Geografia (Strabone) - Volume 2/Libro III/Capitolo II

Capitolo II

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Strabone - Geografia - Volume 2 (I secolo)
Traduzione dal greco di Francesco Ambrosoli (1832)
Capitolo II
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CAPO II.

Della Turditania o Betica.


Al di sopra della spiaggia marittima che s’incontra prima dell’Ana giace la Turditania che il Beti attraversa. La circoscrivono verso occidente e settentrione il fiume [p. 306 modifica]Ana, verso levante alcuni dei Carpetani e gli Oretani, verso mezzogiorno que’ Bastitani che fra Calpe e Gadi occupano un’angusta spiaggia. Tanto poi il mare fino all’Ana, come i Bastetani già detti e il paese al di là dell’Ana e molti popoli circonvicini, dipendono dalla Turditania. L’estensione di questo paese così nella lunghezza come nella larghezza non è più che duemila stadii. Avvi un numero stragrande di città (duecento per quello che si racconta), fra le quali si conoscono principalmente quelle fondate sui fiumi, sulle lagune e sul mare, giovandole in ciò la loro posizione. Ma di fama e di potenza crebbero massimamente Corduba1, fondata da Marcello, e la città di Gadi; questa a motivo della sua marina e per essersi unita con alleanze ai Romani; quella per la bontà ed ampiezza del suolo, e per tutti quegli altri vantaggi che le sono arrecati dal Beti. Abitaronla da principio alcuni uomini scelti fra i Romani e fra i nativi di quella contrada; e fu questa la prima colonia dai Romani inviata in que’ luoghi.

Dopo Corduba e Gadi è illustre la città d’Ispali, colonia de’ Romani ancor essa, dove anche al presente si fa gran commercio: ma Beti 2 la supera [p. 307 modifica]di riputazione e per averla di recente ripopolala i soldati di Cesare, comunque non sia splendidamente fabbricata. Appresso a queste città trovasi Italica, e poi Ilipa3 lungo il Beti: più da lungi Astiga, Carmona ed Obulco. Sonvi anche quelle nelle quali i figliuoli di Pompeo furono debellati, cioè Munda, Atetua, Ursona, Tucis, Giulia, Egua; tutte non molto distanti da Corduba. Munda è in qualche modo divenuta metropoli di tutta questa regione. Essa è discosto da Carteja mille e quattrocento stadii4. Quivi riparò Gneo Pompeo dopo che fu sconfitto; d’onde poi essendosi imbarcato, approdò a non so qual luogo montuoso imminente al mare, e vi fu ucciso. Sesto suo fratello, salvatosi in Corduba, dopo avere per breve tempo guerreggiato nell’Iberia, andò a ribellar la Sicilia, e di quivi cacciato nell’Asia, e preso dai generali di Antonio, lasciò la vita in Mileto.

Fra i Celtici è conosciuta principalmente Conistorsi,

[p. 308 modifica]e poi Asta, nella quale i Turditani fanno le loro adunanze, fondata sulle lagune e rimpetto al porto dell’Isola (Gadi) a poco più che cento stadii.

Le rive del Beti sono abitate da moltissime genti, e navigasi contro il suo corso per lo spazio di circa mille e duecento stadii dal mare fino a Corduba ed anche ai luoghi un poco al disopra di questa città: e sono con grande diligenza coltivate tanto le spiagge quanto le isolette del fiume, al che s’aggiunge eziandio l’amenità della vista, per essere que’ luoghi ben coltivati con boschi e con altre opere di piantagioni. Fino ad Ispali dunque si ascende con grosse navi da carico per lo spazio di quasi cinquecento stadii: ma di quivi alle città superiori insin ad Ilipa, si va con navi minori. Dopo Ilipa fino a Corduba si adoperano scafe da fiume, i quali oggidì si costruiscono di più parti insieme congiunte, ma anticamente facevansi di un sol tronco scavato. Al di sopra di Corduba per andare a Clastona, il Beti non è più navigabile.

Paralleli al Beti si stendono alcuni dossi di monti che accennano al settentrione; e dove più, dove meno si accostano al fiume, e sono abbondevoli di miniere. Copiosissimo è l’argento nei luoghi vicini ad Ilipa ed a Sisapona, tanto l’antica quanto la nuova5. Presso alle così dette Cotine trovasi rame ed oro. [p. 309 modifica]

Alla sinistra pertanto di chi naviga su quel fiume si veggono queste montagne: alla destra avvi una grande pianura elevata, fertile, con alti alberi e buoni pascoli.

