Faust/Parte prima/Studio (I)
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Traduzione dal tedesco di Giovita Scalvini, Giuseppe Gazzino (1835-1857)
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STUDIO.
FAUSTO entrando col barbone.
Ho lasciato le praterie ed i campi velati dall’ombre della notte, la quale empie la nostra anima di una segreta riverenza e di non so che pii presentimenti. Ora veglia in me la parte migliore di mia natura; le mie bieche voglie si riposano, e con esse ogni audacia alle male opere. Mi riarde nel petto l’amore degli uomini; riardemi l’amore di Dio.
Sta cheto, barbone! non correre così in qua e in là! E che vai tu odorando costì presso al limitare? Ti adagia dietro la stufa; ed eccoti il più soffice de’ miei cuscini. Poichè fuori sulla via del monte ci hai ricreati con balli e con giravolte, sii ora il ben venuto; goditi le mie cure, e sta cheto.
Ah! al soave riardere della lucerna nella nostra povera cella, un dolce sereno si diffonde pure nell’anima nostra, e l’uomo si raffronta con sè medesimo: la ragione ripiglia il suo discorso, e torna a fiorire la speranza. Noi aneliamo di bere alle fontane della vita, — oh, al gorgo profondo dal quale scaturisce ogni nostro refrigerio.
Barbone, non fare quegli urli! Il tuo bestiale guaire mal può accordarsi con la santa intonazione che ora mi comprende tutta l’anima. Ben sogliono gli uomini schernire quello che non intendono; e gli udiamo mormorare contro il bello e l’onesto che spesse volte son loro di noia: ora vuol forse anche il cane col suo schiattire imitarli? Ma, oimė! che col miglior volere del mondo, io sento già esaurita la contentezza del mio petto. Ah, perchè dee così tosto inaridirsene la fonte, prima che sia pur mitigata la nostra sete? Quante volte ho già sperimentalo il medesimo! E non pertanto questo difetto non è senzacompenso, poichè, delusi dalle cose caduche, noi leviamo la mente alle eterne, e sentiamo bisogno della rivelazione, la quale in niuna cosa splende così bella e mirabile come nelle carte del Nuovo Testamento. Mi prende desiderio di aprire il testo, e con retto animo tradurre il santo originale nel mio dolce tedesco. (Apre il volume e si dispone a ciò.)
Egli sta scritto: «Nel principio era la parola.» Ecco io sono già impacciato! E chi m’aiuterà ad uscirne? No, io non posso stimare sì alto la parola; e se lo Spirito degna illuminarmi, mi bisogna tradurre diversamente. Sta scritto: «Nel principio era la mente.» Bada bene al primo verso, deh, che la tua penna non precipiti! può egli la mente tutto produrre, e informare? Forse starà meglio così: «Nel principio era la possanza.» Ed ecco por nell’alto ch’io scrivo questo, io mi sento da non so che avvertire che non devo contentarmene. Or sì il cielo mi aiuta da vero! lo prendo pur una volta consiglio, e animosamente scrivo: «Nel principio era l’alto.»
Barbone! se io devo ricoverarti nella mia stanza, cessa oramai di ululare, cessa di abbaiare. Io non so patire intorno a me un tanto scompiglio; e l’uno di noi due ha da sgombrare la cella. Di mal cuore vengo al partito di violare la ragione dell’ospizio: la porta è aperta, e sei libero di andartene. Ma è che veggio? Son tali cose possibili in natura? È ombra — o è realtà? Ve’ come il mio barbone diviene grande e grosso! Egli si leva tremendo, e omai non ha piú forma alcuna di cane. Che razza di spettro mi son io messo in casa! Già già uguaglia un ippopotamo con occhi di fuoco e fauci spaventevoli. Oh, tu sei mio di certo! Per simili spurie generazioni dell’inferno la chiave di Salomone è il caso.
Spiriti nel corridoio.
Uno quiv’entro è preso!
Deh, state fuor chè non v’incolga male.
