Ettore Fieramosca/Capitolo XIX
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Capitolo XIX.
Ad uguale distanza da Barletta e dal campo francese, dove la pianura accostandosi alle colline comincia ad elevarsi, si stende, fra certi monticelli bassi, un piano di circa trecento passi per ogni verso, formato probabilmente da qualche antica alluvione. Il terreno di minuta ghiaja e di sabbia silicea rassodato dal tempo è sgombro d’arbusti e d’erbe, ed offre alla zampa dei cavalli un andar franco e sicuro. Questo era il luogo scelto pel combattimento. Dal giorno innanzi per cura d’uomini mandati dalle due parti, fu livellato ove era qualche ineguaglianza di terreno; fissati i limiti con un solco e con grosse pietre disposte all’intorno; ed all’ombra di grandissimi lecci che crescevano sul ciglio d’un greppo, dal quale si dominava tutto il campo, vennero situati sedili pei giudici, sotto una specie di tenda, a strisce bianche e vermiglie annodata ai rami degli alberi. Avanti a questo tribunale eran piantate in fila alla vista di tutti ventisei lance cogli scudi degli uomini d’arme delle due nazioni, ed i loro nomi scritti a grandi lettere su un cartellone. Dalle terre e ville del contorno la curiosità aveva radunata gran folla di contadini e signorotti di campagna, che prima del levar del sole già si trovavano allogati per l’alture circonvicine. Quelli che fra loro tenevano un certo grado sedean coi vecchi e colle donne sull’erba; gli altri, come ragazzi, poveri, monelli, s’arrampicavano su per gli alberi, e mostrandosi qua e là fra le foglie facean contrastare col verde il colore de’ visi e de’ panni.
Bello spettacolo era (specialmente per chi ponendosi all’estremità del campo, volgesse le spalle all’interno delle terre ed il viso alla marina) il vedere una così ricca scena campestre ravvivata da tal moltitudine piena di tanto moto e di tanta vita; a destra elevarsi sul cielo le grandiose masse degli elci, ed al color cupo delle lor foglie mischiarsi il verde più vivace e gajo d’arboscelli minori; su un piano più lontano dietro questi, la terra di Quarato della quale si copriva soltanto la porta difesa da una torre addossata a rupi, al cui piede serpeggia la strada, in mezzo il campo, ed al di là il lido dell’Adriatico, la città e il castello di Barletta, e le forme colorite degli edifizi spiccate sulla tinta azzurra del mare; più lontano il ponte e l’isola di S. Orsola, gli alti gioghi del Gargano, e la linea dell’orizzonte; a manca poi le colline che a poco a poco si vengono alzando; e rimpetto al luogo destinato ai giudici, sovra un terreno disuguale vestito d’erba fresca, gruppi di altissime querce coi tronchi rivestiti d’edera, e nel pieno vigore, nella ricca vegetazione. La nebbia formatasi nella notte, squarciandosi alla brezza dell’aurora veleggiava delle regioni superiori dell’aria in nuvole di forme fantastiche, che già percosse dal sole ne rifrangevano i raggi indorati. Altre strisce di nebbia più densa restavano leggermente posate sulla pianura somigliando a letti di cotone bianchissimo, sovra i quali sorgevano qua e là gruppi d’alberi più alti, e le creste di qualche collinetta. Il desco del sole vicino ad uscir dal mare spandeva in cielo la sua luce rancia, lasciando muti gli oggetti terrestri, illuminati soltanto dal riflesso dell’atmosfera. Tutti gli spettatori avean come involontariamente gli occhi volti verso il punto dove stava per comparire. Sull’ultima linea del mare parve alla fine quasi generata una scintilla di luce vivissima; crebbe, prese forma, uscì il sole maestoso come un globo di fuoco, e diffuse la sua luce, che diede forma e colore agli oggetti, e si duplicava oscillando riflessa nel mare.
