro affetto, come scambievolmente ci giurassimo fede perpetua, ve lo dirò in miglior tempo; ora solo vi scongiuro di acconsentire a farne sposi, e in questo medesimo giorno.
Fr. Quale strano mutamento! Rosalina, che con tanto cuore amavi, è dunque sì tosto dimenticata? Ah sì, l’amore de’ giovani non s’alimenta nel cuore, ma negli occhi! Oimè! quanti dolori, quante pene hai tu patite per un amore di già obbliato! Or che avvenne dei sospiri con cui intiepidivi incessantemente le aure? I gemiti tuoi risuonano ancora al mio orecchio; i solchi che scavarono le tue lagrime, non sono ancora rimarginati: e nondimeno Rosalina è obbliata irrevocabilmente. Ah! consenti meco, che le donne meritano scusa se talora soccombono, poichè vedesi negli uomini tanta incostanza.
Rom. Ma spesso mi rimproveraste l’amore che io nutriva per Rosalina.
Fr. Solo la specie d’amore, con cui l’amavi, ti rimproverai.
Rom. E spesso mi raccomandaste di vincerlo, d’obbliarlo.
Fr. Ma non perchè ve ne succedesse un altro.
Rom. Oh! in mercè, Padre, non mi garrite: quella che ora amo mi corrisponde; l’altra nol volle mai fare.
Fr. Perchè ben conosceva la vanità del tuo amore, a cui il cuore non prendeva alcuna parte. Vieni, giovine; siegui i miei passi. Una speranza mi anima a porgerti il mio ministerio; ed è, che mercè questa unione cessino gli odii inveterati delle famiglie vostre, e sorrida di nuovo la pace in questa amata Verona.
Rom. Oh! ve ne scongiuro, andiamo; non perdiamo un istante.
Fr. Affrettiamoci, ma con savia fretta; chè chi troppo corre, sovente precipita. (escono)
SCENA IV.
Una strada.
Entrano Benvolio e Mercuzio.
Merc. Dove sarà Romeo? non rientrò in tutta la notte?
Benv. Suo padre mi disse del no.
Merc. Ah! senza dubbio cotesta pallida Rosalina, dal cuore insensibile, arriverà a fargli perdere la testa.
Benv. Tebaldo, cugino del vecchio Capuleto, ha mandata una lettera alla casa di suo padre.
Merc. Un cartello, affè di Dio.
Benv. Romeo ben vi risponderà.
Merc. Chiunque sa scrivere, sa rispondere ad una lettera.
Benv. Ma ei risponderà all’autor della lettera come si conviene.
Merc. Oimè! infelice Romeo! egli è già morto; morto trafitto dall’occhio nero d’una fanciulla bianca; trapassato di fibra in fibra da una canzone d’amore; forato in mille parti dai dardi del cieco Cupido! E tu vorresti che un tal uomo potesse far fronte a Tebaldo?
Benv. Perchè? chi è costui?
Merc. Un prode, un valoroso, se mai ne furono; uno schermitore da contender la palma al re dei gatti4; che si batte come tu canti un ritornello; che conserva tempo, misura e spazio come un oriuolo; e ti frange colla prima stoccata qualunque bottone dell’abito. Un duellista, un duellista, se mai alcuno ne visse, che para, mira, strafora colla rattezza del lampo. En garde! en garde!
Benv. Che vuoi tu dire?
Merc. Dico che il diavolo confonda coteste sciocche maniere venuteci di Francia, che fanno di uno schermitore un uomo generoso e prode. O avi miei, non è ella deplorabile cosa che le locuste dei paduli abbiano contaminate le messi de’ campi? E nondimeno non vedresti alcuno di costoro assidersi sopra un banco di antica fabbrica, senza che lo udissi gridare: Oh le mie ossa! le mie ossa! (entra Romeo) Benv. Ecco Romeo.
Merc. Ma privo dell’adipe che gli stava intorno, ma secco e dilombato come un’aringa. — Oh amico, amico, come sei fatto macro!5 — Eccoti ora interamente assorto nei teneri versi del Petrarca! Ma, appo la tua donna, sono certo che la Laura di quello non sarebbe stata che una guattera, sebbene avesse un miglior poeta per celebrare i suoi vezzi. Didone ancora a tal pareggio sarebbe sembrata una femmina di mal affare; Cleopatra una zingana; Elena ed Ero due frasche. Ma veniamo a noi. Bonjour, messer Romeo; eccovi un saluto alla francese, in cambio del modo francese con cui ci lasciaste iersera.
Rom. Buon giorno ad entrambi. Ma a che cosa alludete?