Anche l’Ana è navigabile6, non però con navi sì grandi nè per un tratto di paese sì lungo; e lo fiancheggiano monti con miniere, stendentisi fino al Tago. Ora i terreni dove si trovan miniere sono di necessità duri e sterili, quali sono appunto i luoghi contigui alla Carpetania, ed ancor più quelli che si congiungono coi Celtiberi. E tale è pur anco la Beturia, le cui pianure dalla parte dell’Ana sono arsicce. Ma la Turditania è di mirabile fertilità: e mentre essa produce ogni cosa, e ogni cosa in grande abbondanza, le sue ricchezze raddoppiansi dalla facilità di portarne le produzioni al di fuori. Perocchè il superfluo di queste agevolmente si vende altrove per la moltitudine de’ mercatanti che lo trasportano sulle proprie navi. E servono a questo vantaggio i fiumi ed anche le lagune, le quali (come già dissi) sono simili ai fiumi, ed al pari di quelli si possono navigare non solamente con piccoli legni, ma sì anche con grandi, andando dal mare alle città dentro terra. Perocchè tutto il paese al di là dalla spiaggia, fra il promontorio Sacro e le Colonne, è tutto una pianura; dove sono in più luoghi alcune cavità che dal mare [p. 310 modifica]stendendosi per lo spazio di molti stadii, conducono nell’interno, simili a piccole valli od anche ad alvei di fiumi. Le maree nel loro gonfiarsi empiono quelle cavità per modo da potervisi navigare non meno che sui fiumi, ed anzi meglio: giacchè gli è come chi navighi a seconda di una corrente, senza incontrare verun ostacolo, portandonelo la marea che si diffonde a guisa di un fiume. E le maree sono maggiori in questi luoghi che altrove; perchè il mare trovandosi, da quel gran pelago ch’esso è, angustiato nello stretto formato dalla Maurosia e dall’Iberia7, rimbalza, e si diffonde naturalmente in que’ luoghi ai quali le rive gli aprono il passo. Alcune delle dette cavità poi votansi nel tempo del riflusso: alcune non rimangono mai senz’acqua: ed altre hanno anche alcune isole dentro di sè. Tali sono pertanto i diffondimenti del mare fra il promontorio Sacro e le Colonne; maggiori che negli altri paesi. E di qui viene per certo un grande vantaggio a coloro che danno opera alla navigazione: perocchè la marea forma parecchie e grandi lagune navigabili per lo spazio di ben ottocento stadii8, sicchè in certo modo si può visitar navigando tutta quella regione, e riesce agevole tanto il trasportarne le merci quanto il condurne colà. V’ha nondimeno anche qualche disagio: perocchè le maree urtando con troppa forza contro la corrente9 dei fiumi fanno molto pericoloso il [p. 311 modifica]navigare sovr’essi tanto a seconda quanto a ritroso. Ed anche il riflusso ha in quelle lagune i suoi mali: giacchè facendosi con impeto corrispondente a quello con cui il flusso trabocca ed inonda, avviene che per la celerità le navi siano spesse volte lasciate in secco: e i bestiami condotti sulle isole formate dai fiumi mentrechè la marea non s’è per anco gonfiata, talvolta sono colà sopraffatti dall’inondazione e affogati; talvolta vi si trovano invece abbandonati pel subito ritrarsi dell’acqne, e sforzati al ritorno, non hanno vigore che basti, e vi muoiono10. E dicesi che le mandre de’ buoi avendo osservato questo fenomeno, sogliono attendere il riflusso dell’acqua per ritornare a terra. Gli uomini pertanto conoscendo la natura dei luoghi, e come le lagune possono quivi somministrare gli stessi vantaggi che i fiumi, fondarono lungo quelle e città ed altre abitazioni, come suol farsi lungo le rive dei fiumi. Tali sono Asta, Nebrissa, Onoba, Sonoba, Menoba e molte altre. Ed alcuni canali scavati qua e là rendono agli abitanti più grande questo vantaggio di potersi trasferire da un luogo all’altro, e comunicare sia fra di loro sia con quelli al di fuori. Ed il concorso [p. 312 modifica]dell’acqua nelle grandi piene già dette giova altresì col rendere navigabili anche gl’istmi che disgiungono i fiumi; sicché poi si può passare dai fiumi alle lagune, e da queste a quelli.

Tutto il commercio di questo paese è coll’Italia e con Roma: ed ha una comoda navigazione fino alle Colonne (se non quanto è alcun poco difficile nello stretto), e poi anche nel nostro mare; perocchè tutto il viaggio si compie sotto un buon clima, principalmente chi naviga nell’alto, ciò che riesce utilissimo ai legni mercatanteschi. Hanno poi i venti che soffiano con un certo ordine. E giova a quelle genti anche la pace presente, dacchè i corsari sono stati distrutti, sicchè i naviganti godono una sicurezza compinta. Posidonio poi dice di avere osservata una cosa particolare nel navigar dall’Iberia, cioè che in quel mare fino al golfo della Sardegna gli euri spirano etesii11; sicchè egli appena in tre mesi potè arrivare in Italia, trasportato talvolta alle Gimnesie, talvolta alla Sardegna, od alle spiagge della Libia rimpetto a guest’isole.

