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libro terzo | 317 |
poso e prolisso; come se traesse anch’egli da una miniera le sue parole. Descrivendo poi la diligenza di coloro che lavorano intorno ai metalli reca in mezzo le parole di Falereo, il quuale parlando delle miniere d’argento dell’Attica disse che gli uomini scavavano quivi con tanta assiduità, come s’eglino s’immaginassero di poterne trar fuori lo stesso Pluto. Somigliante alla costoro diligenza ed operosità dipinse Posidonio quella dei Turditani nello scavare fin dentro alle tortuose profondità della terra, e nell’asciugare colle viti egiziane1 i fiumi che in quelle spesse volte a loro si attraversano. Ma la costoro sorte non è uguale a quella di chi lavora nelle miniere dell’Attica; ai quali potrebbe applicarsi quell’antico enigma: «Non hanno preso tutto ciò che trassero dalla terra, e vi hanno lasciato ciò che possedevano.» Perocchè ai Turditani sono per lo contrario soprammodo fruttuose; siccome quelli che dalle miniere del rame cavano una terra di cui una quarta parte è metallo; e coloro che danno opera alle miniere d’argento ne traggono ogni tre giorni quanto equivale ad un talento d’Eubea.
Dice poi che lo stagno non si ritrova punto sulla superficie del terreno, come hanno spacciato gli storici, ma sibbene si scava: e che si genera fra i barbari al di sopra dei Lusitani, e nelle isole Cassiteridi, oltrechè anche dalle isole britanniche se ne porta a Marsiglia; e
- ↑ La vite d’Archimede detta egiziana perchè la inventò durante il suo viaggio in Egitto. Veggasi Diodoro Siculo, lib. I, cap. 34; lib. V. cap. 37.