Galatea (Barrili)/XIV
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XIV.
Il prologo... e l’epilogo.
18 agosto 18...
Questa mattina il mio dolce Filippo è uscito di casa alle nove; avviato al Roccolo, si capisce, dond’è ritornato sul mezzodì, mentre io finivo di buttar giù il racconto della gran giornata di ieri.
— Tre ore di conferenza! Mi congratulo; — gli dissi.
— No, sai; mezz’ora per andare, con tutto il comodo mio, e mezz’ora per ritornare; son dunque state a mala pena due ore. La contessa avrebbe voluto trattenermi a colazione; ma io mi sono scusato, essendo in balìa del mio ospite ed amico. Per una prima visita ho voluto esser breve; mi rifarò un’altra volta; sempre che, — soggiunse maliziosamente Filippo, — non ti dispiaccia la cosa.
— Ma no, ma no; quante volte l’ho a dire, che non mi dispiace, che anzi mi fa un piacer matto?
— Del resto, — rispose Filippo, — la tua dama è sciocca, quasi tanto sciocca quanto è bella. Mi ha parlato d’armi a tutto pasto; non sapeva, non voleva parlarmi che d’armi. Io tentavo di fare qualche scorreria nel campo letterario, che non è veramente il mio forte; ma lei, non dubitare, mi levò sempre l’incomodo, ritornando alle armi.
— Avrà voluto tastarti.
— Che! Lo Spazzòli, se mai, le ha fatto ben capire che sono un ammazza sette e uno stroppia quattordici. Avrà creduto piuttosto di farmi piacere, mostrando di trovar gusto nelle mie occupazioni favorite.
— Come ha fatto con me, parlandomi sempre di versi.
— Sicuramente. Quella donna, caro mio, è come gli specchi, non sa che riflettere le immagini a cui si trova di rimpetto. Perciò mi ha detto di non aver simpatia che per gli uomini animosi, per gli uomini valorosi, pieni d’onore e di cavalleria; mi capisci? Tutte queste belle cose erano là, rappresentate, incarnate nel tuo umilissimo servo. Ah, che burlette! E bisogna aver l’aria di prenderle per buona moneta. Mi ha domandato poi se mi sono mai battuto per una donna; ed io penso di averla un po’ mortificata, dicendole troppo presto di no. Chi sa? forse l’avrò consolata, soggiungendo che non mi si era ancor presentata l’occasione. La donna che amerò è certamente nata; guai a lei se aspettasse ancora a nascere, perchè vorrebbe ritrovarmi già troppo stagionato; ma il fatto sta ed è che io non ho avuto occasione di far niente in onor suo. Qui, come ti puoi immaginare, un’occhiata fosforescente, oh molto fosforescente. Che cosa vorrà dire? Lo domanderò questa sera alle lucciole, che di queste cose se ne dovrebbero intendere. Che bel tipo, la tua contessa! Hai ragione a non esserti invaghito di lei; come hai torto, lasciatelo dire, a non invaghirti dell’inglesina.
— Perchè?
— Perchè quella è una fanciulla d’oro. — Con la sua parte di lega, vorrei rispondere; ma tengo prudentemente la restrizione per me.
— Caro mio, — gli rispondo in quella vece, io temo d’essere un po’ — stravagante e disadatto agli amori. Ricordi quello che disse la — bella veneziana a Gian Giacomo Rousseau: “Zaneto, lassa star le done — e studia le matematiche.„ Ed io medito il buon consiglio, senza che — nessuna me l’abbia dato. Sai a che penso io? A scrivere il mio buon — poema, che le sciocche gelosie dei tre satelliti mi hanno in mal — punto interrotto.
— Facendo venir me a frastornarti dell’altro, non è vero? — soggiunse Filippo.
— Che dici? Posso ben lavorar di mattina, e far molto; specie se tu hai sempre l’uso di covare il letto.
