Faust/Parte prima/Dinanzi la porta della città

Dinanzi la porta della città

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Johann Wolfgang von Goethe - Faust (1808)
Traduzione dal tedesco di Giovita Scalvini, Giuseppe Gazzino (1835-1857)
Dinanzi la porta della città
Parte prima - Notte. Stanza gotica a volta alta ed angusta Parte prima - Studio
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DINANZI LA PORTA DELLA CITTÀ.


gente di ogni condizione che escono a diporto.

Alcuni operai. E perchè di là?

Altri. Noi andiamo alla Casa di caccia.

I primi. Noi vogliam ire al mulino, noi.

Un operaio. Fate a mio modo, venite al Cortile dell’acqua.

Un altro. La via non è dilettevole per là.

I secondi operai. E tu che fai?

Un terzo operaio. Io vo cogli altri.

Un quarto. Venite su a Burgdorfio, chè vi troverete fior di fanciulle, birra squisita, e brighe a vostra posta.

Un quinto. E non se’ tu ancor sazio? ti prudono per la terza volta le reni? Io non ci vengo; ho in orrore quel luogo.

Una fantesca. No, no! io torno in città. [p. 62 modifica]

Un’altra. Noi lo troveremo certamente fra quei pioppi.

La prima. Non è gran fortuna per me. Egli li starà sempre a lato: egli non danza che teco in sull’aia. E che fa a me il piacer tuo?

La seconda. Oggi, sta sicura, non sarà solo. Mi ha detto che il ricciutello verrebbe seco.

Uno studente. Ohe, ohe! come vanno a volo quelle vispe ragazzotte. Vien via lesto, che vedremo di metterci seco. Birra che frizzi, tabacco che morda e una servetta in gala, son quanto va meglio al mio umore.

Alcune signorine. Bel vedere che fanno que’ giovani! È proprio una vergogna. Potrebbero stare in compagnia onorevole, e vanno dietro a quelle fantesche.

Secondo studente al primo. Non correr sì forte! Ne abbiamo due costì dietro tutte leggiadre e attillate. Una è la mia vicina, ed io ne sono tanto o quanto invaghilo. Le vanno via chete chete con quei loro passini, ma io so che all’ultimo ne terrebbero in lor compagnia.

Il primo. Oibò! io non vo’ stare in soggezione. Su presto, che non perdiamo di traccia quelle altre. Quella mano che gira la granata il sabato, li accarezza più soave la domenica.

Un cittadino. No, il nuovo podestà non mi quadra punto. Da che è in carica, egli diviene ogni dì più secco e piú arrogante. E che ha egli poi fatto insino ad ora per la città? Forse non vassi di male in peggio in ogni cosa? Bisogna abbassare il capo più che mai, e pagare assai più che non fu mai in usanza. [p. 63 modifica]Un pezzente cantando.

          Cavalieri, e voi vezzose
       Dame tutte ornate e belle,
       Tutte fresche come rose
       E lucenti come stelle;
          Deh, attendete; deh, mirate!
       Sono un povero pezzente;
       Qualche aita, deh, mi date;
       Deh, non dite: Non ho niente.
          Deh, non piacciavi che invano
       Io trimpelli il mio lamento;
       Chi sa dar con larga mano,
       Prova al core gran contento.
          Deh, non dite: Un’altra volta;
       Oggi è di che ognun festeggia.
       Faccia anch’io buona ricolta;
       Anche al pover si proveggia.

Un altro cittadino. In quanto a me, nulla mi è più soave nei dì delle feste che lo andar conversando di guerra e di cose guerresche, ora che là dietro in Turchia, lontano da noi, le genti si tagliano a pezzi. E tu te ne stai alla finestra centellandone un bicchiere del buono, e guardando le barche che vanno giù a seconda pel fiume; e la sera ti riponi in casa, e benedici la pace di cui gode il paese.

