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eugenio anieghin 99

agghiacciar quell’ardore, pensando fra sè: sarei insano e barbaro, se volessi rapirgli quella felicità momentanea. Pur troppo l’esperienza lo disingannerà. Lasciamogli quella sua fiducia nella perfezione umana e non estinguiamo anzi tempo quel fuoco giovenile; non dissipiamo senza necessità quei deliziosi errori.

Non v’era cosa che non servisse loro di testo a qualche controversia e che non li portasse alla riflessione. Le gesta delle generazioni antiche, i frutti della scienza, il bene e il male, i pregiudizi dei secoli, i funebri misteri della tomba, il destino e la vita, porgevano a vicenda ésca alle loro disquisizioni. Lenschi, nel calore della disputa, leggeva a modo di citazioni alcuni squarci di poemi nordici, e l’indulgente Anieghin li ascoltava con attenzione, sebbene da gran tempo li conoscesse.

Ma il più delle volte, soggetto dei loro trattenimenti erano le passioni. Eugenio, già da qualche tempo sfuggito a quella insolente tirannia, ne ragionava con un involontario sospiro di rincrescimento. Beato chi provò la violenza delle passioni e finalmente seppe sottrarsi al loro impero! Ma più felice colui che non le conobbe mai, che vinse l’amore colla fuga, e l’odio colla maldicenza! Di quando in quando egli sbadiglia cogli amici e colla moglie, non si lascia trasportare da gelosia e non mette a repentaglio sopra un asso il capitale tramandatogli dagli avi.

Quando stanchi della agitazione del mondo ci ricovriamo prudentemente sotto l’insegna della calma e del riposo; quando la fiamma che ci consumava è spenta; quando la febbre delle passioni, le loro estasi, le loro ubíe, i loro richiami tardivi, non