I nemici

../Mia madre ../I butteri di Maccarese IncludiIntestazione 9 dicembre 2018 100% Da definire

Mia madre I butteri di Maccarese
[p. 208 modifica]

I nemici.


Bisogna non dolersi dei nostri nemici, per quel senso di grandezza che si prova a odiarli. Anch’io avevo un nemico, e lo amavo come un fratello quando dovevo più guardarmi da lui, e quando bastava il suo sguardo a ricordarmi, che non potevo ignorare che anch’egli esisteva come me. Si chiamava Rutilio Papagli; e non gli avevo mai fatto del male. Ma egli era tra pazzo e cattivo; e, quando s’avvicinava a me per parlarmi, capivo subito quale era stato il suo scopo. Perchè senza uno scopo suo, egli mi evitava e non lo vedevo mai. Stava di casa vicino a me, e come me era impiegato al Ministero dell’Istruzione. Egli, invece, sentiva subito la mia bontà istintiva; e, benchè quasi me [p. 209 modifica] la invidiasse, era costretto a smettere qualunque proposito che avesse avuto contro di me. Perchè egli aveva paura della mia bontà, che non perdona mai a nessuno come a nessuno si nega mai. Mi avrebbe anche voluto bene, se gli fosse stato possibile; ma non gli era possibile, e tentava tutti i modi perchè io smettessi, almeno per una mezz’ora, di essere buono.

Una volta lo incontrai per il Corso, e mi disse:

— Perchè non andiamo insieme a mangiare, Caperozzi?

Fui per rispondergli di sì; ma sentii che non potevo. Mi dispiacque a rispondergli troppo seccamente, e gli trovai una scusa. Egli insistè, pigliandomi perfino sotto il braccio. Io lo lasciai lare, e lo pregai che non insistesse. Allora mi disse:

— Avevo, da parlarti di noi.

Fui per credergli, così come facevo con tutti gli altri; ma in tempo mi vennero in mente tulle le cose sgradevoli avvenute tra noi; e non volli cedere. Ma egli seguitò a parlarmi, offrendomi una sigaretta. Avrei voluto non [p. 210 modifica] accettarla perchè la sua finzione mi offendeva; ma fui troppo debole. Anzi, io stesso lo presi sotto il braccio; e cominciai a parlargli volentieri. Egli subito si cambiò: non poteva sopportarmi e smuoveva un poco il braccio, perchè io lo lasciassi. Non gli era più possibile ascoltarmi, e dalla voce mi faceva sentire com’egli non voleva tenermi in nessun conto. Alla fine, mi lasciò; troncando a mezzo quel che stavo dicendogli. Quando lo vidi lontano da me, tra la gente, mi proposi di non parlargli più facendoglielo capire chiaramente. Ma il giorno dopo, incontrandolo un’altra volta, quasi allo stesso posto, fui proprio io a fermarlo; mentre egli m’aveva fatto capire che preferiva comportarsi come se non m’avesse veduto. Ma io volevo andare in fondo al suo animo, e sapere perchè mi era nemico a quel modo. È vero che io ero molto più ben visto e stimato di lui, non senza ragione, dal nostro capo d’ufficio; ma non potevo spiegarmi perchè egli desse tanta importanza a ciò. E che torto, in ogni modo, io gli facevo? In parecchie occasioni lo avevo aiutato, e m’ero guardato, anzi, di fargli del male. Egli doveva saperlo, e non poteva non [p. 211 modifica] essermene riconoscente. Molte volte anch’io pretendevo che egli non fingesse di non saperlo; e gli avrei rotto la testa con il mio ombrello. Ma, quando capitava l’occasione, non mi riusciva a volergli male; e aspettavo sempre che egli mi doventasse amico o almeno che non mi odiasse. Ma egli odiava tutti!

Dunque lo fermai io stesso, e lo salutai sorridendo. Ma il mio sorriso gli fece fare il viso cattivo, quasi scontento. Io gli chiesi:

— Che hai?

Egli non mi rispose; chinò la testa e credo che non mi guardasse perchè voleva che io non vedessi come erano in quel momento i suoi occhi. Io, allora, gli chiesi:

— T’ha fatto del male qualcuno? O t’è capitato qualche cosa cattiva all’ufficio, contro di te?