Una squadra di fanti venuta quivi per tempo teneva sgombro il campo dal popolo, che stava disperso in gruppi tutt’all’intorno, radunandosi più frequente nei luoghi ove molti venditori di comestibili e di vino avean tese le loro tende, ed alzati banchi e tavole. V’era fra questi l’oste del Sole, Veleno, che il lettore ben conosce, e che in uno dei luoghi più in vista aveva piantato il suo negozio ambulante sotto una frascata, alla quale già eran concorsi molti de’ soldati suoi soliti avventori: due o tre gran padelle da friggere eran al fuoco su altrettanti fornelli di ferro portatili; una tavola composta d’asse rosse, e connesse alla meglio su vari pali, che fitti nel suolo servivano di gambe, era coperta di canestroni di pesce, carciofi, ortaglie d’ogni genere da friggere. Egli, con due grembiuli e la berretta di bucato, colle maniche della camicia rimboccate sino alla spalla, teneva sotto il braccio la pentola da infarinare, in una mano il piatto col fritto ancor crudo, nell’altra le mollette per prenderlo, e s’affaccendava a preparar questo cibo tanto gradito agli Italiani meridionali, senza restar mai un momento dal cicalare, ridere, domandare e rispondere a tutti in una volta, e soltanto interrompeva a quando a quando questi dialoghi, o per cantar la bella Franceschina, o per gridar quanto n’avea nella canna: Ah che alici! Ah che alici! Son vive le trigliarelle! O non avete occhi, o non avete danari! ed altre simili inculcazioni che s’udivano da mezzo miglio lontano.
Alla fine un mormorar più forte della folla, che occupa i luoghi superiori, fece volgere a tutti il viso verso quella parte, e passando di bocca in bocca, giunse la nuova che già si scorgeva il drappello francese. Pochi minuti dopo compariva alla voltata d’una strada, che usciva di dietro una collina; ed avanzandosi, venne a porsi in battaglia nella parte superiore del campo, volgendo la fronte al mare. Scavalcati i guerrieri ed un centinajo e mezzo di compagni ed amici che eran con loro, lasciaron ai famigli i cavalli, e, saliti al luogo dei giudici, si dispersero sotto i lecci aspettando l’arrivo degli Italiani. Sulla strada di Barletta un nuvolo di polvere, fra il quale si potè presto distinguere il lampeggiar dell’armi, mostrò che non eran per farsi troppo aspettare. Le turbe sin allora disperse si strinsero ai confini della lizza, studiando ognuno di cacciarsi avanti, malgrado che i fanti di guardia, con que’ modi amorevoli che in ogni tempo ha sempre usato la soldatesca in simili occasioni, battendo sul suolo, e talvolta sulle punte dei piedi i calci delle ronche e delle picche, ricacciassero indietro l’onda che tentava di sopraffarli.
Giunsero gl’Italiani, si fermarono in faccia ai loro avversarj nell’ordinanza medesima, e scavalcati, salirono anch’essi sul rialzo degli elci.
Dopo i saluti e le cortesie scambievoli, il signor Prospero e Bajardo, che erano i due padrini, s’abboccarono e decisero che prima di tutto conveniva trarre a sorte i giudici.
Il lettore si maraviglierà, son certo, di non trovar il famoso Bajardo fra i combattenti in così importante occasione, e vederlo invece adempiere le parti di padrino: gli dirò dunque che non ne abbiam provata minor maraviglia di lui, nè sapremmo formar su questo fatto altra congettura, se non supporre che qualche ferita non interamente sanata gl’impedisse di trattar l’armi, o che forse la quartana che lo travagliava in quel tempo troppo gli scemasse le forze; a ogni modo sappiamo certissimo che egli non era fra i campioni.
Scritti dunque i nomi di alcuni caporali de’ due eserciti spagnuoli, francesi ed italiani in egual numero; rotolati i brevi, e posti in un elmo, cadde la sorte su Fabrizio Colonna, Obignì e Diego Garcia di Paredes; i quali, sedendo al luogo preparato per loro, aprirono su una tavola il libro de’ vangeli, e ricevettero il giuramento de’ ventisei guerrieri, col quale s’impegnavano a non adoperar frode nel combattere, asserivano non aver incanti nè sui loro corpi, nè sull’arme, ed incontrar quel cimento valendosi della sola virtù e delle forze naturali. Furon letti di nuovo ad alta voce i patti coi quali si rimaneva d’accordo che ogni uomo potesse riscattar sè, l’arme e ’l cavallo mediante cento ducati, ed uno fra gl’Italiani, votando sulla tavola il sacco del danaro che avean recato, lo contò e lo consegnò ai giudici. S’aspettava quindi che i Francesi facessero altrettanto: visto che nessuno si moveva, Prospero Colonna disse loro più modestamente che potè: — Signori, e il vostro danaro?
Si fece avanti La Motta, e rispose sorridendo:
— Signor Prospero, vedrete che questo basterà.