Come volpe nel laccio
Che al valico l’è teso,
Una vecchia, infernale
Lince sta sbigottita in grande impaccio.
Ma lesti l’ale,
Spirti, spiegate,
Su, svolazzate
In qua ed in là,
E scioglierassi.
Vuolsi aiutarlo,
Veder di trarlo
A libertà.
Quel che a lui fassi
È di dovere,
Chè anch’ei piacere.
Sempre ne fa.
Fausto. Primieramente per affrontare la belva mi convien adoperare lo scongiuro dei quattro:
Salamandra ha da infocarsi,
Ondina volversi,
Silfo dissolversi
E Coboldo affaticarsi.
Chi non conoscesse gli elementi, nè le virtù e qualità loro, non avrebbe nessun dominio sugli spiriti.
Salamandra, t’accendi!
Ondina, scorri in garrulo ruscello!
E tu, Silfo, in un bello
Aerio segno splendi!
Incubo! Incubo, deh mi porgi aila!
Entrami in casa e fammela spedita.
Nessuno dei quattro è nella belva; giacesi immobile, e mi guarda digrignando i denti: non le ho ancora torto un pelo. Ora mi odrai scongiurare più forte.
Sei tu un de’ demoni?
Un disertor del maladetto regno?
Or mira questo segno,
Che paventano e inchinano
Le nere legioni.
Già gonfia tutto, ed ha irti i peli.
Spirito riprovato,
Puoi tu la vista affiggere
In questo? Egli è il vivente,
L’eterno, l’increato,
Il diffuso per l’etere,
Quei che spietatamente
Fu dall’uom trapassato.
Riserratosi tra la stufa e il muro egli continua a gonfiare simile a un elefante; già ingombra ogni spazio, e si risolverà tosto in nebbia. Oh, non andarmi ad urtare il soffitto! Pònti a’ piè del tuo signore; ben tu vedi ch’io non minaccio invano. Or sì ch’io l’abbrustisco col fuoco sacro! Vien qui, dico, non aspettare la rovente triplice luce; non ch’io faccia la più terribile delle mie arti.
Mefistofele. (Mentre la nebbia si dissipa, egli esce di dietro alla stufa nella veste di uno scolastico errante.) A che tanto fracasso? Che posso fare in vostro servigio?
Fausto. Ora è dunque il midollo del barbone questo? Uno scolastico errante! Io non so tenermi di ridere a tanta stranezza.
Mefistofele. Buon dì, mio dotto signore. In mia fe’ che mi avete fatto sudare.
Fausto. Come hai tu nome?
Mefistofele. Simile inchiesta mi par frivola troppo in bocca d’un sì gran disprezzatore della parola, di tale che, rifuggendo dalle apparenze, vuol sempre penetrare all’occulta essenza delle cose.
Fausto. Coi galantuomini pari vostri si può d’ordinario arguire dal nome l’essenza; da che siete subito chiariti quando vi udiamo nominare diomosche, o corruttore, o bugiardo. Alle corte, chi sei tu?
Mefistofele. Io mi son parte di quella possanza che vuole continuamente il male, e continuamente produce il bene.
Fausto. Che vuol dire questo arzigogolo?
Mefistofele. Sono lo spirito che nega continuamente; ed è ragione; però che quanto sussiste è degno che sia subissato; e sarebbe stato pur meglio che niuna cosa fosse mai uscita ad esistenza. Or dunque tutto ciò che voi uomini dite peccato, distruzione, quel che in somma chiamate male, è mio special elemento.
Fausto. Tu di’ che sei parte, e nondimeno mi stai innanzi intero.
Mefistofele. Io ti parlo modestamente il vero. Se l’uomo, quella meschina congerie di pazzie, si dà ad intendere ch’egli sia un tutto; io son parte della parte che nel principio era ogni cosa: son parte delle tenebre che partorirono la luce; quella luce che, salita in orgoglio, ora contende la prisca dignità e i campi dello spazio a sua madre la notte. Ma indarno par sempre, comechè vi si affatichi; e impedita lambe le forme dei corpi, scaturisce dai corpi, non abbellisce che i corpi, ed è dai corpi attraversata nella sua via; laonde ho speranza che non durerà lungamente, e le bisognerà coi corpi perire.
