Galateo insegnato alle fanciulle/La creanza e la conversazione

Cesare Cantù

La creanza e la conversazione ../Lezione XV - Riepilogo e conclusione IncludiIntestazione 30 dicembre 2018 100% Da definire

Lezione XV - Riepilogo e conclusione
[p. 77 modifica]

LA CREANZA E LA CONVERSAZIONE


Fra le piccole cose che possono recare piaceri e dispiaceri grandi, sono le norme della civiltà, la creanza. Creanza è la pratica del rispetto che dobbiamo agli altri nelle particolarità della vita; l’attenzione a far che gli altri siano contenti di noi, mediante parole e atti che esprimano benevolenza e stima, e a schivare i contrari. Essa forma appendice alla morale; non costa niente, e compra tutto; la paragonerei alla luce che senza far rumore dà colore a tutti gli oggetti; al condimento che dà sapore e grazia alle vivande, alla levigatura dei mobili. Un armadio di tavole appena digrossate, serve come tirato a pulimento; è buona la minestra anche in una scodella non lavata eppure voi ci fate differenza. La creanza può averla il ciabattino quanto il ministro; forse più di grandi meriti contribuisce alla pace, imita l’umiltà, dispone alla carità, copre o attenua molti difetti, e fa comparire l’uomo all’esterno quale avrebbe ad essere nell’interno. Il nostro interesse medesimo dovrebbe renderci cortesi, poichè questo è il miglior modo di conciliarci i cuori. Nessuno si frega ad una grattugia, nessuno accarezza il porco-spino; il miele si fa leccare perchè è dolce; una puntura di spillo fa [p. 78 modifica] talora più male che uno schiaffo. È puerile il rendersi schiavo al variare di tutti gli usi; ma è superbia il non volersi sottomettere a nessuno; e chi non fa quel che tutti fanno (parlo sempre delle cose nè illecite nè indecorose) pare presuma di valer più degli altri, e con ciò ne irrita l’amor proprio. L’onest’uomo si uniforma all’uso delle piccole cose, per riservarsi il dritto di sottrarsene nelle cose grandi. Già da fanciulli vostra madre vi ripeteva di non vagliarvi, non isbalestrare, nè fissarsi troppo in viso gli occhi, non gesticolare nel discorrere, nè stare impalato come un cero; non andare a fuggi fuggi, nè far tre passi sopra un mattone; non ridere sgangherato, e che la troppa confidenza fa perdere la riverenza, e che il giocar di mani dispiace fino ai cani. — Tienti dritto della persona e dritta la testa. Non accavalciare le gambe una sull’altra come i sartori. Non ti sdraiare, quando siedi. Non dimenar le gambe spenzolate come fossero salsiccie sospese. Quando cammini non iscagliare le braccia, come se seminassi; non voltar troppo spesso di qua e di là la testa come una civetta.

Non chiamare alcun lontano con urli e con fischi. Non isvestirti in presenza della gente, nè cavar le scarpe, nè sbattere la polvere o il fango. Non voltar le spalle alle persone. Non isbadigliare in società. Nè ti grattare, nè ti pulire colla saliva. Procura di evitar la tosse e li sputi. Poi tossendo o starnutando, volgiti [p. 79 modifica] dall’altra parte, e metti il fazzoletto alla bocca. Non cacciare le dita nel naso; nello spurgarti non far fracasso come se suonassi la tromba, nè guardar dopo nel fazzoletto. Il far visacci, sporgere la lingua, zufolare, e additar cose schife, o far sentire odori fetidi, il digrignare i denti e far scricchiolare ferri o pietre in modo aspro, sono atti da villano. In casa altrui non toccare le cose che stimolano la tua curiosità.

Serbati in mente questi consigli. Vizio è la pratica abituale di atti cattivi. Difetto è il mancare di qualità buone. Ridicolo è il mancare di convenienze. Certe sottili esigenze della società variano secondo i paesi e i tempi, e trovansi descritte in libri che si chiamano galatei. Si può ignorarle senza essere cattivi, ma ciò vi farebbe passare per male allevati, darebbe sinistro concetto di voi, ed offenderebbe i sensi o l’immaginazione degli altri. Son come gli spiccioli del denaro, che ciascuno ha poco valore intrinseco, ma divengono importanti per l’accumularsi e pel frequente uso. È dunque opportuno il saperle. A tal fine quando entrate in società, mettete occhio a quel che fanno le persone a modo, e imitatele.

