Mia madre

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Un'amante I nemici
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Mia madre.


Non tutti gli scolari erano finiti di entrare in classe; e, dalla porta tenuta spalancata, seguitavano a giungere trafelati; qualcuno anche scalmanato e tutto rosso in viso, mettendosi a sedere dove c’era più posto. Solo di rado, l’insegnante indicava a quale banco.

Io a pena osavo di guardarmi attorno; senza che io riescissi a sapere perchè, riabbassando rapidamente gli occhi, provassi un’emozione sempre più forte.

Io ero così sciocco da credermi capace di ammazzare qualcuno; provandone, nello stesso tempo, un terrore che m’eccitava. Perciò mi pareva anche naturale che lì al Seminario mi tenessero poco volentieri! Il medico aveva detto a mia madre che io ero troppo nervoso, [p. 197 modifica] e non avevo voluto più farmi visitare; scappando subito appena lo vedevo.

L’insegnante della terza ginnasiale era un prete d’aspetto campagnolo, ma non sanguigno e nè meno rude. Pareva che ci conoscesse tutti, fino in fondo al nostro animo; meglio di noi stessi. Egli, dopo averci guardato a uno per volta, di mano in mano che gliene veniva il caso, riabbassava un poco la testa e si faceva serio. Non era alto, ma di spalle massicce; e, quando rispondeva ai nostri saluti, socchiudeva gli occhi neri che gli doventavano piccoli piccoli e acutissimi; raggrinzando insieme le labbra, e facendo le boccacce perchè ridessimo.

Io non riescivo nè meno a stare a sedere; e ora mi accomodavo più a destra e ora più a sinistra; tanto che egli se ne accorse e venne a vedere perchè facessi a quel modo. Ma il banco mi pareva troppo duro; e, tutte le volte che volevo muovere le mani per aprire il quaderno o per infilare il pennino nuovo nel cannello, mi facevo sempre male perchè le battevo da per tutto.

Su una parete della cattedra, c’era un crocifisso più grande di quello della seconda [p. 198 modifica] ginnasiale; e questa differenza mi sembrava che dovesse significare qualche cosa che non capivo, facendomi paura. E io che non volevo aver paura, provavo un senso di perversione. Da quando me ne resi conto, non potevo voltarmi da nessuna parte senza aver prima guardato il crocifisso.

Tuttavia cominciò anche a me il desiderio di scherzare; ma ancora non avevo detto nè meno una mezza parola a nessuno; perchè mi arrischiavo poco e non sapevo se quelli accanto a me sarebbero stati i miei nuovi amici. C’erano alcuni che non mi guardavano affatto; anzi non gradivano nè meno la mia vicinanza; e io, benchè non ne provassi nessun dispiacere, li odiavo: e mi proponevo di vendicarmi.

Quando l’insegnante ritenne che non ci fosse più nessun altro da entrare, mandò uno dei più vicini all’uscita a chiudere la porta; e tutti lo seguirono con gli occhi, finchè non ebbe finito. Ma io mi ricordai che, qualche anno prima, quando la donna di servizio si metteva a cantarmi una specie di cantilena popolare, perchè mi ci veniva da piangere, la picchiavo e la facevo smettere. In quel momento, alzando [p. 199 modifica] gli occhi verso l’insegnante, che per caso guardava me, mi sentii pieno di vergogna e bruciare la punta degli orecchi; e mi dovetti reggere con tutte e due le mani al banco per non cadere. Allora una voce nota, quella del Mutti, ch’era stato il mio compagno di banco alla classe precedente, mi disse:

— T’hanno rimesso con me?

Io risposi, quantunque non volessi:

— Non lo so.

Ma erano bastate queste poche parole perchè in un attimo mi sentissi tornato qual era stato l’anno avanti. Ormai non c’era più modo ch’io avessi potuto vincermi! L’insegnante, che mi aveva visto ridere, capì subito e ci dette un’occhiata severa; che fu notata da tutta la scolaresca. Il Mutti, senza tenerne conto, disse ancora:

— Se ti tengono vicino a me, quest’anno, si fa baldoria. A quel pretaccio gli sputerei volentieri sul grugno!