Un terzo. Sì, mio signore; avvenga che può altrove, si fendano pure il capo a lor bel diletto, e mettano a soqquadro ogni cosa, purchè qui tutto continui ad andare all’antica.

Una vecchia alle signorine. Corbezzoli! che gale! che fiore di gioventů! Chi non ne perderebbe il capo? Su via, un po’ men di alterigia! un po’ più alla mano, [p. 64 modifica]e ben io saprò procurarvi ciò che vi sta più a cuore.

Una delle signorine. Vientene, Agata, ch’io non vo’ mostrarmi in pubblico con simili streghe. Bene è vero che la notte di Sant’Andrea ella mi fece vedere al vivo il mio futuro amante.

L’altra. E a me fece vedere il mio in uno specchio, in abito militare, fra altri leggiadri soldati. Io mi guardo d’attorno, e lo cerco qua e là, ma non mi vien fatto d’incontrarlo.

Soldati.

   Sempre ho nell’animo
       Ardui castelli,
       Altere vergini
       D’amor ribelli.
          Aspro è il travaglio
       Della tenzone,
       Ma bello e splendido
       Il guiderdone.
          Le trombe squillano;
       E sien di morte
       Nunzie, o di giubilo,
       Non cura il forte.
          Il forte godesi
       Nelle procelle;
       Castelli cedono,
       Cedon donzelle;
          Aspro è il travaglio
       Della tenzone,
       Ma bello e splendido
       Il guiderdone.
          Ed i soldati
       Sonsene andati.

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FAUSTO e VAGNER.

Fausto. I ruscelli e i torrenti si disvolgono sotto il soave vitale sguardo della primavera. La valle ride del colore della speranza; e il vecchio e debole inverno si va ritraendo sull’ispide cime dei monti. Di lassù ci manda ancora, nella sua fuga, qualche spruzzaglie di gelo sui teneri germogli dei prati. Ma il sole non comporta più alcuno squallore, e tutto vuol avvivare e abbellire; da per tutto la terra si apparecchia ad aprire il fecondo suo seno. La costiera non è ancor vestita di fiori, ma in lor vece è quell’adorna varietà di persone. Volgiti indietro da quest’altura a mirare verso la città; e vedi il popolo brulicare in calca fuori dell’oscuro arco della porta. Tutti escono a rifocillarsi al sole; tutti festeggiano la resurrezione del Signore, perchè essi pure sono risorti. Ora si sprigionano finalmente dalle grame stanze de’ loro abituri, dal triste tenore de’ mestieri e de’ traffici, dalla pressura de’ soffitti e delle acute tettoie, dall’angustia e lo storpio delle vie, e dalla notte veneranda delle chiese, e tutti tornano a rivedere l’amabile luce. Guarda, oh! guarda come rapidamente si spargono per giardini e per campi; come cento sollazzevoli barchelle discorrono, quale al lungo e quale al traverso, sul fiume, e come quell’ultimo schifo passa oltre, stracarico sino ad affondare. Su pei lontani sentieri del monte si veggono errare qua e là sfavillando i giocondi colori delle vesti; e già già io odo il trambusto del villaggio. Qui [p. 66 modifica]è veramente il paradiso del popolo; qui poveri e ricchi giubilano amicamente insieme; e qui io son uomo, qui godo di esser uomo.

Vagner. L’andare a spasso con voi, signor dottore, torna ad onore e a profitto; ma in vero io non mi terrei di mescermi da me solo fra simil torba, stante che io sono nemico capitale di tutto ciò che tiene del ruvido e del popolesco. Quel segare de’ violini, quello schiamazzare, quel dar ne’ birilli mi squarciano fieramente gli orecchi. Costoro tempestano come se gl’invasasse il demonio, e s’immaginano di cantare e darsi buon tempo.

CONTADINI sotto il tiglio. — Balli e canti.