L’inciviltà nasce per lo più da egoismo, che ci fa badare ai nostri propri gusti, e operare come non ci fossero altri a cui i nostri atti possano recare o dispiacere o danno. Siamo due uomini e una donna. Da un pesco cogliamo due frutti. Se guardo solo alla mia gola, comincio [p. 80 modifica] a tenermene uno; la donna prende l’altro; il terzo bisognerà venga a pugni, se ne desidera. Io invece offro la pesca alla donna. Con ciò diminuisco a me la probabilità di mangiarne, ma mi sono acquistato un grazie, e l’opinione di cortese; l’altra pesca presento al compagno, se egli l’accetta, ne resto senza, ma avrò usato una gentilezza all’amico; se egli invece insiste perchè me la tenga, accetterò. L’altro ne resterà privo, ma non umiliato, e gli rimarrà la compiacenza di aver procurato un piacere a me colla sua privazione.

Vedi colui, che, passeggiando rota il bastone lo spinge innanzi e indietro in modo da far per lo meno paura a chi passa vicino? Se non fosse egoista, baderebbe sempre alla punta del suo bastone o del suo ombrello. E quell’altro, che camminando occupa tutto il marciapiede, sicchè obbliga voi a discendere nel fango!? È un egoista.

Dice il nostro sindaco che la pippa e la polka hanno messo in fuga la conversazione e la decenza. Infatti il pippare è la più sconcia delle porcherie moderne; rende puzzolenti i nostri abiti e il nostro fiato; cagiona schifo agli altri che sono costretti a sorbire l’aria uscita così fetente dalla nostra bocca; ci rende insocievoli perchè preferiamo il pippare allo stare a discorrere o con persone civili, o con signore.

Quei poverini, che per salute credono di dovervi ricorrere, lo facciano come si fa delle altre [p. 81 modifica] medicine, in disparte e in segreto. Che dire di quelli che pippano nelle camere, nelle carrozze, nella folla? Sono fior d’egoisti.

Rustico è un vero galantuomo, incapace di far male anche all’erba che stiaccia; mantiene la parola, fa carità; eppure la gente non gli vuol bene. Ma perchè?