— Quando si può, non si deve pretermettere questo piacevole e saluberrimo uffizio. Alzarsi a bruzzico per lavorare, quando non ce n’è bisogno, che idea! Peggio ancora, quando nessuno ce lo comanda, quando nessuno aspetta i frutti del nostro lavoro. I posteri, mi dirai. Ma io ti dirò che cosa faranno i posteri del tuo poema. Parlo dei posteri di buon gusto, s’intende, e ricchi abbastanza per farti onore. Ti faranno rilegare in pelle, con bei fregi d’oro; ed intonso, mi capisci? intonso. Un libro intonso ha più pregio d’un libro colle carte smarginate. Anche i pizzicagnoli, sai, li preferiscono intatti. Ah, mio caro Rinaldo, dai retta, vivi e gusta tutto il prezzo inestimabile della vita. Le tue vigilie, le tue clausure, non profittando a nessuno, tolgono molta parte di gioia anche a te. La gloria, risponderai. Ma che cos’è la gloria? Ne ho domandato ad un uomo di grande ingegno, e mi ha detto sorridendo: la gloria è il diritto, acquistato un po’ caramente, di sentirsi legger la vita tutti i giorni che fa Dio, cucinare a tutte le salse, negare la fantasia, l’arte, l’intelligenza, il criterio, il senso comune, oggi a benefizio d’uno, domani a benefizio di un altro, e così via, fino a tanto che non venga un gran postero, armato d’una falce lunga lunga, e ziffe, faccia di tutti un monte di fieno, per dar nervi e polpe ad un’altra generazione d’animali.
— Sì, tutto come vorrai; — risposi un po’ offeso, ma non sapendo lì per lì che cosa ribattergli. — Ed hai poi saputo niente di ciò che importava? Li ha catechizzati lei, i suoi tre cari satelliti?
— Non me lo ha confessato, ma l’ho potuto intendere egualmente. Parlando di te, dicendo che sei molto gentile, non ha taciuto il tuo difetto, nobilissimo difetto, di pigliar fuoco per nulla... come lei, del resto, come lei. Passando ai tre satelliti, ne ha detto anche bene; poveracci, tanto gentili, attenti, divoti e pronti ad ogni cenno, ad ogni desiderio; ma ancora un po’ gelosi, come tutti i vecchi servitori, e poco benevoli, ad ogni nuovo venuto; ma non sgarbati, finalmente, che questo ella non sarebbe donna da tollerarlo; solo un tantino, un tantino... come dire? Aspretti, suggerii, parendomi che non dovesse spiacere. Infatti, un sapore aspretto non esclude bontà di frutto, nè di bevanda; e c’è l’amaro delle cento erbe, che fa bene allo stomaco. Ci siamo accordati così, voltando la cosa in burletta e passando. Ma io m’avvedo di esser capitato a tempo; perchè la contessa non riescirà mica a trattenerli sempre, i suoi cani, specie se tu sarai sempre aggressivo come ieri.
— Me ne compiaccio, e farò peggio ancora.
— Non dico di no. Ma bisognerà agguerrirsi, prepararsi di tutte armi all’impresa. Hai sempre sicuro il tuo colpo a venticinque passi?
— Lo credo.
— Mettiti in esercizio, Rinaldo. Ed anche d’armi bianche, per non far torto a nessuna. —
Oggi stesso ho fatto piantare in fondo al giardino un’asse di quercia, sulla quale Filippo ha disegnato a grossi contorni di carbone un uomo di giusta statura, veduto in tre quarti. Nel torace del nostro uomo abbiamo segnato tre cerchi concentrici, ed uno, tanto per variare il bersaglio, nel mezzo della testa. Filippo ha messo fuori le pistole, con una diecina di cariche, ed io l’ho tutto consolato facendogli quattro centri nella testa e cinque nel costato dell’avversario di legno. Un colpo solo dei dieci aveva sgarrato di due linee, rompendo sempre il mostaccio poco raffaellesco che mi aveva disegnato Filippo.
La pistola andava a quel dio. Si venne alla spada. Ma qui Filippo è troppo più forte di me; non riesco a dargli che due bottonate, contro dieci che ne tocco da lui.
— Va bene, va bene ad ogni modo; — mi dice egli, soddisfatto abbastanza dei fatti miei. — Hai bisogno di scioglierti il pugno. Perciò, caro mio, meno lavoro di penna, e lascia dormire il poema. —
Tra questi passatempi arriva l’ora del desinare. E dopo desinare, tanto per affrettare la digestione, quattro assalti di sciabola, con rispettive ammaccature. Qui sono più fortunato; lo tocco cinque volte, contro sei che ne consegna a me; ed ho anche la fortuna d’essere stato il primo a toccare, cosa che non m’era avvenuta alla spada. Ne son felicissimo; e con la furia che metto sempre in tutte le cose mie, decido di non fare più altro, mattina e sera, che scherma ed esercizio di pistola. Filippo non desidera altro; è nel suo elemento. Molle di sudore, mi rasciugo, come Carlomagno dopo le sue cacce d’Aquisgrana; depongo l’umida maglia, ne indosso un’altra, e tutto il rimanente, per andare con Filippo al sorbetto serale. Un po’ tardi, però, troppo più tardi del solito; e la cosa è notata dalle signore, con accento di cortese rimprovero.