Egli mi rispose con odio:

— Tu vai sempre a pensare alle cose più impossibili.

— Impossibili? Perchè? Tu stesso mi hai raccontato molte volte che hai avuto dispiaceri da quelli che ti vogliono male; e m’hai anche detto chi sono. [p. 212 modifica]

Egli, allora, rise.

— Ma io li ho messi al posto.

— Ti sei avuto a male della mia domanda? Te l’ho fatta perchè ti voglio bene.

— Con me non ce la può nessuno.

Io ebbi come un brivido, e risposi:

— Lo so; ma ci sono persone che tentano lo stesso di riuscire a far del male.

Egli rise un’altra volta, e mi rispose:

— Ti garantisco che non ci penso nè meno. Io li faccio tutti tremare.

Il suo viso era quasi giocondo, benchè ancora inquieto; e i suoi occhi non potevano guardarmi a lungo. Gli mancavano due denti da una parte, di sopra; e i suoi baffi, radissimi, parevano setole che non potessero stare insieme.

Era sempre pallido e affilato; con una macchia rossa rossa giù per il collo; che si vedeva meglio quando era arrabbiato. Le sue mani, come se fossero troppo lunghe, erano pieghevoli e finivano quasi a punta. Ma le sue labbra non impallidivano mai; anzi parevano come inverniciate, tanto restavano sempre uguali. Egli era già così nervoso che vedevo muovere i suoi baffi mentre il labbro pareva sempre fermo. I suoi [p. 213 modifica] occhi s’illuminavano; ed egli cominciò a guardare fisso; senza più accorgersi che faceva capire a tutti la sua cattiveria quasi feroce. Cercava di riprendersi, ma non poteva; e pareva che i suoi denti volessero mordere. Allora, a malgrado della ripugnanza che provavo a sentirmi anche io contro di lui, in un modo così risoluto, mi faceva piacere, ed ero contento che il suo viso continuasse ad essere a quel modo. Se avesse cambiato, avrei sentito una delusione grande!

Ma egli, allora, cominciando a parlare sottovoce, tanto che dovevo chinare l’orecchio verso di lui e fargli ripetere più d’una parola, mi spiegò perchè dalla sua sezione dovesse passare nella mia. Da prima non mi rendevo condo del suo desiderio, perchè mi sembrava addirittura sbagliato; ma egli mise tanto sentimento in quel che mi diceva che, se fosse dipeso da me, avrei acconsentito subito. Io consigliai come dovevo fare; e gli promisi di parlarne io stesso al nostro capo d’ufficio. Egli, allora, non mi nascose più che nella sua sezione lo perseguitavano e che non ci stava volentieri perchè il suo stipendio era più piccolo anche del [p. 214 modifica] mio. Egli seguitò a parlarmene, come se la colpa fosse stata mia, e quasi, secondo lui, avrei dovuto esigere dal capo d’ufficio che riconoscesse senz’altro il suo desiderio; perchè lo dovevo aiutare e perchè a me solo egli era sinceramente amico. Quando mi salutò, rimpiansi di avergli lasciato dire tutte quelle cose e convenni ch’era riuscito, come il solito, a ingannarmi e a farmi rispondere com’egli voleva.

Passò una settimana senza che ci parlassimo. Lo vedevo, alcuna volta, entrare dentro qualche stanza dei nostri colleghi, lesto lesto, quasi rasente i muri, con in mano le carte d’ufficio; ma pareva che non volesse guardare in viso nessuno; e io, allora, mi ritenevo dal chiamarlo. Mi venne, però, la curiosità di sapere perchè veniva più spesso di prima nel corridoio della mia sezione; e cominciai a fare qualche domanda a quelli dai quali lo avevo visto escire. Ma non seppero dirmi niente. Soltanto riuscii ad accertarmi che lavorava molto più di prima e che s’era fatto uno dei più assidui di tutto il Ministero.

All’improvviso, una mattina, si fece su la soglia della mia stanza. Benchè non ne avessi [p. 215 modifica] voglia, lo invitai a sedere. Ma egli, come se non volesse badare a quel che gli dicevo, accese una sigaretta e ridendo mi rispose:

— Tra qualche giorno ho da darti una buona, notizia! Questa volta mi va bene da vero!