Dalla Turditania si trae gran copia di frumento e di vino, ed olio non solamente molto ma squisito: ed oltre a questo se ne cava anche cera e mele e pece, e molto cocco, e minio non punto inferiore alla terra di [p. 313 modifica]Sinope12. Anche i navigli si fanno di legname cresciuto in quella provincia, nella quale trovansi inoltre sal fossile, e correnti non piccole di fiumi salati: e si traggono non solamente dalla Turditania, ma sì anche dall’altra spiaggia fuori delle Colonne copiosi salsumi non inferiori a quelli del Ponto. Anticamente portavasi fuori di quella provincia anche gran quantità di abiti di lana; ed ora invece soltanto lana che vince di bellezza quella de’ Corassi; d’onde un montone da razza suol pagarsi un talento. Grandissimo è pure il pregio delle stoffe che i Saltiati fanno incomparabilmente sottili. Avvi grande abbondanza13 anche di pecore e di selvaggina. Di animali nocivi è invece scarsissimo quel paese, fuor certi, simili a lepri, che scavan la terra e sono da alcuni denominati leboridi14, i quali rovinano le piante ed i semi, rosicandone le radici. Questo male accade in quasi tutta la Spagna e si stende fino a Marsiglia, e danneggia anche le isole. E raccontasi cbe gli abitanti delle Gimnesie mandarono un tempo ambasceria ai Romani domandando un qualche altro paese dove potessero tramutarsi, perchè questi animali cacciavanli fuori del loro proprio, nè essi valevano a vincerli; tanto erano numerosi. Contro [p. 314 modifica]una tanta, quasi vorremmo dir, guerra (la quale non accade però sempre, ma solo per qualche corruziane dell’aria) poterono aver bisogno di cosiffatto rimedio: del resto contro i casi ordinarii furono trovate molte maniere di caccia: e nutrono a cotal fine studiosamente certi furetti salvatici che la Libia produce; poi, dopo aver chiusa loro la bocca, gl’introducono nei fori; ed essi o colle unghie traggono fuori quanti leboridi possono ghermire, o li costringono di fuggirsene all’aperto, dove sono pigliati dalle persone quivi a tal uopo appostate.

L’abbondanza degli oggetti che portansi fuori della Turditania è fatta manifesta dalla grandezza e dalla moltitudine delle navi. Perocchè le navi da mercatanti che da quel paese vengono a Dicearchia15 e ad Ostia, arsenale di Roma, sono grandissime, e nel numero quasi gareggiano con quelle di Libia.

Tale è il paese della Turditania nel suo interno: la sua spiaggia poi potrebbe dirsi non meno felice pei beni che le vengon dal mare. Perocchè le ostriche e le conchiglie d’ogni generazione e grandezza abbondano in tutto il mare esteriore, ma principalmente su quella spiaggia di cui ora parliamo; perchè ve le fanno crescere i flussi e riflussi già detti, essendo ben naturale ch’essi contribuiscano a renderle numerose e grosse formando un gran numero di stagni o di lagune16. [p. 315 modifica]Lo stesso dicasi di tutti i cetacei, degli origi, delle falene e dei fiseteri. Quando questi ultimi soffiano in alto, coloro che stanno da lungi a guardare veggono quasi una nube in forma di colonna. Anche i congri crescono quivi in grossezza poco men che di belve, e soverchiano di gran tratto nella mole quelli che trovansi presso di noi; e vi sono anche murene e più altre generazioni di pesci. Dicesi che a Carteja v’hanno buccine e porpore corrispondenti a dieci cotili17; e lungo la spiaggia esteriore, congri e murene di più che ottanta mine, polipi del peso di un talento, tentidi18 di due piedi, ed altri pesci di simil fatta. Vi concorre anche gran quantità di tonni pingui e grossi dalla spiaggia ch’è al dì fuori delle Colonne, e si nutrono delle ghiande di una specie di quercia che cresce sul mare; pianta assai piccola che porta un grossissimo frutto. Abbonda quest’albero anche in fra terra nell’Iberia, con grandi radici quali si converrebbero ad una vera quercia, ma nell’altezza è poi minore di un piccolo arbusto: i suoi frutti sono tanto abbondanti, che dopo la maturità, gittandoli in fuori le maree, n’è piena tutta la spiaggia dentro e di fuori delle Colonne; ma a misura che si procede all’indentro si trovano sempre minori. Polibio afferma che di queste ghiande se ne mandano fino nel Lazio, se pure (soggiunge) non ne producono anche la Sardegna e il paese a quella vicino. Anche i tonni, provenienti dal mare esterno, quanto [p. 316 modifica]più si avvicinano alle Colonne, tanto più impiccioliscono per mancanza di nutrimento: e dicesi che questo animale vive lungo le spiagge19, si nutre di ghiande e ne ingrassa a dismisura; e però qnando v’è abbondanza di ghiande abbondano anche i tonni.