Montò la stizza al barone romano per la millanteria inopportuna, ma si frenò, e disse soltanto: Prima di vender la pelle conviene ammazzar l’orso. Ma non importa; e quantunque fosse patto fra noi di portar il riscatto, neppur per questo non vogliamo metter ostacoli alla battaglia. — Signori, (aggiunse poi volto ai suoi) avete udito, questo cavaliere tien la cosa per fatta; sta a voi a chiarirlo del suo errore.
Sarà inutile il dire che questi modi sprezzanti fecero ribollire il sangue agl’Italiani, ma nessuno rispose nè a La Motta, nè al signor Prospero, fuorchè con qualche digrigno o qualche occhiata fulminante.
Terminati questi apparecchi, furon dai giudici licenziate le due parti e data loro una mezz’ora per prepararsi; dopo la quale un trombetta a cavallo, situato all’ombra degli elci, accanto ai giudici, darebbe tre squilli di tromba, segnale dell’assalto.
Ritornati a’ loro cavalli e montati in sella, furon dai padrini disposti in fila a quattro passi di distanza l’uno dall’altro; e tanto il Colonna quanto Bajardo osservarono di nuovo i barbazzali, le cinghi delle selle, le corregge e le fibbie dell’armature, e, se v’eran occhi esercitati ne’ due campi, eran senza dubbio i loro.
Finita questa rivista, fermato il cavallo nel mezzo della linea, il signor Prospero disse ad alta voce:
— Signori! non crediate ch’io voglia dirvi parola per eccitarvi a combatter da uomini pari vostri: vedo fra voi Lombardi, Napoletani, Romani, Siciliani. Non siete forse tutti figli d’Italia ugualmente? Non sarà ugualmente diviso fra voi l’onore della vittoria? Non siete voi a fronte di stranieri che gridan gl’Italiani codardi? Una cosa sola vi dico. Vedete là quel traditor scellerato, Grajano d’Asti? Egli combatte per mantener l’infamia sul capo de’ suoi compagni! m’intendete!... Ch’egli non esca vivo di questo campo.
Fieramosca che era vicino a Brancaleone gli disse sottovoce: — Ah! se il voto non mi legasse le mani!... e Brancaleone gli rispose: — Lascia far a me che non ho voti; so io dove gliel’ho da appiccare!
La voglia d’uccider Grajano era nata in lui dal giorno in cui, udite le vicende del suo amico, vide che poteva così toglier di mezzo l’ostacolo che si frapponeva fra esso e Ginevra. Sapendolo poi nel numero dei campioni francesi, conobbe che l’occasione non gli sarebbe mancata, ed il giorno della giostra, si rammenterà il lettore delle informazioni che si procacciò, mentre il cavalier astigiano s’armava accanto all’anfiteatro. Ora la fine impreveduta di Ginevra distruggeva il suo primo pensiero; tuttavia non abbandonò il disegno, e gli crebbe poi il desiderio di eseguirlo, per le parole del signor Prospero, al quale come al capo della parte colonnese, obbediva ciecamente in tutto.
I due padrini intanto s’eran ritirati ai loro posti; Bajardo presso i giudici, ed il Colonna sotto le querce. Questi tutto armato fuorchè il capo, su un gran cavallo nero coperto di una gualdrappa vermiglia ricamata in oro, alzava la fronte grave ed ardita verso i suoi aspettando in silenzio la tromba. Aveva accanto un suo paggio, bel giovane di sedici anni, vestito di cilestro, colle calze color di carmino, e varj caposquadra dell’esercito in diverse attitudini che, malgrado la loro immobilità, mostravano non so che d’energico e di marziale. A misura che s’avvicinava il momento venivano a tutti mancando le parole; al più s’udiva qualche monosillabo bisbigliato sommessamente fra vicini, ed in questa quiete che dava all’adunanza un aspetto grave e solenne risonava solo di tempo in tempo lo scalpitare ed il nitrir de’ cavalli, che tenuti in riposo e ben pasciuti, non potevan ora star fissi nell’ordinanza, rodevano i lunghi freni dorati, li coprivan di spuma, facendo arco del collo e della coda, e rizzandosi sui piè di dietro, sbuffavano colle nari tese e sanguigne, e parevan dagli occhi gettar faville.