— Dimmela subito!

— Ah, no! È troppo bella! Te la lascio indovinare.

E andò via ridendo, con quel suo passo un poco a sbalzi; come se fosse per battere addosso a qualche cosa. Il pomeriggio stesso, il mio capo d’ufficio mi chiamò. Era completamente calvo, e non si capiva dove finisse e dove cominciasse la sua fronte e la sua faccia. Egli stesso me pareva sempre imbarazzato. Io mi accostai al suo tavolino, sicuro che mi dicesse una delle sue parole gentili, quasi affettuose. Ma egli, arrossendo anche sopra la testa, mi disse:

— L’avverto che da domani ella è trasferito sella sezione dei protocolli, al posto del suo amico Papagli.

— Io?

— Proprio lei. Così è stato fatto per accontentare tanto lei che lui.

— Ma io non ne so niente! Non è possibile! [p. 216 modifica]

— Lo dice a me? Io ho creduto che lei non fosse contento di come l’ho sempre trattato.

— Le ripeto che io non ne so niente. E il mio stipendio?

— Ella prenderà sempre lo stesso; ma anche il Papagli avrà uno stipendio eguale al suo; e, naturalmente, presto godrà di tutti i vantaggi che spettavano a lei, se avesse voluto restare qui.

— Ma io non sono stato nemmeno avvertito!

— Se la sbrighi lei con il suo amico: io ho avuto quest’ordine; e anch’io me n’ero sorpreso.

— Le giuro che io...

— Si calmi! Si calmi! Vada a trovare il Papagli.

Io lasciai sul tavolino le carte che avrei dovuto portare con me, e andai a trovare il Papagli. Aprii la sua porta senza nemmeno chiedere il permesso; ed entrai. Egli non c’era e tutte le carte erano al posto, come se egli non fosse venuto in ufficio. Chiesi a un usciere se lo avesse visto, ma egli mi disse che non se ne ricordava. Andai a chiedere lo stesso dagli impiegati delle stanze accanto a quella del Papagli, e tutti mi risposero che non ne [p. 217 modifica] sapevano niente. Se fossi stato meno nervoso, lo avrei aspettato proprio dentro la sua stanza; ma non potevo stare più fermo e uscii subito dal Ministero per vedere se fosse in casa. Ero fuori di me dall’ira e proponevo di vendicarmi magari picchiandolo con la chiave che stringevo dentro un pugno in fondo alla tasca dei pantaloni. Lo trovai che si pettinava, dopo essersi profumato. Senza nemmeno salutarlo gli dissi:

— Perchè mi hanno mandato nella tua sezione?

Egli mi guardò con un’aria di adirato, e mi rispose togliendo dal pettine i capelli che v’erano rimasti attaccati:

— Sei venuto apposta per domandarmi questa stupidaggine? Io non credevo che tu ne fossi capace. Stai attento alle parole che ti scappano di bocca!

— Ma è possibile, dimmi la Verità, che tu non ne sapessi niente?

Egli rise, rispondendomi:

— Come sei ingenuo! Non capisci che se mi hanno messo nel posto tuo, vuol dire che l’hanno fatto per un dispetto a me?

— A te? [p. 218 modifica]

— Non insistere così, Caperozzi. Ti vogliono tutti bene e tutti sanno che tu sei un impiegato migliore e più intelligente di me. Sei impazzito a credere che l’abbiano fatto per voler male a te? Non capisci che l’hanno fatto invece per voler male a me?

— Ma tu... non hai detto niente, quando lo hai saputo?

— E che dovevo dire? Io, vedrai, mi dimetterò dal Ministero; se non mi rimandano al posto di prima. Vieni a pranzo con me: voglio far vedere a quanti sono che io ti sono amico lo stesso. Ci penso io a trattarli come meritano, anche per il torto che hanno fatto a te!

E io, come se non conoscessi chi era Rutilio Papagli e che soltanto lui aveva potuto farmi quel tiro, lo aiutai perfino a mettersi la giubba; e andai con lui a mangiare. Pagò egli, e io confidai, anzi, a lui l’amarezza che sentivo; non mi confidai che con lui. A nessun altro ho detto mai niente.