Dopo tutti questi beni che trovansi nel paese della Turditania, è degna di grande considerazione e meraviglia l’abbondanza delle sue miniere. Ben è il vero cbe tutte le regioni d’Iberia ne sono piene, ma non sono poi tutte così ricche anche di frutti e così piacevoli come la Turditania; e men delle altre quelle che più sono copiose di metalli. Rado è che una stessa provincia abbondi di entrambe coteste produzioni: ed è rado eziandio che dentro un piccolo paese vi sia abbondanza di metalli d’ogni qualità. Ma la Tunditania e il paese ad essa contiguo vince ogni discorso di chi pigliasse a lodarne questa sua dote. Perocchè nè l’oro, nè l’argento, nè il rame, nè il ferro non fu trovato mai fino ai dì nostri in nessun’altra parte della terra, nè in tanta copia, nè di tanta bontà. E l’oro non solamente si cava dalle miniere, ma ben anco si raccoglie: perchè i fiumi e i torrenti portano seco una sabbia d’oro, [p. 317 modifica]la quale si trova in più parti anche nei luoghi asciutti. Se non che quivi l’oro non apparisce, mentre per lo contrario nei siti bagnati dall’acqua le granella di questo metallo rilucono: il perchè poi gli abitanti spargendo dell’acqua dov’essa manca, fanno sì che l’oro nascosto apparisca. Oltre di ciò collo scavar pozzi e con altre arti da loro immaginate, pervengano a lavare la sabbia e ne traggono fuori l’oro: sicchè al presente sono più i luoghi destinati a lavar l’oro, che quelli d’onde si cava. I Galati poi si vantano che le migliori miniere sono le loro; sì quelle del monte Cemmeno, come quelle che trovansi ne’ Pirenei: tuttavolta sono tenute in più pregio le miniere al di qua di quei monti, dove si dice che insieme colla sabbia dell’oro trovansi qualche volta anche masse di questo metallo del peso di mezzo litro (dette poi pale), le quali hanno bisogno di poca purgazione. Perocchè dicono che spaccando le pietre vi si trovano de’ globetti simili a poppe. Cotto poi l’oro e purgato col mezzo di una certa terra alluminosa, ne rimane l’elettro: e perchè questo è una meschianza d’argento e d’oro, perciò posto a cuocer di nuovo se ne brucia via l’argento, e resta l’oro, per essere la naturale sua forma facile a fondersi e pingue20. Quindi anche l’oro si fonde colla paglia [p. 318 modifica]meglio che con altro; perchè quella fiamma leggiera si confà a questo metallo che cede e fondesi facilmente; ma il carbone ne consuma gran parte, sciogliendolo con troppa veemenza e facendolo svaporare. Ne’ letti dei fiumi si raccoglie, e lavasi quivi appresso in conche; ovvero si scava un pozzo, e si lava la terra che se ne trae21. Le fornaci poi dell’argento sogliono costruirle elevate, acciocchè il fumo di quelle glebe si disperda nell’alto: perocchè è incomodo e pernicioso. Alcune miniere di rame diconsi miniere d’oro; d’onde argomentasi che in antico vi si scavasse questo metallo.

Posidonio pertanto lodando il gran numero e la bontà delle miniere non si astiene dalla consueta sua rettorica, ma come entusiasta esce in iperboli. Però protesta ch’egli non ricusa di credere a quella favola, secondo la quale essendosi una volta incendiati i boschi, la terra liquefatta mandò ribollendo alla superficie l’argento e l’oro che aveva dentro di sè; d’onde poi ogni monte e ogni colle è tutto materia da far monete accumulatavi da liberale fortuna. E in generale, soggiunge, chiunque vedesse cotesti luoghi direbbe che sono i tesori inesauribili della natura, o l’erario d’un perpetuo principato. Perocchè, dice, non è quello soltanto un paese ricco; ma anche nelle viscere del terreno v’abbondano i tesori; sicchè presso quelle genti abita veramente sotterra non Plutone, ma Pluto22. Così Posidonio parla di queste materie con un linguaggio [p. 319 modifica]poso e prolisso; come se traesse anch’egli da una miniera le sue parole. Descrivendo poi la diligenza di coloro che lavorano intorno ai metalli reca in mezzo le parole di Falereo, il quuale parlando delle miniere d’argento dell’Attica disse che gli uomini scavavano quivi con tanta assiduità, come s’eglino s’immaginassero di poterne trar fuori lo stesso Pluto. Somigliante alla costoro diligenza ed operosità dipinse Posidonio quella dei Turditani nello scavare fin dentro alle tortuose profondità della terra, e nell’asciugare colle viti egiziane23 i fiumi che in quelle spesse volte a loro si attraversano. Ma la costoro sorte non è uguale a quella di chi lavora nelle miniere dell’Attica; ai quali potrebbe applicarsi quell’antico enigma: «Non hanno preso tutto ciò che trassero dalla terra, e vi hanno lasciato ciò che possedevano.» Perocchè ai Turditani sono per lo contrario soprammodo fruttuose; siccome quelli che dalle miniere del rame cavano una terra di cui una quarta parte è metallo; e coloro che danno opera alle miniere d’argento ne traggono ogni tre giorni quanto equivale ad un talento d’Eubea.