È difficile ai giorni nostri formarsi un’idea dell’aspetto marziale d’un uomo d’arme di quel tempo coperto tutto di ferro esso e ’l cavallo. Ogni cavaliere colla visiera abbassata chiuso nell’arnese, collo scudo al petto e la lancia alla coscia, inforcava una sella, i cui arcioni ferrati s’alzavano avanti e dietro come due ripari che rendevano quasi impossibile il cadere; incastrato così, stringendo le ginocchia, era talmente aderente al cavallo, che tutti i suoi moti gli si comunicavano con quell’unità che dovrebbe legare le due nature del centauro.
I cavalli avean le parti anteriori e laterali del capo difese da un guernimento di ferro, nel quale eran soltanto due buchi per gli occhi; in mezzo alla fronte una punta; il collo, le spalle ed il petto ugualmente coperto da piastre soprapposte a guisa di scaglie snodate, onde lasciar liberi tutti i moti; ed un arnese dello stesso artificio si stendeva sulla groppa e le parti laterali del ventre, lasciandone scoperto soltanto il luogo per le spronate. Le belle fattezze di questi nobili animali eran così deturpate da tutte quell’armature sì che parevano dalle gambe in fuori quasi altrettanti rinoceronti. Vedendoli fermi si sarebbe creduto impossibile che potessero muoversi non che correre, ma uno scuoter di briglia od un accostar del calcagno del cavaliere li trovava agili e pronti come fosser nudi, tanto maestrevolmente eran congegnate quell’armi.
Oltre lancia, spada e pugnale che ogni uomo d’arme portava sulla persona, avea appese all’arcione davanti una mazza d’acciajo, ed un’azza: e gl’Italiani avean gran nome nel maneggio di quest’armi. Il modo poi d’ornarsi era vario, secondo il capriccio d’ognuno: sulla cima degli elmi svolazzavan penne di molti colori disposte per lo più intorno ad un lungo pennacchio formato della coda del pavone. Alcuni invece di penne aveano strisce di stoffa frastagliata, dette dai Francesi lambrequins. Chi portava sopravveste, chi tracolle, chi avendo un’armatura ricca e ben lavorata, la lasciava scoperta: anche i cavalli avevan sul capo o penne o qualche altro ornamento, e le briglie larghe quasi un palmo a festoni, e di colori che chiamavan l’occhio, spesso per la fattura e per la ricchezza degli ornati erano esse sole di gran valore. Sugli scudi, oltre l’impresa che solevan portarvi dipinta, avean gl’Italiani fatto scrivere motti convenienti a quell’occasione: quello di Fieramosca diceva, per citarne uno: Quid possit pateat saltem nunc Itala virtus.
Un araldo alla fine venne avanti in mezzo al campo, e bandì ad alta voce, che alcuno non ardisse favorire o disfavorire nessuna delle parti nè con fatti, nè con voci, nè con cenni; ritornato presso i giudici, il trombetta diede il primo squillo di tromba: diede il secondo.... si sarebbe sentito volar una mosca, diede il terzo, ed i cavalieri con moto simultaneo allentate le briglie, curvati i dorsi sul collo dei cavalli, e piantando speronate che li levavan di peso, si scagliarono a slanci prima, poi di carriera serrata rapidissima gli uni su gli altri, levando il grido, viva Italia! da una parte, e viva Francia! dall’altra, che s’udì fino al mare. Avean circa centocinquanta passi da correre per incontrarsi. S’alzò a poco a poco la polvere, crebbe, si fece più densa, gli avvolse prima che si fossero giunti, li coperse e nascose affatto come un nuvolo quando si dieder di cozzo, urtandosi i cavalli fronte contro fronte, e i cavalieri rompendo le lance sugli scudi e le corazze degli avversarj con quel fragore che produce una frana di massi che rovinando su un pendio senza ostacoli da prima, poi trova una selva nella quale si caccia, e fiacca, sradica, fracassa ciò che trova. Fu tolto così agli spettatori la vista del primo scontro, ed appena in quell’ammasso confuso e polveroso d’uomini e di cavalli potevan distinguere il balenar dell’armi percosse dal sole, e qualche brano di penne che la furia dei colpi aveva lacerate, volar avvolgendosi in quel turbine ed allontanarsene poi sollevato dal vento. Il frastuono rimbombò per le valli de’ contorni; Diego Garcia si percosse col pugno sulla coscia per la maraviglia e per la smania di non esser anch’esso là in mezzo, e questo fu il solo atto che si notasse fra gli spettatori attoniti ed immoti.