— Il mio ospite fa versi; — risponde Filippo; — ed io gli faccio la corte, leggendoli.
— Ma non tutto il santo giorno; — osserva il commendator Malteini. — Quest’oggi, passando davanti al Giardinetto, ho sentito spari su spari; tanto che a tutta prima ho pensato ad una infrazione dei regolamenti, non essendo ancora aperta la caccia.
— Io avrei il patentino, se mai; — rispose Filippo. — Ma nel fatto, non si cacciava; ero io, che, non avendo un poema da scrivere, facevo i miei quattro colpi quotidiani al bersaglio.
— Un bell’esercizio! — disse la signorina Wilson. — Mi piacerebbe tanto!
— Anche Lei, signorina, se crede, potrà contentare il suo desiderio molto facilmente. Le porterò uno dei miei Flobert.
— Grazie! se la mamma lo permette....
— Per farti poi del male, bambina?...
— Oh, non c’è pericolo, signora, e la sua figliuola può esercitarsi benissimo. La carica del Flobert è così minuscola, che non c’è nessun timore di veder scoppiare la canna. Del resto, — soggiunse Filippo, — non si potrebbe far meglio? Ci abbiamo l’accademia per l’Asilo da allestire. Che cosa direbbero questi signori d’una gara di pistola? Si potrebbe anche improvvisare una fiera di beneficenza.
— Sì, sì, una fiera; che bellezza! — gridarono le signorine Berti. — E tutte le signore ai banchi; che ne dice, contessa?
— Credo bene che si ricaverebbe più denaro, che non dai biglietti d’ingresso al concerto; — rispose la contessa Adriana. — Per me, ci sto volentieri. —
L’idea, così naturalmente nata da una indiscrezione del commendator Matteini, ottenne tutti i voti, parendo quella di tutti. Concerto vocale e istrumentale, fiera di beneficenza, gara di pistola; perchè non anche un’accademia di scherma? La giunta veniva da sè; ma parve che la cavasse dalle profondità inesplorate della sua mente il divo Terenzio Spazzòli, che, dopo averla proposta, si offerse per mandare a prendere gli arnesi occorrenti.
— Se permette, ci penso io; — disse Filippo; — tanto, non ho niente da fare. Sciabole, guantoni; maschere; ci sarà tutto. Così, negli intermezzi del concerto, si potrà fare qualche assalto. Che cosa ne dice, signor Dal Ciotto? Le garba?
— Sì, molto; — rispose quell’altro, lasciando cader le parole dall’alto, come un uomo annoiato. — Quantunque, preferirei la spada. È arma più elegante.
— Ha ragione; ma non bisogna rinunziare alla varietà, nè all’idea di contentare tutti i gusti. Ci saranno anche i fioretti. Anzi, se mi gradisce, mi offro fin d’ora a Lei per il primo assalto. —
Enrico Dal Ciotto fece un gesto cerimonioso d’assenso.
— Benissimo! — esclamò la contessa Adriana. — Tutti dunque a lavoro. E voi Morelli?
— Un povero poeta, signora.... Che cosa potrebbe far egli?
— Il prologo del concerto, non vi pare! Un prologo in versi; è cosa da poeti, per l’appunto. Vi sentite?
— Ubbidirò; ma chi vorrà recitarlo?
— Le signorine Berti mi paiono già destinate ad ordinare la fiera. La signorina Wilson, che non ha ancora aperto bocca, potrebbe incaricarsene lei.
— Bene, sì, Kitty! — gridano le Berti. — Lo recita Kitty.
— No, — risponde la signorina Wilson, — non mi sento da tanto. Perchè non puoi recitarlo tu, Adriana?
— Se non vuoi tu, se altre non vogliono, dovrò bene adattarmi a recitarlo io; — conchiuse la contessa. — Purchè il signor Morelli non mi faccia dei versi troppo difficili, come usano ora! Ho poca ritenitiva, e in quello che non capisco mi ci confondo troppo. Ancora, vorrei che i versi fossero rimati a due a due, per aiutar meglio la memoria.