Dice poi che lo stagno non si ritrova punto sulla superficie del terreno, come hanno spacciato gli storici, ma sibbene si scava: e che si genera fra i barbari al di sopra dei Lusitani, e nelle isole Cassiteridi, oltrechè anche dalle isole britanniche se ne porta a Marsiglia; e [p. 320 modifica]che fra gli Artabri, che sono le ultime genti della Lusitania a ponente ed a settentrione, la terra è sparsa di un fior d’argento e di stagno, e di quello cbe dicesi oro bianco per essere mescolato coll’argento. Cotesta polve, soggiunge, la portano i fiumi; e le donne la raccolgono con rastrelli, poi la lavano facendola passare per cannicci collocati sopra un cestello. Questo dice Posidonio intorno alle miniere.

Polibio facendo menzione di quelle che sono presso a Cartagine nuova, dice che sono grandissime, a venti stadii dalla città. Che abbracciano un circuito di quattrocento stadii, dove stanno quaranta mila lavoratori, i quali al suo tempo producevano al popolo romano venticinque mila dramme ogni giorno. E qui io passo sotto silenzio tutte le altre operazioni che a dirsi sarebbero troppo lunghe. Egli poi dice che la gleba d’argento raccolta si rompe e si crivella in istacci sull’acqua: poi di nuovo si rompe quel che rimane e crivellasi ripetutamente; finchè liquefacendosi ciò che resta la quinta volta, il piombo svanisce, e ne riesce un argento puro. Sussistono ancora quelle miniere d’argento, ma nè quivi nè in altri luoghi non appartengono più alle Comuni, e si sono cambiate in possedimenti di cittadini privati. Qualle dell’oro invece sono tuttavia popolari per la maggior parte. Quivi poi, a Castalona24, ed anche in alcuni altri luoghi avvi un metallo d’una specie particolare; ed è un piombo fossile, a cui si trova frammista una piccola quantità d’argento, non tanta [p. 321 modifica]peraltro che il purgarnelo possa tornar vantaggioso. Non molto lontano da Castalona avvi anche quel monte da cui si dice che scorre il Beti, e lo chiamano Argenteo a cagione delle miniere di questo metallo cbe vi si trovano. Polibio afferma che l’Ana ed il Beti25 provengono dalla Celtiberia, distanti l’uno dall’altro circa novecento stadii: perocchè i Celtiberi essendo cresciuti in potenza diedero il proprio nome a tutto il paese cbe confina con loro.

Pare che gli antichi chiamassero Tartesso il Beti, ed Erithia Gadi colle isole circonvicine: e così dicono doversi interpretare quel passo di Stesicoro intorno alla greggia di Gerione, cioè, ch’essa nacque rimpetto quasi all’inclita Erithia, presso le fonti inesauribili del Tartesso che han le radici d’argento tra le pietre delle caverne26. Essendo poi due le foci di questo fiume, è fama che anticamente fosse fra l’una e l’altra fabbricata una città chiamata dal nome del fiume, Tartesso; e che quindi Tartessida si nominasse il paese occupato ora dai Turduli. Anche Eratostene afferma che il paese contiguo a Calpe si chiamava Tartessida, e così anche l’isola fortunata di Erithia; al quale peraltro contraddice Artemidoro, e sostiene che questa asserzione di Eratostene è falsa, come anche quell’altra, che il [p. 322 modifica]promontorio Sacro sia distante da Gadi la navigazione di cinque giorni, mentre non v’hanno nel vero più che mille settecento stadii: che quivi finisca il flusso e riflusso del mare, il quale per lo contrario succede in tutta quanta la periferia della Terra abitata: e finalmente che sia più agevole il passare dall’Iberia nella Celtica per terra nelle parti settentrionali, di quello che navigando sopra l’Oceano27. E in generale (dice Artemidoro) Eratostene asserisce il falso dovunque presta fede a Pitea, autore sfrontatamente bugiardo. Ma Omero che molto seppe e molto narrò ci dà a conoscere che non gli furono ignote nemmanco queste regioni, qualora noi vogliamo dirittamente considerare le opinioni di tutti coloro che hanno interpretate le sue parole, dei quali gli uni più, gli altri meno s’accostarono al vero nell’intendere ciò ch’egli ne dice. Meno accostaronsi al vero coloro i quali credono ch’egli considerasse Tartesso come l’ultimo punto occidentale, dove in grembo all’Oceano

La splendida cadea lampa del sole,
L’atra notte traendo su la terra28.