Merc. Al modo con cui ci scappaste. M’avete ora compreso?
Rom. Perdono, buon Mercuzio; una forte doglia mi opprimeva6.
Merc. Ed ora più non t’opprime? Ne sia gloria al Creatore! Or di’, Romeo, non vai meglio far pompa di bei motti, che consumar la vita fra gemiti e dolori? Ah! quell’amor tuo t’infondeva tal patetica mestizia, che il vederti era eccellente ricetta contro le tentazioni.
Rom. Cessa da’ tuoi scherzi, Mercuzio; e’ sono inopportuni.
Merc. Tu vuoi che cessi allorchè ho appena incominciato?
Benv. Sì, perchè altrimenti ti diffonderesti di soverchio.
Merc. Oh! t’inganni: gli scherzi miei attingon sempre tosto la loro meta.
Rom. Ecco una vaga coppia. (entrano la Nutrice e Pietro)
Merc. Una vela, una vela, una vela!7
Nutr. Pietro!
Piet. Che volete?
Nutr. Il mio ventaglio, Pietro.
Merc. Ben fai, Pietro, a darle di che nascondersi il viso.
Nutr. Buon giorno, signori.
Merc. Buon tramonto, madonna.
Nutr. È forse l’ora del tramonto?
Merc. È come se fosse, madonna; imperocchè l’oscena sfera del tempo sta ora appunto per isprofondarsi nel bel mezzo... del giorno.
Nutr. Che linguaggio è il vostro, messere? che uomo siete voi?
Rom. Un uomo abbandonato da Dio; credetemi, signora.
Nutr. Ben detto, affè, ottimamente detto. — Ma sapreste, cavalieri, indicarmi il luogo dove sarà ora Romeo?
Rom. Io ve l’indicherò, perocchè sono quello che cercate.
Nutr. Alla buon’ora; desidero di parlarvi.
Benv. Vorrà invitarlo a qualche banchetto.
Merc. (cantando) «Oh la mezzana, la mezzana indegna!»
Rom. Che canto è cotesto?
Merc. Un antico ritornello. (cantando)
«Oh la mezzana, la mezzana indegna!
«Rompe a lascivia i cuor dove amor regna».
Verrai oggi a casa, Romeo? Pranzeremo di buon grado con te.
Rom. Fra poco vi seguirò.
Merc. Addio, antichissima dama; addio, accalappiato augelletto. (esce con Benvolio ripetendo: Oh la mezzana, la mezzana indegna!)
Nutr. In verità, fu cortese il saluto! — Pregovi, signore, chi è quel malcreato?
Rom. Un gentiluomo, nutrice, che ama le proprie ciancie, e promette più cose in un minuto, che non n’eseguisca in un dì.
Nutr. Se ardisce dir altro contro di me, lo pesterò sotto i miei piedi, fosse ei più vegeto di una bella primavera. Oh il gaglioffo! m’ha forse avuta in conto di qualche buona donna? (a Pietro) E tu, ribaldo, stai là immobile, e permetti che ognuno faccia di me quel che più gli talenta?
Piet. Non vidi alcuno che facesse di voi malvagio uso; se visto l’avessi, vi giuro che l’avrei spacciato.
Nutr. In verità che mi sento ancora così commossa, che non ho membro che stia fermo. Oh villano! l’indegno villano! (a Romeo) Signore, ve ne prego, una parola... e, come vi diceva, la mia giovine dama mi ha imposto di venirvi a cercare; ma quello che mi comandò di dirvi lo terrò dentro di me, se non mi dichiarate prima quali intenzioni avete. Perchè se mai v’immaginaste di trascinar la povera fanciulla nel paradiso dei matti, come lo chiamano, vi dico affè che la sarebbe una ben cattiva azione; e se parlaste finto con lei, affermo che sarebbe cosa, come la sogliono dire...
Rom. Nutrice, raccomandami alla tua giovine signora. Io ti giuro...
Nutr. Buon cuore! in fede che gliene dirò. Romeo, Romeo, ella sarà una sposa felice.
Rom. Ma che cosa le dirai, nutrice? Tu non attendesti a quello che io voleva dirti.
Nutr. Le dirò, signore... che giuraste; le dirò...
Rom. Ditele che trovi mezzo di venir oggi alla cella di frate Lorenzo, dove ci uniremo per sempre coi vincoli del matrimonio. Tenete pel vostro disagio.
Nutr. No, affè, messere; no, affè, non accetterei un obolo.
Rom. Ite, ite; vi dico che dovete accettare.
Nutr. Oggi, signore? Ebbene, la ci verrà.