— Sarà fatto come volete, e come avete il diritto di volere, poichè vi piace di recitare una mia composizione, che sarà, al solito, una birbonata. —
L’allusione va al mio Aristarco, che non batte palpebra, ma è verde dalla rabbia. Oh povero Dal Ciotto! e perchè non gliel han detto a lui, di scrivere il prologo? Ne avremmo sentite delle belline.
Egli, del resto, si è quasi scelta da sè la sua parte, tra gli uomini d’arme, e non bisognerebbe incomodarlo per altri uffizi. I suoi due compagni di satellizio hanno accettato di aiutare le signorine Berti nella invenzione dei premii umoristici, per la inevitabile lotteria che accompagna le fiere di beneficenza; ed anzi ne è la chiave di volta, dove scarseggiano le venditrici lusinghiere, onnipotenti, e le borse disposte a lasciarsi taglieggiare. Il commendator Matteini s’incarica di scrivere i numeri nei polizzini da estrarre. Quanto alle carabattole da mettere in vendita, ne promettono tutti la parte loro; e certamente vuol essere una ricca mèsse di novità, di archilèi, di gingilli, di cianciafruscole, di balocchi, di piccole utilità ed anche di inutilità, per le quali si spoglieranno tutte le botteghe dei paesi vicini, incominciando da Dusiana. Il concerto, per la parte istrumentale, avrà il sostegno della banda che ho scritturata io, con tanta prontezza, levata a cielo dalle signore: ma ci saranno anche i tre mandolini delle Berti. Non sapevo ancora di questa dote musicale delle signorine; ma già, qual è oramai la casa signorile dove non trionfi il mandolino, accanto al pianoforte? E con accompagnamento di due mandolini, la maggiore delle Berti, deposto per un istante il suo, canterà due canzoncine spagnuole; magari quattro, se ad ognuna delle prime ci sarà la richiesta del bis.
Abbiamo dunque già imbastito e messo in carta ogni cosa. Ci potranno essere delle varianti, delle aggiunte, delle sostituzioni, ma nel complesso ci troviamo ormeggiati. Manca il luogo adatto per il triplice trattenimento, e a me sovviene la filanda, chiusa da parecchi anni, che si potrebbe ottenere assai facilmente, in grazia del santissimo fine. Andiamo per intanto a visitarla: nella morente luce del crepuscolo vediamo quanto basta per collocare coll’immaginazione trecento persone entro la gran sala squallida, che si potrà rinfrescare d’una man di bianco e ornare alla meglio con frasche di castagno e coi quadri dell’Asilo. La fiera si potrà mettere, per maggior comodità dei Corsennati, sotto gli archi del porticato; il tiro di pistola, in fondo al cortile. Tutto bene, adunque, anzi all right, come ho detto stasera, chiudendo i lavori della seduta preliminare. La signorina Wilson non potrà dire che sto disimparando l’inglese.
— Hai sentito? — mi bisbiglia Filippo, mentre siamo in cammino per ritornarcene al Giardinetto. — La spada è arma più elegante. Caro! te la darò io, l’eleganza! Ma come c’è cascato bene! come ci son cascati tutti! E bisogna darne merito al commendator Matteini, con quella sua scoperta degli spari, che a te, m’immagino, sarà parsa a tutta prima un’indiscrezione pericolosa. Avremo dunque tiro di pistola, assalti di sciabola, assalti di spada, e senza lasciar credere che la proposta venisse da noi. Vedrò dunque la spada di questo Dal Ciotto. Ma anche tu, bello mio, da domattina, devi lavorar bene a rifarti la mano. Ci hai otto giorni per esercitarti; e tanto faremo, che conteranno per sedici, magari per trentadue. —
25 agosto 18...
Ed anche per sessantaquattro; tanto si è battagliato, dalla mattina alla sera. Mio povero e caro Don Juan, non ti ho più aggiunto un verso, non ti ho più consacrato un pensiero. Ma già, vedi bene che non ho avuto neanche il tempo di scrivere una riga nel mio memoriale. Pure, dei versi, ne ho fatti. Ma quelli, come dispensarmi dal farli? Avrei voluto veder te, cavaliere garbato, quantunque briccone, se Donna Elvira o Donna Sol ti avesse ipotecato per iscriverle il prologo d’una accademia di beneficenza. Sarebbero stati versi diligentemente torniti, non è vero? versi sonanti, galoppanti a coppie, versi d’arte mayor, colla speranza di averne il premio, di dare il millesimo e quarto nome alla lista spagnuola del tuo servitore Leporello. Io ho scritto per niente, vedi; non avrei presa la penna, se ci fosse stata l’illusione del premio. Ma già, io sono un cavaliere indegno di te; fors’anche indegno di cantar le tue gesta, a quei carissimi posteri che danno tanto sui nervi a Filippo.