Ora egli è manifesto che la notte è di mal augurio e di natura consimile all’Orco, e questo al Tartaro; e però congetturano alcuni che avendo Omero sentito far menzione di Tartesso, di qui abbia denominato poi Tartaro il più profondo dei luoghi che si trovan sotterra; poi, conservando il costume poetico, vi abbia aggiunte le [p. 323 modifica]le favolose invenzioni. Così per avere saputo che i Cimmerii abitavano in luoghi settentrionali ed oscuri vicino al Bosforo, li collocò vicini all’inferno. Ma forse ciò fece anche per quell’odio che gl’Ionii portano comunemente a questa nazione; perocché nei tempi di quel poeta o poco prima fecero i Cimmerii una scorreria fino all’Eolia ed all’Ionia. Finse del pari le isole Plancte29 pigliandone l’idea dagli scogli Cianei, come colui che si studiò sempre di trarre dal vero le sue favolose invenzioni. Perocchè immaginò certi scogli pericolosi come si affermava che fossero i Cianei, detti per questo anche Simplegadi30, e poi v’aggiunse anche il racconto di Giasone che vi passò navigando nel mezzo. E lo stretto delle Colonne e quello della Sicilia gli suggerirono la favola degli scogli erranti. Pertanto, a interpretar male Omero, potrebbe dirsi che nella invenzione del Tartaro è da lui fatta menzione di Tartesso: a interpretarlo poi bene, ciò potrebbe congetturarsi da questi altri argomenti. Perocchè le spedizioni di Ercole e dei Fenici fino a quel paese gli fecero conoscere la ricchezza e la dappocaggine degli abitanti, i quali si lasciarono superar dai Fenici per modo che la maggior parte delle città nella Turditania e ne’ luoghi circonvicini sono ora abitate da questi. E parmi eziandio che la spedizione di Ulisse in que’ luoghi, raccontata da lui, gli abbia dato motivo di trasportare l’Odissea, come anche [p. 324 modifica]l’Iliade, dai fatti reali alla poesia, componendone un favoloso racconto secondochè hanno in costume i poeti. Perocchè non solamente ne danno indizio i luoghi d’Italia e di Sicilia ed alcuni altri, menzionati in quel poema; ma anche nell’Iberia sogliono ricordarsi una città detta Ulissea, e un tempio di Minerva, e mille altri vestigi degli errori di quell’Eroe, e di altri sopravvissuti alla guerra di Troia, la quale riuscì funesta del pari ai Troiani ed a coloro che ne distrussero la città. E nel vero costoro riportarono una vittoria Cadmea31; giacchè le private loro cose n’andarono in rovina, e quella parte del bottino che toccò a ciascuno di essi fu di piccol momento. Laonde poi ne seguì che si diedero al ladroneggio e i Troiani scampati al pericolo della guerra, ed anche i Greci: quelli per trovarsi caduti nella miseria, questi per la vergogna; pensando ciascuno essere cosa turpe lo star lungamente fuori del proprio paese e ritornarvi poi senza ricchezze. Così trovansi raccontate anche le peregrinazioni di Enea, di Antenore e degli Eneti; e quelle di Diomede, di Menelao, di Ulisse e di altri parecchi. Il Poeta dunque, conoscendo le storie di quelle spedizioni nelle estreme parti d’Iberia, e la ricchezza e le altre buone qualità del paese (di che i Fenici davan contezza) quivi finse la terra dei beati ed il campo Eliso, dove Proteo dice che Menelao dovrà andare:

          Te nell’Elisio campo, ed ai confini

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          Manderan della terra i Numi eterni,
          Là ’ve risiede Radamanto, e scorre
          Senza cura o pensier all’uom la vita.
          Neve non mai, non lungo verno o pioggia
          Regna colà; ma di Favonio il dolce
          Fiato, che sempre l’oceano invia,
          Quei fortunati abitator rinfresca 32.

Perocchè la bontà del clima e il dolce soffio di zefiro sono doti proprie di quella regione, occidentale ma tiepida, e posta all’estremità della terra, dove abbiamo detto che Omero finse trovarsi l’inferno: e quel Radamanto ch’egli v’ha collocato dinota un luogo vicino a Minosse, di cui pure ebbe detto:

          Minosse io vidi, del Saturnio il chiaro
          Figliuol, che assiso in trono, e un aureo scettro
          Stringendo in man, tenea ragione all’ombre33.