Rom. E voi, nutrice, attendetene dietro il muro dell’Abbadia, dove il mio paggio, fra un’ora, vi starà aspettando, onde darvi una scala di corda, che nel silenzio della prossima notte mi farà montare al colmo della felicità. Addio: parlate di me a Giulietta; non ci tradite, e sarete ricompensata.
Nutr. Ora il Dio del cielo vi benedica! — Uditemi, signore.
Rom. Che vuoi, mia cara nutrice?
Nutr. Il vostro paggio è uom da segreti? Non intendeste mai dire che due persone possono conservare un segreto, quando una sola lo sa?
Rom. Vi do fede che il mio paggio è fedele e schietto come l’acciaro.
Nutr. Bene, bene, signore... ma la mia Giulietta è la più dolce fanciulla... oh signore, signore... cominciava appena a balbutire, quando... e vi è però in questa città un nobile, un certo Paride, che ben volontieri vorrebbe dividere il di lei mantile al desco: ma ella, oh! sì ora gli bada; e vi fo certo che quando lo vede, è come se vedesse la versiera. Io la garrisco per ciò qualche volta, e le dico che Paride è garzone molto proprio; ma vi do fede che quando le favelle di ciò, diventa pallida come una tela che esce di bucato.
Rom. Raccomandatemi a lei con amore.
Nutr. Non temete, che sarà fatto. (Romeo esce) — Pietro!
Piet. Che c’è?
Nutr. Prendi il mio ventaglio, e precedimi. (escono)
SCENA V.
Giardino dei Capuleti
Entra Giulietta.
Giul. Erano le nove quando inviai la nutrice, e fra un’ora mi avea promesso di tornare, me l’avea promesso; e invece... Oh! i messaggi dell’amore dovrebbero esser portati dal solo pensiero, che dicesi traversare gli spazi diecimila volte più celere di quello che i raggi del sole fughino le ombre della terra. Senza dubbio è perciò che gli antichi apprestarono l’ali all’Amore, e aggiogarono al suo carro le nobili colombe. — Il sole, montato al più alto vertice di suo corso, mi ammonisce che tre ore sono passate da che la nutrice partì. Non l’avesse ella trovato? Ah! se l’ardore della giovinezza le scorresse per le vene, se le passioni della giovinezza le scaldassero il petto, certa sono che trovato l’avrebbe, e sarebbe già ritornata; ma la vecchiaia è languida, è sconsolata d’ogni affetto; e rende inerti quelli su di cui s’aggrava come mole di piombo, (entrano la Nutr. e Pietro) — Oh gioia! eccola di ritorno. Oh mia cara nutrice! quali novelle...? il trovaste? Licenziate il domestico.
Nutr. Pietro, ritirati. (Pietro esce)
Giul. Ebbene, mia buona nutrice, mia madre di latte... Oh Dio! perchè sì mesta? Se triste novelle mi apporti, fa di annunziarmele con volto sereno; se liete, non ne intorbidar così la dolcezza.
Nutr. Non posso più; lasciatemi riposare un istante. Ahi, ahi le mie ossa! oh che corsa ho dovuto fare!
Giul. Vorrei che aveste la mia gioventù, ed io le vostre novelle. Ah! per pietà, parlate, buona nutrice, parlate.
Nutr. Che impeti! non potete aspettare un istante? non vedete che sono trafelata?
Giul. E perchè sperdere il fiato, che ti avanza, dicendomi che più non ne hai? La scusa che mi porgi, richiede maggior lena delle novelle che hai ad annunziarmi. Oh! dimmi: arrechi buone o cattive novelle? Di’ solo questo, e aspetterò paziente.
Nutr. (con ironia) Ebbene, vi dirò che faceste una scelta da idiota... che mal sapete ritrovar gli amanti... che quel Romeo non è uomo per voi, sebbene il suo volto sia il più bello ch’io mai vedessi; sebbene le sue gambe superino le gambe d’ogni altr’uomo; sebbene la sua mano, il suo piede, il suo corpo... tutto infine passi ogni comparazione. Ma forsechè con tutto questo è poi poco gentile? Affè di Dio, che mai non vidi più dolce agnello. Va, va, figliuola, e continua in questa guisa a servir bene Iddio. — Ma avreste già pranzato?
Giul. No no; ma tutto quello che m’avete detto lo sapeva. Che vi disse del nostro matrimonio? che ve ne disse?
Nutr. Ah mio Dio, che dolor di testa! che povera testa ho io mai! Sento che le arterie mi battono, come se volessero scoppiarmi in mille parti, e poi la spina... oh la mia spina, la mia spina! Dio del cielo! come avete mai cuore di farmi così cercar la morte con tali fatiche?