Fausto. Ora conosco il tuo degno ministero. Tu non puoi annullare niuna cosa di grande, e però te la pigli con le minuzie.
Mefistofele. E, per dir vero, io non ho fatto gran lavoro insino a qui; questo non so che cosa, che si oppone perpetuamente al nulla, questo massiccio mondo, per mille prove ch’io abbia fatto, non ho ancor saputo in nessuna guisa azzannarlo. Vi ho adoperato e tremuoti e procelle, e diluvi ed incendii; e terra e mare si ricompongono pur sempre nella quiete di prima. E nè pure ho saputo dare alcuno storpio a questa dannata semenza degli uomini e de’ bruti! Quanti non ne ho io già seppelliti di costoro! e sempre circola nuovo e prospero sangue; e tutto tira innanzi di modo, ch’io sono talvolta sull’impazzire. E non pur dalla terra, ma dall’acqua e dall’aria si svolgono continuamente migliaia di germi; e dal secco e dall’umido, e dal caldo e dal freddo; e s’io non mi fossi riservata la fiamma, io non potrei dire di nessuna cosa: Questa è mia.
Fausto. In tal guisa alla benefica virtù, che muove e governa tutte le cose, tu opponi il tuo rigido artiglio, e brancichi malignamente qua e là, e afferri pur sempre il vano. Pònti a far altro, o stravagante figliuolo del Caos.
Mefistofele. Di questo ragioneremo più distesamente con miglior agio. Poss’io andarmene ora?
Fausto. Non so perchè tu me ne richiegga; ed ora che ho la tua conoscenza, vientene pure a me ogni volta che vuoi. Or eccoli la finestra, eccoti la porta, e, se più ti piace, eccoti anche la gola del cammino.
Mefistofele. Ho io a dirlo? Evvi un ostacoletto che m’impedisce di uscire, ed è quel piè di strega qua sulla soglia.
Fausto. Quel pentagramma li dà affanno? Or dimmi, mala razza, se questo ora ti attraversa l’uscita, come hai tu potuto entrare? come uno spirito par tuo ha potuto dare nella rete da sė?
Mefistofele. Miralo bene, e vedrai che egli è mal descritto; l’angolo che dà in fuori è tanto o quanto aperto.
Fausto. Egli è un bell’accidente questo! E tu saresti quindi mio prigioniere? La fortuna me l’ha data in favore.
Mefistofele. Il barbone nel saltar dentro non attese a nulla; ma ora sta di un altro modo; e il diavolo non può andar via.
Fausto. E perchè non esci per la finestra?
Mefistofele. È legge de’ diavoli e degli spettri, che di dove e’ si sono cacciati dentro, di là sbuchino fuori. L’entrata è libera, ma l’uscita è d’obbligo.
Fausto. Laonde anche l’inferno ha le sue leggi? Io ne son lieto; perocchè, chi facesse patto con alcuno di voi, n’andrebbe sicuro, non è vero?
Mefistofele. Tu godresti largamente di quanto li fosse promesso; non te ne sarebbe carpito un menomissimo che; ma non è lieve cosa a comprendersi; e di ciò pure si vorrà parlare in tempo più comodo. Ora io li riprego quanto so e posso che tu voglia mettermi fuori.
Fausto. Rimanti un altro poco, ch’io voglio che tu mi faccia la ventura.
Mefistofele. Deh, scioglimi, ch’io torneró fra breve, e tu potrai allora interrogarmi a tua posta.
Fausto. Io non ti ho teso gli agguati; ti sei allacciato da te; e chi tiene il diavolo lo custodisca, chè non gli verrà fatt di ripigliarlo così di leggieri.
Mefistofele. Perchè li piace, eccomi disposto a starmene teco; con tal patto ch’io potrò fare le mie arti per tuo dolce passatempo.