          Il pastorel pel ballo si fe adorno;
       La ghirlanda dei fiori
       Ei mise al capo, e la nastriera attorno,
       E il giubboncel screziato a più colori:
       O, come egli era bello!
       Già sotto il tiglio era gran ragunata,
       E ballavano tutti all’impazzata.
                 Oh, oh! ah, ah!
                 Lirala tárala
                 Tirala là!

       Ed allegro strideva il violoncello.

          Ei si caccià nel circolo a gran fretta,
       E del gomito colse
       Ruvidamente in una foroselta,
       Che subito stizzita gli si volse,

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       E disse: Questi è snello!
       Vien tu pur mo del monte che si soffi?
       A me simil donzelli paion goffi.
                 Oh, oh! ah, ah!
                 Lírala tárala
                 Tirala là!

       Non esser de’ begli usi sì novello.

          Faceasi un grande dimenarsi intanto;
       A destra si ballava,
       Ballavasi a mancina e da ogni canto;
       E di man si giocava, e ne volava
       All’aria ogni guarnello.
       Soffiavan forte, al viso avean gli ardori,
       E provavan di strani pizzicori.
                 Oh, oh! ah, ah!
                 Lírala tárala
                 Tírala là!

       E la tenea per l’ànche il cattivello.

          Vergogna! via le mani a casa! O quanti,
       Oimė, già infinocchiate
       Hanno e diserte le credule amanti!
       Con parolette amorose e melate
       Ei la traea bel bello
       In disparte, e già udivan di lontano
       Sottesso il tiglio fervere il baccano.
                 Oh, oh! ah, ah!
                 Lírala tárala
                 Tirala lå!

       E gli strilli e il segar del violoncello.

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Un vecchio contadino. È pur bello, signor dottore, che non abbiate oggi a sdegno di uscire fra noi; è bello il vedere un sì gran sapiente prendersi diletto fra la calca del popolo. Toglietevi adunque questo bellissimo boccale che abbiamo empito di fresco. Sporgendolvi, io vi desidero di gran cuore che non vi accheti soltanto la sete; possiate ancora aggiugnere tanti giorni ai vostri giorni quante son gocciole in esso.

Fausto. Accetto la cortese offerta, e, rendendone grazie, bevo alla salute di tutti. (Il popolo gli fa cerchio intorno.)

Il vecchio contadino. Da vero avete fatto assai bene ad apparire in così lieto giorno. Voi foste, ben mi rimembra, l’amico nostro anche nei giorni tristi; e molti che son qui vivi furono da vostro padre campati dall’infuriare della febbre ardente, quand’egli mise un termine al contagio. Voi pure, tutto che giovinello, andavate per le case degl’infermi; molti cadaveri n’erano portati fuori, e voi n’uscivate sempre illeso. Siete stato a dure prove, ma al soccorritore è venuto soccorso da alto.

Tutti. Salute all’uomo provato! Possa egli lungamente ancora soccorrerne!

Fausto. Inchinatevi dinanzi a Colui che è lassú, però ch’egli insegna soccorrere, e manda il soccorso. (Egli passa oltre con Vagner.)

Vagner. Che sentimento debb’essere il tuo, o uomo grande, veggendoti ammirare da tanta moltitudine! Beato colui al quale è sì bene meritato dalle sue doti. Il padre ti addita al figlioletto; ognuno chiede di te, e accorre e si affolla intorno a te; i [p. 69 modifica]violini ammutiscono e si riposa la danza. Tu te ne vai, e tutti si ritraggono e ti fanno ala; le berrelle volano in aria, e per poco non si mettono in ginocchio come se passasse il Santissimo.