Questo prologo è stato il lavoro di una mattinata, e temo che sarà una birbonata senz’altro. Ma non potevo neanche tenermi troppo alto, lavorar di fine, che avrei dato nel difficile; e il difficile alla contessa Adriana non piace. Così è stata contenta; contenta lei, dovrebbero dichiararsi contenti anche gli altri. E poi, subito ai ferri. Tutti i giorni, dopo aver battagliato quattr’ore del mattino, prima di battagliare altre quattr’ore del pomeriggio, alternando la sciabola colla spada, e tutt’e due colla pistola, me ne vado pedinando fino al Roccolo. È necessario, poichè devo imbeccare il prologo alla mia recitante novellina. Curiosa declamatrice! e come mi fa disperare! Quando parla, è naturale; quando recita, mi piglia un tuono e una cantilena da disgradarne un canonico in coro. Ci ha pure la voce nasale, che Iddio ci perdoni a tutti. Se almeno si contentasse di cantare! È il difetto naturale dei martelliani; il metro a cui ho dovuto attenermi, essendo il martelliano il verso dei prologhi. Perchè, poi? Forse perchè il martelliano, dal Goldoni e dal Chiari in giù, pare che si accompagni meglio colla cipria; ed è carità incipriata quella che fanno le nostre signore nei loro concerti, accademie, fiere e lotterie di beneficenza. “È carità fiorita„ non se ne dubita nemmeno “che rallegrando il cuore santifica la vita„. E i bambini cari? Oh, ci ho messi anche quelli, mi ci sono dilungato “sulle bionde testine, speranze di Corsenna; gran terra, le cui lodi si lascian nella penna; notando solamente, per non parervi senza la virtù così rara della riconoscenza, che non abbiam ricordo d’un angolo di mondo così verde e tranquillo, così caro e giocondo„. Ah sì, giocondo davvero! e caro, poi, caro come i miei martelliani.
Quest’oggi, salito al Roccolo per la penultima prova, gran novità; ci ho trovata la signorina Wilson. Ha aperte le labbra e socchiusi gli occhi ad un risolino malizioso; poi mi è diventata di sasso. Pure, vedendo lei, avevo detto subito alla padrona di casa:
— Ah, bene; sono felice che sia qui la signorina Kathleen. —
Ella non ignora che preferisco il nome di Kathleen a quello di Kitty. Ma neanche questo è bastato a rabbonirla.
— Perchè? — mi domandava frattanto la contessa Adriana.
— Perchè recitando il prologo avrete oggi per la prima volta l’idea di trovarvi davanti al gentile uditorio. Finora non avete avuto da recitare che davanti al maestro; chiamiamolo pure così. —
La contessa Adriana non badò più che tanto alla mia sottile trovata. Badandoci un poco, avrebbe potuto rispondermi: “Vi è venuta ora, l’idea? Non siete voi, signor Morelli degnissimo, voi per l’appunto, che non avete voluto nessuno alle prove? neanche i miei poveri satelliti, che per il vostro capriccio hanno dovuto cangiar l’orario della prima visita? E ce n’è voluto, sapete, a persuaderli, tanto erano pieni di stizza!„ Così avrebbe potuto rispondermi, la signora del prologo. Ma ecco che cosa avrei potuto replicarle io, e con un gusto matto:
— Quei vostri satelliti io non li posso patire. E non già perché vi fanno la corte, badate, ma perché mi dan noia. Non verrei da voi, signora mia gentilissima, se non fosse la speranza di farne uscire qualcheduno dai gangheri. Non voglio che nessuno s’immagini di potermi metter paura, capite? Per ciò che riguarda voi e la vostra bellezza, quanto più ci penso, tanto più mi avvedo di amar Galatea. Sicuro, Galatea; non sapete chi è Galatea? Una gran birichina, che m’ha scagliato un pomo, e poi è fuggita. Et fugit ad salices. E mi fugge, insieme con lei, anche quel malandrino di Buci; l’ingrato, ch’ella si tira sempre sull’orma. Dove vanno, ora? Non so; non riesco a indovinarlo; certo, non vanno all’Acqua Ascosa, dove son ritornato