Fausto. Fa che vuoi, ch’io sto volentieri a vedere: sol bada che coteste tue arti sieno sollazzevoli.
Mefistofele. I tuoi sensi, amico, faranno maggior tesoro in questa breve ora, che non altrimenti nel pigro giro di un anno. Quanto i leggiadri miei spiritelli ti canteranno, le belle visioni che ti porranno innanzi non sono ombra e giuoco di magia. Tu t’inebbrierai di odori, delizierai fra sapori, e immestirai per dolcissimo struggimento. Non fa bisogno di apparecchi, che noi siamo già ragunati. Orsù, incominciate.
Spiriti. Sparite, oscure vòlte,
Archi tetri che velo
Fate all’aerio giro!
E tu, puro zaffiro
Del luminoso cielo,
T’apri e qui entro invia
La tua luce piú dia.
Oh fossero pur sciolte
Quelle nuvole folte!
Sfavillan delle stelle
Le soavi fiammelle,
Ardon benigni Soli.
E il bello eterio coro
De’ celesti figliuoli
Move tremoli giri,
Pende sull’ali d’oro,
E giú arridendo un riso
Ritorna al paradiso.
Lo stuolo genïale
Segue de’ bei diletti,
Che sì dolci desiri
Accendono nei petti. —
Tu sgombra i pensier mesti
E la leggiadra godi
Visione, o mortale. —
I volubili nodi
Delle discinte vesti
Son per le fronde sparsi,
Velan l’erba dei prati.
Fra i cespugli a celarsi
Van gli amanti beati,
E come il dolce errore
Li seduce del core
E il desio li governa,
Si promettono eterna
Fede ed eterno amore.
Fresche ombre, antri segreti,
Culte colline, e lieti
Pampinosi vigneti!
Bruni turgidi grappoli
Si stillano dai torcoli,
E odorosi, spumosi,
Lieti, nettarei vini
In ruscelli traboccano
Per sassi preziosi,
Per topazi e rubini,
Fuggon l’alte pendici,
E alle verdi pianure
Si dilagano intorno
Le stanze de’ viventi,
Di alcune ore felici
Consolando le cure
Assidue delle menti.
E del lume del giorno
S’inebbriano i volanti,
E l’ali infaticate
Aprono incontro al Sole;
Volano alle beate
Isole che su l’onde
Fan leggiadre carole.
Ivi son suoni e canti
Di festevoli cori;
Ivi sono gioconde
Danze di danzatori.
Ognun suo vario affetto
Segue; ognun per l’aperto
Coglie facil diletto.
E qual move per l’erto
Alle montane vette,
Quale a nuoto si melle
Nell’immenso dei flulti.
Altri per le correnti
Erra dell’aria; e tutti
Della vita nel giubilo;
Tutti sotto i clementi
Astri, onde piove amore,
Onde piove favore.
Mefistofele. Egli dorme! Assai bene, miei teneri aerei fanciulli; voi me l’avete bellamente sopito con amabile cantilena, e ve ne so grado. — Tu non sei ancora uomo da tener legato il diavolo. Volteggiategli ora dintorno con giocose immagini di sogni: sommergetelo in un mare d’illusioni. Se non che per rompere l’incanto di questa soglia io ho pur bisogno del dente di un topo. Ve’, non mi occorre scongiurar lungamente; già ne sgambella uno a questa volta che mi darà subito retta.
Il signore dei sorci e dei topi, delle mosche, delle rane, de cimici e de’ pidocchi, ti comanda di farti in qua e di rodere questo sogliare li dov’egli te l’ha stroppicciato con olio. — Ecco già tu vieni a salti. Or animo al lavoro! La punta che mi dà impaccio è codesto estremo lembo: su, dàlle di un altro morso; ecco fatto. Ora, Fausto, sogna a tua posta, fino a che ci riveggiamo.
Fausto svegliandosi. Sono io un’altra volta deluso? Dov’è lo stuolo degli spiriti? dove i fantasmi? Fu un bugiardo sogno quel diavolo? ed era veramente un barbone colui che si è trafugato?