Fausto. Vieni oltre pochi passi sino a quel macigno, e quivi ci riposeremo della nostra via. Qui spesso io mi sono seduto solo, pensoso, macero dai digiuni e dalle orazioni; e qui ricco di speranza e fermo nella fede io mi pensava di poter pure colle lagrime, co’ gemiti e lo storcermi delle mani impetrar dal Signore la fine di quella mortalità. Ora il plauso di queste genti mi stride all’orecchio, simile ad uno scherno. O potessi tu leggere nel mio animo quanto padre e figlio sieno indegni di cosi fatto onore! Mio padre era un uomo da bene, ingegno corto, il quale a fine onesto, ma alla sua guisa, almanaccava notte e di intorno a la natura e l’eterno suo corso. Egli si chiudeva con alcuni adetti nella sua nera officina, e quivi con la scorta di ricette senza fine attendeva a mescere i contrari. Un lione rosso, amante senza ritegno, era maritato al giglio entro un tepido bagno, e quindi ambidue a fuoco scoperto tormentati e affaticati di talamo in talamo. Allora appariva nel vaso la giovinetta regina pezzata di vivi colori, e quella era la medicina, e i pazienti morivano, e niuno domandava chi fosse guarito. In tal modo con diabolici lattovari noi abbiamo per valli e per monti fatto a gara con la peste, e vintala di assai negli sterminii. Io medesimo ho dato bere il veleno alle migliaia. Ei se ne sono andati, e a me è toccato di sopravvivere affinchè l’impudente omicida fosse esaltato. [p. 70 modifica]

Vagner. Come potete voi dar luogo a simili affanni? Forse non basta che un uomo da bene eserciti in buona coscienza, e senza preterirne un sol punto, l’arte che gli fu affidata? Se da fanciullo onori tuo padre, tu hai caro di essere ammaestrato da lui; e se da uomo allarghi la scienza, tuo figlio potrà sorgere ancora più alto di te.

Fausto. O fortunato chi può sperare di non sommergere in questo pelago di errori! L’uomo sente bisogno di ciò che non sa, e non può far uso di quello che sa. Ma via, non turbiamo con sì tristi pensieri la soavità di quest’ora. Guarda colà come quei casolari sfavillano di mezzo al verde agli ultimi raggi del sole. Egli va oltre e vien meno; il giorno è vissuto. Ma per di là si affretta a rallegrare altre vite. Oh, perchè non ho io ali da levarmi alto di terra e tenergli dietro, sempre dietro infaticabilmente? lo vedrei sotto di me il tacito mondo continuamente saettato dai raggi della sera; infocarsi ogni vella, oscurare le valli, e l’argenteo ruscello mutare in oro le sue correnti. Nė la selvaggia montagna coi mille suoi gioghi romperebbe la mia foga, istancabile come il volgersi delle sfere. Già il mare scopre dinanzi a’ miei attoniti sguardi i roventi suoi golfi: il luminoso dio pare omai presso a tuffarvisi, ma io mi sospingo innanzi con maggior impeto, e seguo a bere l’eterna sua luce. Dinanzi a me è il giorno, dietro a me la notte, sul mio capo il cielo, e sotto l’oceano. Soave sogno! e, com’esso, il sole intanto si dilegua. Ahi, non è ala corporea che possa gareggiare coll’ali della mente. E nondimeno ogni uomo si sente nascer dentro una naturale vaghezza di muovere in [p. 71 modifica]qua e in là, e rigirarsi per l’aria, — quando la lodoletta, svagata per l’azzurra ampiezza del cielo, canta la sua garrula canzone; quando l’aquila con l’ali dilatate va rotando sugli acuti vertici dei pini che coronano i monti; e la grua, trasvolando su piagge e so mari, muove desiderosa verso il sito natale.

Vagner. Ho avuto anch’io qualche volta i miei ghiribizzi, ma di simili in verità non me ne sono mai andati pel capo. I boschi e i campi vengono leggermente in noia; nè io invidierò mai le ali degli uccelli. Ben altrimenti gode il nostro spirito quando va svolazzando di libro in libro e di pagina in pagina. Le notti del verno son fatte dolci e dilettevoli; ci sentiam andare per la persona non so che tepore pieno di vita; ed oh! se tu giugni a svolgere una preziosa pergamena, egli par proprio che ti si spalanchi innanzi il paradiso.