tante volte, senza aver mai la fortuna di combinarli, dopo quella gita fatale con voi e dopo il mio stratagemma molto innocente e punto necessario. Ah, signora, se sapeste come mi avete dato noia con quell’incontro casuale al mulino, dove io passavo col mio Teocrito in tasca, e pensando a voi come al gran Cane dei Tartari! Quella passeggiata fu l’origine di tutte le mie disgrazie. Faccio l’uomo, m’irrigidisco sotto la maschera, sto sulla mia; ma non sono contento di me, com’è vero Dio, non sono contento di me. Passar io per un vostro adoratore! Ma fossi matto! Con tutta la vostra bellezza, consacro il vostro capo agli Dei infernali. Il punto d’onore mi trattenne accanto a voi, il maledetto punto d’onore; ed ora anche il prologo, che bisogna imbeccarvi con tanta fatica, avendo le orecchie intronate dalle vostre cantilene corali, dalle vostre inflessioni nasali. Maledettissimo prologo, che la signorina Galatea non ha voluto recitare! —
Mi avrebbe lasciato giungere fin qua, la signora contessa? Credo di no. Se mi avesse lasciato parlare così, le avrei detto ancora:
— Perchè (vedete, signora?) voi siete stata la pietra di paragone. Proprio di questi giorni, legato in apparenza al vostro carro, ho capito me stesso. E l’altro dì, quando Filippo, ritornato dal Roccolo, mi ha raccontato che gli avevate fatte tante moine, di quelle che sapete far voi, neanche una fibra si è scossa in tutto il mio essere, non un capello si è mosso. L’amico mi ha soggiunto che voi gli diceste assai bene di me, ma con certe restrizioni intorno al mio carattere; e l’unica pena che io ne ho sentita è stata quella che di restrizioni non ne aveste fatte di più. Sappiatelo bene; avevo bisogno di voi per intendere come sia maravigliosa la semplice bellezza di Galatea. Voi ci avete la fosforescenza, bellezza di lucciola, a cui è necessario il contorno dell’ombra. Non dico che non siate bella anche al sole; parlo così per necessità di compiere il paragone; intendo di dire che alla vostra bellezza è necessario l’accompagnamento delle abbigliature, delle acconciature, degli artifizi della moda. Tutto vi sta bene egualmente, lo so; ma nel fatto non siete che un magnifico figurino, anzi diciamo uno splendido modello di vimini, fatto a pennello nei suoi contorni, per uso delle modiste. Quando si è capito ciò, non occorre più altro. E si capisce in capo a tre giorni; dopo il qual termine la vostra bellezza non dice più nulla ad uno che abbia conosciuto Galatea, cioè la donna vera e la ninfa, il frutto primaticcio che ha sapore in se stesso e non dallo zucchero in cui bisogna giulebbarne tanti altri, il flore che ha una fragranza sua, senza bisogno di opoponax e di pelle di Spagna. —
Che orrore! direste. Ma io, arrivato a questo punto vorrei proseguire:
— Notate che vedo e riconosco i difetti di Galatea. Ne ha; oh se ne ha! Quella sua passione per tutti i giuochi, per tutti i divertimenti! Bisogno irrefrenabile di moto, lo capisco; ma io, se fossi padrone di quel cuore, non vorrei tanto moto, non vorrei tutto quel vivere fuori del guscio, come fa l’argonauta; vorrei meno racchette, meno remi, meno tuffi in acqua, meno balli, e un po’ più di languore femmineo. Ma è così giovane! più giovane del vero. Infatti, potrà avere vent’anni d’età; e frattanto il suo pensiero ne ha quindici, con tutte le mariuolerie, le impertinenze, i dispettucci di una bambina. Ah, scellerata! non vorrei confessarlo, e l’adoro. Guai a me, contessa, se queste cose io le dicessi a voi. Ma le scrivo nel mio memoriale, un libro che apro io solo, che dovrò leggere io solo. E qui, tanto per pigliarmene una satolla, aggiungo volentieri: Long live the queen of my heart! hurrah for Galathea! Galathea for ever! —