Io non mi tenevo più dal ridere; e mi voltai a guardarlo. Benchè di diciassette anni, aveva un viso che pareva una zitella insecchita. I suoi occhi, celesti chiari, mi fissarono: e nello [p. 200 modifica] stesso tempo egli mi dette un calcio fortissimo. Renderglielo non avrei potuto; o, almeno, sarebbe stato pericoloso, perchè all’uscita della scuola mi avrebbe picchiato come altre volte. Non mi avrebbe perdonato per niente; e mi disse:

— Se tu fiati, ho in tasca il temperino arrotato.

Anche la sua voce era come quella di una zitella un poco incattivita; ed egli non smise di minacciarmi finchè non mi vide disposto a rispettarlo e ad accettare quel che avesse voluto.

Sapevo, perchè se ne vantava sempre, che con quel temperino aveva levato gli occhi a parecchi gatti; e, quando ne vedeva uno, se era con noi, ci dava a tenere i suoi libri e si metteva a camminare in punta di piedi per poterlo chiappare. Ma, ancora, non gli era riuscito a farci vedere come faceva. Era il più vizioso; sempre pallido e con le occhiaie gialle.

C’era un altro invece che, quando io mi accostavo per farlo smettere di provocarmi, si gettava in terra gridando e piangendo; e a casa inventava che io l’avevo picchiato.

Era un modo anche quello di costringermi a [p. 201 modifica] subire quel che voleva. Egli si metteva a gridarmi anche di lontano; perchè avevo la bazza lunga:

— Scucchia! Scucchia!

Allora, se lo rincorrevo, siccome lo arrivavo sempre, si buttava subito in terra.

Anche lui m’era vicino di banco; e, quando il Mutti disse a quel modo, si mise a ridere perchè io lo sentissi. Si chiamava Pallucci, e aveva il viso d’un bamboccio di tre anni, con i capelli biondi e riccioli. Imparava tutte le parole oscene e diceva che gliele insegnavo io. Rubava i confetti alla drogheria di suo padre; ma se li voleva mangiare tutti per sè, negando di averli, se gliene chiedevamo, anche se poco prima ce li aveva fatti vedere.

Allora un altro, un certo Buti che aveva sempre le tasche piene di spaghi, disse:

— Fuori mi voglio divertire, quando vi picchierete!

Bastò questa specie di proposta, perchè non avessi più la pazienza di stare in scuola; e cominciai anch’io a mugolare con la bocca chiusa e a battere i piedi al banco.

L’insegnante diceva che scrivessimo la nota [p. 202 modifica] dei libri da comprare, e guardava verso di noi come se avesse voglia di dirci qualche cosa e poi la volesse rimettere sempre a dopo.

Il Mutti, che non scriveva nè meno e aveva schiacciato il cannello della penna con i denti, mi disse:

— Tuo padre è un ladro!

Io, perchè era vero, stetti zitto; ma con gli occhi lo supplicai di non dire altro. Egli, invece, continuò:

— Quando lo mettono in prigione?

Mi voltai verso il Pallucci e vidi che rideva. Anche il Buti mi guardava con una certa aria burlesca che quasi anch’io mi misi a ridere. Mi sentivo il cuore scompigliato, e come se mi c’entrasse una punta fin dentro; come qualche volta sognando, dopo che mio padre l’avevano arrestato, quando, facendogli un’ispezione improvvisa, trovarono che nella cassa del suo ufficio mancavano più di mille lire. Egli, come altre volte, le aveva prese per prestarle; e il giorno dopo, se l’amico non fosse stato puntuale, ce le rimetteva, magari pigliandole con una cambiale a qualche banca. Il padre del Mutti, ch’era un collega del mio, passava, e credo [p. 203 modifica] giustamente, per uno di quelli che avevano fatto fare l’ispezione e che più di tutti aveva avuto piacere di quell’esito. Era un poco pazzo; e, invece di riempire di cifre i registri, scriveva un sonetto tutti i giorni; andando poi negli altri uffici a farlo leggere. Tuttavia, pretendeva che io fossi amico del suo figliuolo; ed egli stesso gli diceva che mi picchiasse se lo avessi sfuggito.

Io non osai più voltarmi verso nessuno; e con il lapis sfregavo su un foglio di carta, mentre mi veniva da piangere.

Il Mutti riprese:

— O non ti volti più?

— Perchè mi devo voltare?