Fausto. Tu conosci sol uno degl’impulsi del cuore, ed oh, non imparare mai a conoscere l’altro! Misero! due anime albergano nel mio petto, e vi si guerreggiano continuamente, e l’una vorrebbe pure svilupparsi dall’altra. L’una con intenso, indomabile amore si tiene alla terra, e vi si aggrappa duramente cogli organi del corpo; l’altra si leva impetuosa su questo oscuro soggiorno verso le sedi dove abitano gli alti nostri progenitori. Oh, se vi sono spiriti al governo dell’aria, i quali errino fra il cielo e la terra, — deh uscite dall’auree vostre nubi, e calate a rapirmi seco voi nel giubilo di una nuova esistenza. Sì in vero! fossi io pur possessore di un mantello fatato che potesse trasportarmi in regioni [p. 72 modifica]sconosciute, ch’io non lo cangerei coi più ricchi vestimenti; non con le porpore dei re.

Vagner. Non invocate, deh, quella ben cognita legione che tempestando discorre per l’atmosfera, e da tutti i lati prepara agli uomini dolori e rovine. Gli spiriti escono addosso a te dal Settentrione, ed ora ti appuntano d’ogni intorno le acute lor sanne, ora ti lambono con lingue rigide come strali: traggono fuori da Levante, e sitibondi pascono il tuo polmone; e se quelli che il Mezzogiorno invia dal deserto ti addensano intorno al capo afa e bollori, un altro stormo ne viene da Ponente, i quali paiono da prima recarli ristoro, e poi sommergono le e le tue biade e i tuoi pascoli. Lieti ti danno ascolto, perchè sempre apparecchiati a mal fare; e lieti ti obbediscono, per che godono d’ingannarti. E diconsi ancora inviati del cielo, e bisbigliano con angeliche voci, quando appunto ti mentono. — Ma torniamcene, chè già incomincia ad annottare; l’aria fassi rigida, e si leva una folta nebbia. A sera conoscesi quanto sia dolce il ricettarsi in casa. — Ma perchè stai tu, e riguardi tutto attonito a quella volta?

Fausto. Vedi tu là quel cane nero che corre per le biade e le stoppie?

Vagner. Da un pezzo io il veggo, nè mi è parso che sia in esso nulla di singolare.

Fausto. Guardalo bene! Per chi prendi tu quella bestia?

Vagner. Per un can barbone che alla sua guisa va per la traccia dal suo padrone.

Fausto. Osservi tu come ei muova in larghe giravolte a chiocciola, e ognora più ne si accosti, [p. 73 modifica]proprio come se ci avesse tolti di mira? E s’io non erro, ei lascia dietro di sè sulla via una striscia di fuoco.

Vagner. Io non veggo altro che un barbone nero, io; se non che, può darsi che sia fatta qualche illusione ai vostri occhi.

Fausto. A me pare ch’egli ordisca intorno a noi come un sottilissimo nodo magico per quindi allacciarne.

Vagner. Ed io il veggo saltellarne dattorno tutto timido e sospettoso, perchè s’accorge di averci tolto in cambio.

Fausto. Egli ristrigne più e più i suoi giri; ah, egli è già qui presso!

Vagner. Tu vedi, egli è un cane e non un fantasma; egli mugola e dubita; si posa in sul ventre e mena la coda; tutte costumanze di cane.

Fausto. Te, te! vientene con noi.

Vagner. Egli è una faceta bestiuola il can barbone. Stai fermo, ed egli si assella ad aspettarti; gli fai cenno, e corre a te; se perdi qualcosa, ei te la reca; e se butti il bastone nell’acqua, va a guazzo a raccortelo.

Fausto. Tu hai ragione; non veggo in lui alcun indizio di spirito, e tutto proviene da addestramento.

Vagner. Quando un cane sia ben addestrato, egli si acquista l’amore anche del savio: e cotesto merita singolarmente la tua grazia; chè a quella sua compitezza ben si vede che egli è creatura degli studenti. (Entrano per la porta della città.)