I poeti poi che vennero dopo quei tempi favoleggiarono cose a queste somiglianti; come a dire le spedizioni fatte per rapire i buoi di Gerione ed i pomi d’oro dei giardini Esperidi; e nominarono alcune isole dei beati34, le quali sappiamo che anche al presente si mostrano non molto lontano da quelle estremità della Maurosia che stanno rimpetto a Gadi. Io poi dico che di questi luoghi diedero notizia i Fenici, siccome quelli che innanzi ai tempi d’Omero occuparono il meglio d’Iberia e di Libia, e rimasero padroni di que’ luoghi finchè i Romani non abbatterono [p. 326 modifica]la loro signoria. E della ricchezza d’Iberia abbiamo anche queste altre testimonianze. I Cartaginesi che vi approdarono sotto la scorta di Barca, secondochè narran gli storici, trovarono che i Turditani servivansi di coppe35 e di botti d’argento. E si può credere che dalla molta loro felicità siansi denominati Macreoni36 gli abitanti di que’ paesi, massimamente i capi, e che per questo poi Anacreonte abbia detto: Io per me non desidero nè il corno di Amaltea, nè di regnare cento cinquant’anni a Tartesso. Ed Erodoto ci ha tramandato anche il nome di questo re, dicendo ch’egli chiamavasi Argantonio: perocchè o vuolsi interpretare quel passo di Anacreonte come se dicesse: Non bramo di regnare quanto costui; o in generale: Non bramo di regnare lungo tempo in Tartesso37. Alcuni sostengono che Tartesso fosse quella città che ora nominiamo Carteia. Alla felicità poi del suolo conseguitarono presso i Turditani e la mitezza dei costumi e la civiltà; e così anche fra i Celti per essere vicini e congiunti con quelli, come ha detto Polibio: ma sono peraltro inferiori ai Turditani, giacchè vivono per la maggior parte dispersi in villaggi. I Turditani, e [p. 327 modifica]principalmente quelli che abitano lungo il Beti, cambiarono al tutto i proprii costumi pigliando que’ dei Romani, sicchè non conservano memoria nè anche dell’antico loro linguaggio: ma i più son divenuti Latini38 e ricevettero fra loro colonie romane, di qualità che per poco non sono tutti romani. E fanno manifesta la mutazione dei costumi anche i nomi delle città promiscuamente abitate, come sono Pezangusta fra i Celti, Augusta-Emerita fra i Turduli, Cesaraugusta presso i Celtiberi, ed alcune altre colonie. Quelli poi fra gl’Iberi che hanno adottati questi nuovi costumi diconsi stolati o togati; e fra questi sono anche i Celtiberi creduti una volta più feroci di tutti. E questo di costoro.
  1. Cordova lungo il Guadalquivir nell’Andalusia, patria dei due Seneca e di Lucano.
  2. Strabone è il solo autore che parli di una città detta Beti. Fra le congetture raccolte dagli Edit. franc. si possono ricordare le due seguenti: l’una che Beti fosse una città fondata da Cesare per collocarvi i suoi veterani vicinissima ad Ispali e con questa incorporata poi e confusa: l’altra che invece di Beti debbasi leggere Leptis, città di cui parla l'Autore del libro de Bello Alexandrino.
  3. Italica, patria degl’imperatori Trajano ed Adriano, e del poeta Silio, soprannomato Italico, ebbe a fondatore Scipione che vi collocò i suoi invalidi. – Ilipa, patria di Plinio, è dal d’Anville collocata dove ora trovasi Alcala. – Astiga è Ecija. Carmona conserva il suo nome. – Obulco risponde al luogo detto ora el castello de la Manclova. (Edit. franc.)
  4. Altri leggono ἑξακισχιλίους καὶ τετρακοσίους, sei mila e quattrocento. Il Palmier propone di leggere quattrocento sessanta. Da Monda a Carteja, in linea retta, v’hanno al più 13 leghe, corrispondenti a 450 stadii di 700. (G.)
  5. Sisapona vecchia è oggi Almade. La nuova Sisapona potrebb’essere, secondo Lòpez, Guadalcanal. Nel primo di questi luoghi avvi una miniera di cinabro; nel secondo una miniera d’argento. – Rispetto alle Cotine o (come dice il traduttore italiano) Cotina, le congetture sono incertissime. (Edit. franc.)