Badate, amici cari, Rustico veste a bioscio, sgualcito, sciamannato bisunto, con una scarpa e uno zoccolo, non secondo la condizione sua, e colle usanze d’un altro millesimo. Non mentisce è vero, ma canta la verità nuda e cruda, e per esempio è capace di spifferarvi: Che brutta, ciera avete! oppure: Ho visto un nanerottolo piccolo come voi: oppure: Come ci vedrete poco voi, che avete un occhio manco! A giorni allegro, chiassone; cert’altri è nero, cupo, parla aspro che sembra in collera; favellando alita nel viso; sbadigliando, raglia; tossendo o starnutando, spruzza i circostanti. Se vi dà uno spintone o vi pigia un piede non si degna di dirvi scusate; se gli fate servizio non saprebbe dirvi grazie; se v’incontra non vi dà nè il buon dì, nè il buon anno. Se gli annunziate, il tale vi saluta, sarebbe il tomo di rispondervi: Che n’ho a far io? Avviate un ragionamento? Egli non vi piglia interesse. Gli parlate? È a cento miglia. Sbadiglia di continuo, attacca un sonnerello, poi vi domanda: Che? Cos’avete detto? e vi risponde dattero per fico, e sul più bello vi rompe la parola in bocca. Se poi racconta [p. 82 modifica] lui non sa mai venire all’ergo, e sgocciola le parole e dice: Quel tale... come si chiama? Di quel paese... aiutatemi a dirlo... Fa un traspeggio per casa, e se alcuno gli suggerisce che disturba il vicinato esclama; Sono in casa mia. In cucina si rompe un bicchiere? Fa un diavolezzo. Entra nel pigio della folla? Borbotta le persone per cacciarsi innanzi a tutti. Ha promesso di venire e ha dato un appuntamento, poi si fa aspettare delle mezz’ore. Gli prestate un libro? E non ha nome torna. Proponete d’andare a dritta? Egli vuol andare a sinistra. Vede che chinate verso il fiume? No. Vuol che si poggi al monte. In piena tavola pianterà il discorso de’ morti, di piaghe, della sugaia e del pozzo nero. Entra? Non tirasi dietro l’uscio. Leggete un libro, una gazzetta? Ve li leva di mano per isfogliarli esso prima. Scorrete una lettera? Vi getta un’occhiata. Se avete a mettervi insieme in carrozza, s’accomoda al posto migliore; al fuoco occupa tutto il focolaio; s’è in chiesa o al caffè, è seduto in mezzo ad una panca, e non si ritirerebbe un tratto per dare un poco di posto, foss’anco ad una donna. L’altro ieri piovincolava ed egli coll’ombrello tirava via sulla sua dritta; scontrò la moglie del pretore, rispettabile signora, le fece di cappello, ma nè si ritirò per lasciarla sopra l’asciutto, e nè le offrì l’ombrello. Sino nel fare del bene non mette garbo nè grazia. Quantunque dia delle buone cenette e spilli del migliore, i suoi amici vanno mal volentieri da lui, perchè [p. 83 modifica] vi manca il miglior piatto, la buona cera. Se dà un soldo ad un pitocco, brontola, e lo chiama ozioso, seccatore. Ai suoi parenti vuol bene, e li lascierà eredi di tutto il fatto suo; ma non userebbe loro una di quelle minute cortesie che non costano niente e valgono tanto. Ha il giardino con fiori che è una bellezza. Dite mo’ che ne mandi un mazzetto alle sue cugine o all’altarino della Madonna! Dite mo, se comunicherebbe ad altri i semi e le cipolle dei suoi garofani, delle giunchiglie, gl’innesti delle frutta! Ha una pianta di pesche primaticcie, ed un paio che ne regalasse, gli attirerebbero ringraziamenti; egli non ci pensa, e le lascia infracidire. Un giorno ne donò una panieruzza a suo nipotino, ma invece d’aggiungervi qualche parola, come: Studia, sta zitto, composto in chiesa e obbedisci alla mamma, gli disse: Te’, già io non so cosa farne.

Cotesti di Rustico non sono delitti, ma vi chiariscono che non basta avere buon cuore e buon senso; vuolsi anche cortesia, affabilità. E a tal fine non essere egoista. Troppe volte avviene che involontariamente rechiamo disgusto agli altri; laonde diventa dovere la civiltà, cioè il compensare colle dolcezze che nascono dai reciproci riguardi. In generale bisogna avvezzarci agli atti che risparmiano noie, disturbi, tempo, fatica agli altri, che usati a noi ci darebbero gusto, e che rendono grazioso e piacevole il vivere in società. [p. 84 modifica]

Vi è dunque uno scopo morale in certe minuzie le quali paiono indegne di spiriti serii. Un fondo di benevolenza è indispensabile, e non mi stancherò di ripetervi che la prima regola e la più generale è non essere egoisti, cioè non cercare i gusti, i comodi, i sentimenti nostri senza riguardare agli altrui. Segue il fuggire la vanità, cioè non presumere l’essere più degli altri. Sei ricco? Sei bello? Sei della costola d’Adamo? È un caso. Sai molto? È dono di Dio. Ma il vero merito è modesto, non cerca primeggiare, usa agli altri tutti i riguardi che possono renderli contenti di lui. Un bel precetto di civiltà ci ha dato Gesù Cristo quando disse: Non vogliate collocarvi al primo posto, giacchè è meglio che il padrone venendo vi dica: Perchè seder laggiù? Anzi che dovesse dire: Che fate quà vicino? Ritiratevi. L’uomo modesto non ostenta grandigia e sapere; non parla dei propri meriti, nè mostra gongolare quando altri lo vanti. Non disprezza nessuno. Loda quanto può; rispetta l’altrui opinione anche repudiandola. Non lascia la lettera od il saluto altrui senza risposta. Non occupa a lungo la conversazione di lui o delle cose che a lui stanno a cuore; anzi porge agli altri occasione di favellare. Non si mostra nasuto o bisbetico. Non contraddice sfrontatamente, nè si ostina sul suo parere. Mettetelo qua o là. Egli non guasta.