Il Pallucci disse, ridendo:

— Ha da reggersi la scucchia!

Io gli detti un pugno in un fianco; ed egli cominciò a torcersi e a fare il viso rosso, come gli accadeva quando era per piangere. Gli avevo fatto troppo male da vero; ma il Mutti si mise a picchiarmi calci nelle reni; e io avevo paura di urlare dallo spasimo.

— E fuori ti darò il rimanente!

— A te che ho fatto? [p. 204 modifica]

— Niente! Ma tu devi buscarne da chiunque e devi stare zitto.

E il Buti spiegò, divertendosi a stendere gli spaghi sul banco:

— Perchè i figli dei ladri hanno sempre torto.

— È vero! — disse il Pallucci smettendo istantaneamente di piangere.

Io mi chetai, cominciando a chiedermi: «Perchè mio padre avrà preso quel denaro? Lo poteva prendere? Che cosa farà egli se escirà di prigione? Mi terrà sempre con sè? Morirà lui o io? Bisognerebbe che uno di noi due morisse. E, allora, forse, mia madre potrebbe sposare un altro». Mi ricordo con una esattezza strana di queste domande a me stesso; e ammettevo che mia madre, per il dispiacere e la malattia che le era venuta in seguito a quella disgrazia, potesse rimaritarsi; magari senza di me. Io non scusavo affatto mio padre; anzi, fanaticamente, ero contro di lui e non gli perdonavo, pur volendogli un bene immenso.

La mattina, mia madre era venuta ad accompagnarmi; ma tutti i ragazzi della scuola, anche quelli che non la conoscevano, s’erano messi [p. 205 modifica] a ridere quando passava tenendomi per un braccio come se mi volesse dare un pizzico. Perchè era zoppa e con un ciuffetto di peli, sotto il mento che pareva una capra. Pallida e magrissima; con certi occhi come se non vedessero niente. Io, invece, a sentirla deridere, mi ero vergognato tanto, benchè alla fine mi mettessi a sogghignare anch’io. E, ora, pensando che forse sarebbe venuta a riprendermi e che non sarebbe stata capace di tenere il Mutti perchè non mi picchiasse, io dissi a lui:

— Quando viene mia madre, perchè non ce la voglio, dille quante parolacce tu vuoi! Basta che tu mi lasci fare!

— Se tua madre ti difendesse, la prenderei per la barba!

Il Buti si mise a canterellare, rifacendo la mia voce, una canzonettaccia.

Il Pallucci mi disse:

— E io glielo farò sapere a tua madre quello che hai detto.

Sentii che aveva ragione e gli rivolli subito bene. Ma, ora, egli non voleva più saperne di me e mi guardava in un modo che io gli stessi [p. 206 modifica] sempre lontano e non gli parlassi più. Allora la presi un’altra volta con mia madre; e dissi, sebbene con disagio e arrossendo:

— Che me ne importa?

Intanto la prima lezione era per terminare, perchè l’insegnante non voleva tenerci a scuola senza ancora i libri. Tutti ci alzammo in piedi, e uscimmo spingendoci insieme alla porta; come se avessimo avuto fretta. Io, nel corridoio ch’era lungo, cercai di scappare; ma ad ogni passo mi dovevo fermare perchè era troppo pieno e non potevo passare. Quando fui fuori dell’uscio, mi sentii afferrare dietro il collo. Chiusi gli occhi; e, riaprendoli por un secondo, fui soltanto in tempo a capire che era il Mutti; come mi aspettavo.

Egli mi buttò in terra, su la ghiaia, che mi scorticò tutte e due le mani e i ginocchi; e cominciò a picchiarmi. Ma io non pensavo a lui; e mi lasciai picchiare senza nè meno muovermi. Me ne dette quante volle; e mia madre, che aveva fatto tardi, vedendomi in terra da lontano, corse a rialzarmi. Io, ora, ero solo con lei; e, quando tutta spaventata mi chiese che mi avevano fatto, le risposi: [p. 207 modifica]

— Ne ho buscate dal Mutti, perchè dianzi rideva di te!

E la guardai, mi ricordo bene, come se fossi stato capace di ammazzarla; tutto contento di vedere sul suo viso una disperazione, indimenticabile. Non indovinavo che, a motivo dei dispiaceri, dopo un altro mese, doveva morire.