Giul. In verità, sono ben dolente di vedervi soffrire, mia povera nutrice; ma che vi disse il mio amante?
Nutr. Il vostro amante mi parlò da quel valentuomo ch’egli è, obbligante, cortese, gentile, e, ne son sicura, virtuoso. — Dov’è vostra madre?
Giul. Dov’è mia madre?... perchè?... ell’è dove suol essere. Che strane risposte son queste che mi date? Il vostro amante parlò da quel ch’egli è; dov’è vostra madre?
Nutr. O cara fanciulla del Signore, siete così impetuosa? È questo il balsamo che apprestate alle mie ferite? Per l’avvenire recherete i vostri messaggi voi stessa.
Giul. Veggo nelle vostre mani una scala... Ah! che disse Romeo?
Nutr. Otteneste licenza d’andarvi a confessare oggi?
Giul. L’ottenni.
Nutr. Sta bene: andate dunque alla cella di frà Lorenzo, dove uno sposo vi aspetta. Ah! ah! ora il sangue vi s’infiamma, e vi ascende alle gote? Ma ogni mia parola lo scalderà ben di più. Ite alla chiesa, e io intanto attenderò ad altra bisogna; chè preparar m’è d’uopo la scala per cui il vostro amante salirà al nido della sua colomba, allorchè sia caduta la notte. Per ora in me sola gravita tutta la fatica dei vostri piaceri, ma questa sera in voi pure ricadrà una parte del fardello. Addio: ite, ite; io me ne vado a pranzo.
Giul. Oh mia buona nutrice! sono al colmo della felicità.
(escono)
SCENA VI.
Cella di frate Lorenzo.
Entrano Frà Lorenzo e Romeo.
Fr. Voglia il Cielo benedire questo sacro contratto, e preservarci dal pentimento nelle ore che seguiranno.
Rom. Amen! amen! Ma mi colgano anche tutte le sventure unite, esse non bilancieranno mai la gioia che produce in me un istante della sua presenza. Unite soltanto le nostre mani proferendo le parole solenni, e la morte struggitrice dell’amore spieghi in seguito tutta la sua crudeltà, poco men cale; a me basterà di aver potuto chiamare Giulietta mia sposa.
Fr. Questi violenti trasporti terminano fra violenti dolori e spirano in mezzo all’ebbrezza, simili alla polvere e al fuoco, che dacchè vengono a contatto, avvampano e si consumano. Il mele più dolce, a forza di dolcezza, diventa insipido e sazia fino alla nausea. Imparate ad amar con moderazione, se amar volete lungo tempo. (entra Giulietta) Ecco la donna vostra. Oh! piè sì leggiero non logorerebbe mai l’eterno marmo di questo pavimento. Sì, credo che una tale amante si libri sovr’ali di farfalla, che il più lieve spiro trasporta; tanto l’amore la rende eterea.
Giul. Buon dì, mio reverendo Padre.
Fr. Romeo, figlia mia, ti ringrazierà per entrambi.
Rom. Ah Giulietta! se la misura della tua gioia trabocca come la mia, e in te è maggiore attitudine a dipignerla, profuma col vergine tuo alito quest’aura che ne circonda, e di’ con dolce eloquenza qual sia la felicità di cui ci inebbria questo desiderato incontro.
Giul. Il sentimento è più ricco della parola; il vero contento, pago dell’interna sua gioia, non ha mestieri che lo si vanti; e ben povero è quegli che può contare il suo tesoro. L’amor mio, la mia felicità toccano ad un apice, di cui è impossibile misurare l’altezza.
Fr. Venite; seguitemi, e permettete che non vi lasci soli finchè la santa Chiesa non v’abbia vincolati col matrimonio. (escono)
Note
- ↑ Allusione all’antica ballata Il Re e la Pezzente.
- ↑ Agli scongiuri di Mercuzio andavano ancora uniti: e per la sua... «quivering thigh and the demesnes that there adjacent lie» che non istimammo conveniente di tradurre.
- ↑ Abbiam tradotto alla lettera.
- ↑ Vedi la storia di Renardo la Volpe.
- ↑ Il testo ha: O flesh, flesh, how art thou fishified? cioè: Oh carne, carne, come ti sei pescificata!
- ↑ Omettiamo alcuni inutili giuochi di parole fra Romeo e Mercuzio, impossibili a tradursi.
- ↑ Allude forse alla nutrice, che essendo donna, è riguardata da lui come cosa che piega ad ogni soffiar di vento.