Nè però il modesto si lascia soperchiare; non s’avvilisce al cospetto altrui per falsa vergogna. [p. 85 modifica] Procura di mostrarsi dal suo lato più favorevole, giacchè in società ognuno vale per quello che sa farsi valere. Egli non ha tante borie per la testa, non isloggia di là del suo stato, non usa abiti sconvenienti alla sua età, nè stravaganze nella barba, nei capelli, nel portamento. Tanti colori vivi strillanti, e nastri e fiocchi e fronzoli, non attestano nè buon gusto, nè semplicità; rendono ridicoli, e fan chiacchierare a vostro carico. Meno pàmpani e più uva. Il miglior lusso è l’essere ben lavato, ben pettinato, e pulito degli abiti come uno specchio; e un gran filosofo ha detto che la pulitezza è la castità dell’anima. Se è soverchia, indica vanità; se scarsa, indica trascuranza, disordine, sprezzo degli altri. Il nostro compar Bonifazio dice ch’è bel vestire con tre N, nero, nuovo, netto.

Singolarmente le fanciulle devono vestire più semplici che le maritate e persuadersi che il miglior modo di trovar marito non sono i ghingheri e le profumature, non lo star sulle gale o sulle usanze, il far attucci e moine, il voler titolo di bella, ma il mostrare gusti semplici e schiettezza. Nè moda poi, nè occasione possono servir di scusa al vestire indecente. L’opposto della modestia è la sfacciataggine, carattere di chi ha maggiore stima di sè che degli altri. Vedete Alberto? Non ha terra che lo regga: chiedete, domandate, egli sa tutto a menadito, discorre di tutto, suol giudicare di tutto; comprese a mezz’aria di che si tratta, e già sputa [p. 86 modifica] sentenze e toglie la parola a chi la sa lunga; così dice spropositi da far ridere i polli, e non impara nulla. Il curioso mette schifo in società come un ragno che toglie il volo alle mosche; mette paura come una biscia che s’introduce per tutto. Che capo quel Nolfo! Egli busca ogni ciarpa. D’ogni persona nuova riverga la vita e i miracoli, fa commenti ad ogni starnuto, vorrebbe conoscere tutti i fatti degli altri, cosa operano, cosa mangiano, di che vivono, chi viene a trovarli. Che andasti a fare in quella casa? dove hai comprato la tal cosa? perchè l’hai comprata? da chi? quanto vale? cosa vuoi farne? — Vede una cassa chiusa, un cassettone? vorrebbe esser una chiave per aprirlo e guatarlo. Se arriva una lettera, almanacca sulla soprascritta, smania di saperne il contenuto; cerca più di traguardare se possa leggerne qualche parola. Viene il medico a visitare un ammalato. Vuol conoscere quel che ordina, quel che pronostica; la sua curiosità oltre al succhiellare la servitù, arriva fino all’eccesso di frugar nelle carte di suo fratello, di cercar nelle tasche di sua madre, di origliare alle porte, di far la guardia dalla gelosia. Poca accoglienza e manco cera si fa a questo impiccione; quando egli arriva si troncano i discorsi; nelle case che bazzica si chiudon tutti gli usci. Perchè impigliarvi dei fatti altrui? Non bastano i vostri? È un proverbio d’oro: Chi vuol vivere in pace vede, ascolta e tace. E i nostri contadini hanno quest’altro: Dei fatti [p. 87 modifica] altrui quanto meno se ne sa, meglio sta; quanto men se ne dice più ben la va. Si direbbe che taluni hanno la malattia per cui sono costretti a parlar sempre. Segno di debolezza che predomina principalmente le donne di scarsa educazione. Compar Bonifazio ha in proposito molte sentenze:

Chi parla in fretta si pente adagio.

Parla poco e ascolta assai, e giammai non fallirai.

Di rado mi dolsi d’aver parlato poco; spesso m’increbbe di aver parlato troppo.

Assai sa chi non sa, se tacer sa.

Al canto si conosce l’uccello, al parlare il cervello. Al ragliare si scopre che non è un leone.

Bocca chiusa ed occhio aperto non fe’ mai nessun deserto.

Chi parla semina, chi tace raccoglie.

Di lui ho qui in iscritto alcune regole del conversare, che non vi dovrebbero tornare inutili:

Prima di parlare pensa quello che devi dire.

