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104 | eugenio anieghin |
placò e s’ammansò. L’abitudine è un gran tesoro largitoci dal cielo, in iscambio della felicità. L’abitudine adunque sopì quella angoscia, che nulla poteva mitigare. Una grande scoperta che essa fece terminò di consolarla. In mezzo alle faccende e agli ozi della villa, trovò un ottimo secreto per governare autocraticamente il consorte, e d’allora in avanti ogni cosa camminò a meraviglia.
Essa spezionava i lavoranti, salava i funghi per l’inverno, teneva il conto delle spese, radeva la testa ai giovani coscritti,1 andava al bagno il sabato, e quando era di mal umore picchiava le serve, senza mai chieder licenza al marito.
Scriveva col suo sangue negli album delle giovini amiche, cangiava per vezzo il nome di Prascovia in quello di Paolina; portava fascette molto strette, parlava con una cantilena, pronunziava la N russa col naso, come una N francese;2 ma tosto smesse tutto ciò, e dimenticò gli album, i versi teneri, la principessa Paolina e le fascette; chiamò bonariamente Aculca, la cameriera che prima chiamava Celina, e in somma, incominciò a far uso di scuffie semplici, e di gonnelle ovattate.
Il suo signore l’amava cordialmente; non s’immischiava mai nei di lei negozi, e aveva messa in lei una fiducia scevra d’ogni sospetto. Pranzavano ambedue in veste da camera. La vita loro scorreva in perfetta quiete. Talvolta, verso sera, i vicinanti s’adunavano a veglia, per pungersi fra loro, per dir male del pros-