  6. La lezione comune ἔχει δὲ ἠϊόνας ὁ ἀνάπλους, parve giustamente corrotta al Silandro. Il Casaubono propose di leggere ἔχει δὲ καὶ ὁ Ἄνας ἀνάπλους, variante seguita dagli Edit. franc. nella loro versione, e trasportate nel testo dal Coray.
  7. Lo stretto di Gibilterra.
  8. La lezione ordinaria è otto.
  9. Leggo col Coray τῇ ῥύσει τῶν ποταμῶν in luogo della lezione comune τῇ φύσει.
  10. Il testo in tutto questo periodo è dubbioso e in alcune parti evidentemente corrotto. Forse l’Autore volle indicare come i bestiami condotti per nave alle isole dei fiumi corrono colà un doppio pericolo, o di esservi sommersi quando la marea a precipizio si gonfia, o di affogare quando i pastori li sforzano a guadare il fiume che nel riflusso, per mancanza di acqua, non può più essere navigato.
  11. Diconsi etesii quei venti che soffiano ordinariamente in certe stagioni dell’anno. Gli euri poi sono venti che traggono da oriente ad occidente, e perciò ritardano la navigazione di chi viene dalla Spagna in Italia.
  12. Strabone parla di questa terra nel lib. XII.
  13. L'espressione del testo ἄφθονος δὲ καὶ βοσκημάτων ἀφθονία, abbondante abbondanza di pecore, parve al Casaubono un’eleganza, agli Edit. franc. ed al Coray una scorrezione. Vollero dunque leggere invece ἄπονος ἀφθονία, abbondanza di cui può l’uomo godere senta fatica.
  14. Altri leggono leberidi.
  15. Pozzuolo.
  16. Leggo cogli Edit. franc. e col Coray δἱα τἡν λιμνασίαν in luogo di γυμνασίατ.
  17. Il cotilo era una misura di liquori.
  18. Il pesce calamaio.
  19. La lezione comune è εἶναί τε παραθαλάττιον τὸ ζῷον τοῦτο. Ma poichè non è vero che il tonno si trovi solo vicino alla spiaggia, il Casaubono vorrebbe leggere εἶναί τε ὗν θαλάττιον κ.τ.λ., cioè che il tonno sia una specie di porco marino. Il Brequigny ed il Thyrwitt adottarono questo senso, ma con qualche varietà nella lezione. Gli Edit. franc. ed il Coray leggono εἶναί τε παρὰ τἄλλαπῖον τὸ ζώον τοῦτο, e traducono: ce poisson n’est plus gras que les autres poissons parce qu’il ec.
  20. Non può riceversi la lezione ordinaria: εὐδιάχυτος γάρ ὁ τύπος καὶ λιθώδης, per la contraddizione che porta seco l’essere una cosa istessa facile a fondersi e della natura della pietra. Fra le emendazioni proposte dal Salmasio a da altri pare da preferirsi quella del Coray, il quale cambia il λιθώδης in λιπώδης. Con questo vocabolo, egli dice, si viene a soggiungere la cagione per cui l’oro facilmente si fonde.
  21. La lezione non è qui sincera.
  22. Pluto era il Dio delle ricchezze: Plutone il Dio dell’inferno.
  23. La vite d’Archimede detta egiziana perchè la inventò durante il suo viaggio in Egitto. Veggasi Diodoro Siculo, lib. I, cap. 34; lib. V. cap. 37.
  24. Caslona.
  25. Il Guadiana ed il Guadalquivir.
  26. Il Casaubono si meraviglia a ragione che Stesicoro collochi le sorgenti del Tartesso o del Beti (ora Gudalquivir) quasi rimpetto a Cadice. Però gli Edit. franc. credono ch’egli come poeta nomini le sorgenti in luogo di tutto il fiume.
  27. Nihil habeo, dice il Casaub., quo locum hunc emendem.
  28. Iliad., lib. VIII, v. 485.
  29. Cioè Isole erranti.
  30. Cioè Urtantisi fra loro.
  31. A questo proverbio si danno varie spiegazioni: esso per altro si usava a significare una vittoria dannosa ne’ suoi effetti ai vincitori non meno che ai vinti.
  32. Odiss., lib. iv, v. 563.
  33. Idem, lib. xi, v. 567.
  34. Le Canarie.
  35. Leggo cogli Edit. franc. e col Coray Φιάλαις in luogo di Φάτναις, voce che i più interpretano per mangiatoie.
  36. Macreoni, cioè, Longevi; perchè (dicono gli Ed. franc.) all’idea di una lunga vita si unisce ordinariamente quella della felicità.
  37. Seguito la lezione del Coray: ἢ γὰρ τοῦτον δέξαιτ’ ἄν τις μὴ ἴσον τούτῳ, τὸ τοῦ Ἀνακρέοντος, ἢ κοινότερον, ἀντὶ Ταρτησσοῦ πολῦν χρόνον βασιλεῦσαι.
  38. Son divenuti latini, cioè ottennero il così detto Diritto del Lazio.