Non voler essere nè il primo, nè l’ultimo a parlare.

Non ridire il già detto. Sa di ribollito.

Chi è prudente sa tacere e conservare il segreto.

Le persone istruite dicono molte cose in poche parole. Gl’ignoranti parlano assai e dicono poco.

Parla chiaro ed aggiustato, lesto, non precipitato; pulito, non affettato; non storcignando; non a saltelloni, come campana che rintocchi; non crocchiante come vaso fesso.

Le buone parole acconciano i mali fatti. Non fare lo sputa sentenze, nè l’ammazza sette; non tonare dall’alto, nè con troppo calore; la parola modesta convince; la parola affettuosa attrae.

Non fare giuramenti per sostenere ciò che affermi; daresti segno d’aver poca fiducia che ti credano.

Se nasce disputa, esponi i tuoi pensieri con affabilità e moderazione, senza smiracolare, e non t’impassionare delle dispute, perchè il discorrere fa discorrere; e ti potrebbero sfuggire [p. 88 modifica]proposizioni, di cui avessi tardi a pentirti. E non ti ostinare per dei nonnulla. E appena la discussione diviene irritante, cedi. Solo Dio è infallibile. Solo gli imbecilli credono di esserlo. L’uomo d’ingegno dubita di sè. Lo sciocco non dubita di nulla.

Se stai cupo, se taci sempre, diranno che sei un colombo di gesso, un legno sopra legno. Se chiacchieri troppo, dirai ciò che vorresti poi non aver detto, e scoprirai l’ordito della tua tela.

Non fare il piagnolone, non il millantatore. Sciocco è colui che si vanta di quel che ha fatto. Sciocchissimo chi si vanta di ciò che farà.

Tu sei sincero, ma eccedi; quella verità così aspra potevi risparmiarla. Per non perdere un amico, talvolta conviene inghiottire amaro e sputar dolce. Non ogni ver detto è ben detto.

Quando parla uno migliore di te, serba silenzio. E in generale quando altri parla, prestagli attenzione o fanne la mostra. Il saper ascoltare è importante, quasi come il saper parlare. Bada alle domande che ti fanno per non dover farle ripetere; e rispondi senza soggezione, ma senza arroganza; rispondi chiaro e breve.

Non dir nulla delle persone di cui non puoi dir bene. Sii piuttosto tromba delle virtù che fischietto delle colpe. Parla di rado delle tue occupazioni particolari. Lascia che te ne interroghino; o piuttosto interroga gli altri sulle loro; e di te stesso favella il meno possibile, sia in bene, sia in male. La parola io ha sempre qualcosa di odioso.

Non parlottare in segreto ad alcuno quando il discorso sia generale; se vedi due che il fanno, tirati discosto.

È segno di grossolano ingegno l’interrompere chi parla, e massime sia per fargli una obbiezione, per notargli uno sbaglio, per suggerirgli una parola ch’egli sembri cercare. Più scortese ancora è il rompere a mezzo un racconto d’altri per seguitarlo noi. Nulla piace tanto nei discorsi quanto una bontà illuminata. Anche mondanamente parlando è gran segno d’inciviltà e d’animo rozzo il bestemmiare; e dir parolaccie da taverna. Che dirò dei laidi e degli empi, i quali tengono discorsi immorali e disonesti, e vogliono la baia delle cose e delle persone sacre? A costoro, cari amici, chiudete la porta sul mostaccio.

Astenetevi dal parlar male dietro le spalle, dal fare la sassaiuola contro ognuno che parte. Vellicate gli uditori colla [p. 89 modifica]malignità, ma mettete in tutti i presenti la paura che li frecciate altrettanto quando sono assenti. I cosiffatti in società sono bene accolti per paura, come si dà la dritta ad un cane, di cui si teme il morso.