Rimase per alcuni secondi riunito quel gruppo di battaglia, ed un certo luccicar più sottile che qua e là balenava a traverso la polvere, mostrò che i cavalieri avean posto mano alle spade: s’udiva uno scrosciar di ferri, un martellar così a minuto come se in quello spazio fossero state in opera dieci paja d’incudini. Tutto quell’ammasso pieno d’una luce vivissima, e direi guizzante in sè stessa, era simile ad una macchina di fuoco d’artifizio quando è velata in parte dal fumo; tanto era complicato e rapido il muoversi, lo stringersi, l’aprirsi, il rivolgersi che faceva in tutte le sue parti.
L’ansietà di poter veder qualche cosa e sapere a chi toccasse il primo onore, era tale che ormai si stava per prorompere in grida e già s’udiva un crescente bisbiglio, che fu però soffocato dai cenni degli araldi, non meno che dal veder uscir fuori da quel viluppo un cavallo sciolto, talmente coperto di polvere che neppur più si capiva di che colore avesse la sella; scorrendo pel campo di mezzo galoppo si trascinava fra le zampe la briglia mezza lacerata e, mettendovi sur or un piede or un altro, si veniva dando strappate al freno che gli facean abbassar il capo, e lo mettevano a rischio di cadere; una larga ferita dietro la spalla versava una fontana di sangue nero e segnava la traccia; dopo non molti passi cadde sulle ginocchia sfinito, e si arrovesciò sul terreno. Fu conosciuto esser della parte francese.
Gli uomini d’arme intanto accoppiatisi combattevano spada a spada, e così due a due dando e ribattendo quei grandissimi colpi, e volteggiandosi intorno scambievolmente per torre il lor vantaggio, venivan dilatando la zuffa serrata dal primo assalto; la polvere cacciata dal vento più non toglieva la vista dei combattenti; si conobbe che l’uomo d’armi scavalcato era Martellin de Lambris. Fanfulla, per disgrazia del francese, gli si trovò contra, e con quella sua pazza furia, nella quale era pur molta virtù e somma perizia, gli appiccò alla visiera la lancia, in modo che lo spinse quant’era lunga a fargli assaggiar s’era soda la terra, e nel fare il bel colpo alzò la voce in modo che s’udì fra tanto strepito, e gridò: E uno! — poi vedendosi non lontano La Motta che al colpo di Fieramosca avea perduta una staffa, seguitava: — I danari non basteranno.... sono pochi i danari.... Ed allargatasi poi la zuffa, disse al vinto: Tu sei mio prigione.... ma l’altro rimessosi in piè gli rispose d’una stoccata che strisciò sulla corazza lucente del Lodigiano: non era scorso un secondo, e già la spada di Fanfulla era caduta a due mani sull’elmo del suo nemico, il quale sgangherato dalla prima percossa a stento si resse in piedi; e Fanfulla gliene appoggiò un’altra, e un’altra, ed ogni volta gridava: Son pochi i danari.... son pochi.... son pochi.... e lo sforzo del colpo gli faceva pronunziar la parola con quella specie d’appoggiatura che udiamo uscir dal petto degli spaccalegna quando calan l’accetta.
Colui non si potè riavere mai da questa tempesta malgrado i suoi sforzi: venne a terra mezzo stordito, ma non volea perciò sentir parlar di resa; onde Fanfulla invelenito gli diede l’ultima cogliendo il tempo in cui provava a rizzarsi in ginocchio, e lo distese immobile sul sabbione dicendogli:
— Sei contento ora?
Bajardo visto che colui si sarebbe fatto ammazzare inutilmente mandò un re d’armi, il quale gettando il suo bastone fra i due guerrieri gridò ad alta voce: Martellin de Lambris prisonnier. Corsero alcuni uomini che l’ajutarono alzarsi, e sorreggendolo vennero a presentarlo al sig. Prospero.
— Dio ti benedica le mani! gridò questi al vincitore.
E diede ai suoi sergenti in guardia il barone francese che non volle lasciarsi toglier la barbuta, si gettò a giacere al piede d’una quercia e vi rimase muto ed immobile.
