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eugenio anieghin 93

Anieghin si domiciliò nella stanza in cui suo zio per quaranta anni di seguito s’era affacciato alla finestra, aveva quistionato colla governante e acciaccato mosche.

Nessun lusso nelle suppellettili, pavimento di quercia, due scaffali, un tavolino, un divano di più ma senza alcuna macchia d’inchiostro. Anieghin aprì gli armadi: in uno trovò il quaderno della spesa; nell’altro una collezion di bottiglie di liquori e di cidro e un lunario dell’anno 1808. Il buon vecchio, aggravato da mille faccende, non leggeva altri libri.

Solo, in mezzo alle sue proprietà, Eugenio per accorciare il tempo, determinò di stabilire un ordine nuovo nella azienda del suo dominio. Filantropo segregato fralle selve, egli convertì in un lieve tributo annuo gli oblighi feudali;1 e il servo redento benedì il nuovo signore. Ma un possidente spilorcio e inumano sbuffò di rabbia all’annunzio di tale azione che considerava come una enormità. Un altro invece ne rise malignamente e ambedue s’accordarono in dichiarare Eugenio un matto pernicioso.

Dapprima tutti i vicinanti vennero a fargli visita; ma siccome tosto che udiva un droschi per la strada maestra Eugenio inforcava la sella d’un focoso stallone, i vicinanti sdegnati d’un tal comportamento ruppero l’amicizia. “Il nostro compare,” borbottavano essi, “è un ignorante, uno scapestrato, un frammassone. I suoi vini fini se li tracanna tutti lui; non bacia la mano alle signore; dice sempre e no; non

  1. In russo barsccinu, in francese corvée.