Alcuno ha solo in delizia la compagnia di persone da meno di sè, onde primeggiare; costui diventerà sempre più sciocco e non farà profitto. Compiacetevi della compagnia di chi sa dì più, e sopratutto di onesti uomini e costumati. Ne imparerete sempre qualche cosa; il loro esempio vi renderà migliori; la loro amicizia vi renderà rispettati, perchè le virtù si attaccano come i vizi. Quand’anche da un grossolano non imparaste le sue zotichezze, se non arrozziste la lingua e gli atti, vi abituereste a non abborrirle. Chi vuole entratura con persone molto superiori in grado e ricchezza, troverà disgusti e mormorazioni. Con costoro è come maneggiar l’ortica. Chi può vivere con Anselmo, così scontroso che ogni minima cosa gli dà al naso, prende ogni parola sulla punta della forchetta, e rabbuia lo sguardo, e vi rizza tanfo di grugno? O con ser Appuntino che sempre e tutto contraddice? O con quel miracolo di Nino che tutto esagera e di tutto fa sperpero? O con quel baionaccio d’Enrico? Sempre viene a contar una ciancia, a sballare una spaventosa notizia, a piantarvi una carota, gonfio, pallaio! Aprite le finestre. Ei crede comparire spiritoso, ed è un tumistufi.

Zerbino è sempre lindo della persona come ascisse di mano del parrucchiere. Gli fioccano dal labbro le parolette cortesi e le sdolcinature; ogni tratto vi fa mille ringraziamenti e più in là: ogni tratto vi domanda scusa; pare che senza di voi non possa aver bene, che il minimo nostro maluccio tolgagli il sonno; d’ogni atto vostro sdilinguisce; non ardirebbe contraddirvi neppure se diceste che in gennaio maturano le pesche. Zerbino piacerà ai leggeri suoi pari, ma chi ha fior di senno lo manda a farsi benedire. Si può dunque essere incivili per eccesso di civiltà, per quel che dicesi ammazzare di complimenti. La civiltà non consiste nello strabondare in frasi melate e in complimenti, i quali non manifestano i sentimenti nostri, ma li fingono. Civiltà è l’operare verso gli altri con sentimenti di cortesia, d’indulgenza, di benevolenza; se voi nutrite questi sentimenti nel cuore, li paleserete senza stento e sarete tenuto [p. 90 modifica]buono e gentile. Se non li avete e pure volete ostentarli, vi chiamo ipocrita, impostore. E impostori sono coloro che puliti e garbati fuori, svestono la creanza quando entrano in casa propria, dove si mostrano villani e scortesi. Costoro non facevano se non una mostra, un mercato delle loro garbatezze.

Per rendere la nostra società cara e piacevole, conservate umor uguale; mettete pace dove trovate disunione; mostratevi riconoscente anche dei minuti favori: fate presto e volentieri un servigio a chi potete.

Siate umani, compiacenti, indulgenti, benevoli, tolleranti. Questo è il fiore della cortesia. Umani, esulterete delle fortune altrui, vi rattristerete dell’altrui sciagure, diminuirete, quanto è da voi, i mali, i disgusti, crescerete i piaceri del consorzio civile. Compiacenti, mirerete a quello che possa riuscir gradito agli altri, preverrete i desiderii, risparmierete gl’incomodi. Indulgenti, perdonerete le piccole offese, interpreterete in bene le azioni, compatirete i difetti, ricordando che ciascuno ha da spazzare davanti al suo uscio; non pretenderete che altri vesta, mangi, pensi, parli a modo vostro, sacrifichi la sua libertà in cose che non nuocciono nè a voi, nè agli altri. Benevoli, osserverete gli uomini dal loro aspetto migliore, credendo più alla virtù che ai vizi, alla candidezza d’animo che alle tranellerie; onde li stimerete, li amerete, e vi mostrerete disposti a far loro ogni bene. Tolleranti, non carezzerete il vizio e la viltà, benchè riccamente vestiti, ma compatirete i difetti, di cui nessuno va esente: cercherete di ricoprirli e scusarli ove si può, e osserverete alle azioni piuttosto che all'apparenza. Se anche ignoraste molte finitezze, e non tiraste tutti gli usi sulla riga, buon senso, buon cuore e abnegazione dell’amor proprio vi faranno perdonar le mancanze.

Foss’anche un vignaiuolo, è bencreato quanto un gentiluomo quando si mostra compiacente, non strisciante; dignitoso, non permaloso; esatto, non minuzioso; ragionevole, non ostinato; positivo, non spilorcio; riverente coi maggiori, modesto cogli uguali, cogli inferiori piacevole; nei discorsi, come nelle azioni, candido, franco, secondo il cuore. Chi parla con lui, nol crede tempo gettato.

Cesare Cantù.