Fanfulla aveva voltato il cavallo, e messolo di mezzo galoppo per tornar nella battaglia guardava intorno ove potesse giovar l’opera sua, e veniva per giuoco facendo in aria colla spada mulinelli, nel quale esercizio avea la più destra e spedita mano dell’esercito. Dando un’occhiata generale alla zuffa vedeva che la fortuna non inclinava punto pei nemici, e che gli uomini d’arme italiani facevano molto bene il dovere: allora alzò più che mai il grido, chiamando a nome La Motta, e ricominciando la novella de’ danari son pochi; e queste tre parole le veniva cantando sull’aria d’una canzone che si udiva allora per le strade dai ciechi: onde l’atto del cavalcare in un certo suo modo sbadato e bizzarro, quel giocar di spada tanto mirabile, e pur fatto come scherzando, e ’l tuono della voce, tutt’insieme dava a quella canzonatura un non so che di così curioso, che persino la seria fisonomia del signor Prospero dovette un momento lasciarsi aprire ad un sorriso.
Nel tempo impiegato a conseguir questa prima vittoria, Ettore Fieramosca aveva bensì colla lancia fatto staffeggiare La Motta, ma non gli era riuscito scavalcarlo. Era d’altra forza e d’altro valore che il prigionier di Fanfulla. Fieramosca geloso dell’onore riportato da questo, avea cominciato colla spada a lavorare in modo che lo sprezzatore degli Italiani con tutta la sua virtù a stento potea stargli contra. Le ingiurie profferite da lui la sera della cena quando avea detto che un uomo d’arme francese non si sarebbe degnato aver un italiano per ragazzo di stalla, tornarono in mente a Fieramosca, e mentre spesseggiava stoccate e fendenti, schiodando e rompendo l’arnese del suo nemico, e talvolta ferendolo, gli diceva con ischerno:
— Almeno la striglia la sappiamo menare? Ajutatemi, chè ora son fatti, e non parole.
Non potè colui sopportar lo scherno, e menò un colpo al capo con tal furia che, non giugnendo Ettore ad opporre lo scudo, tentò ribatterlo colla spada; ma non resse, volò in pezzi, e quella del francese cadendo sul collarino della corazza lo tagliò netto, e ferì la spalla poco sopra la clavicola. Fieramosca non aspettò il secondo: spintosi sotto, l’abbracciò tentando batterlo in terra, l’altro lasciata la spada pendente, tentava di sferrarsi. Ciò appunto volea Fieramosca; sviluppatosi da lui prima che avesse potuto riprender la spada, dato di sprone al cavallo lo fece lanciarsi da una parte, ed ebbe tempo di spiccar l’azza che pendea dall’arcione, colla quale tornò addosso all’avversario.
Il buon destriere di Fieramosca ammaestrato ad ogni qualità di battaglia cominciò, avvertito da un leggier cenno di briglia e di sprone, a rizzarsi come un ariete che voglia cozzare, e far volate avanti, senza mai scostarsi tanto dall’avversario che il suo signore non lo potesse giungere. Vedendolo lavorare con tanta intelligenza pensava Fieramosca: Ho pur fatto bene a condurti meco! E si portò tanto virtuosamente coll’azza, che venne riacquistando sul francese il vantaggio che aveva perduto.
La zuffa di questi antagonisti che potean dirsi i migliori delle due parti, se non decideva della somma della battaglia, quasi però avrebbe deciso dell’onore. Sarebbe stato doppio biasimo per La Motta esser vinto, avendo egli manifestato tanto disprezzo dei suoi nemici; doppia gloria a Fieramosca il riportarne vittoria. I suoi compagni, conoscendo che egli era atto a tal impresa, si guardarono dal prendervi parte, si guardavano anche i Francesi dal porgere ajuto al loro campione, onde non si dicesse che dopo tanti vanti non gli era bastata la vista di star contra un solo. Perciò, quasi senz’avvedersene, per alcuni minuti restaron tutti dal combattere fissando gli occhi ne’ due guerrieri. In questi pensieri che abbiam accennati produssero un incredibile impegno di vincere, e combattevano con un accanimento, un’attenzione a non commetter errori, un’alacrità a profittar dei vantaggi, che la loro zuffa poteva dirsi un modello dell’arte cavalleresca.
Diego Garcia di Paredes, che avea passata la sua vita nei fatti d’arme, pur colpito da maraviglia alla vista di così maestrevole battaglia, non potendo più star alle mosse, si era alzato in piedi, poi venuto sull’estremo ciglio del greppo che dominava il campo, gli stava guardando avidamente. Veduto da lontano, con quel suo busto gigantesco piantato su due gambe erculee, e colle braccia naturalmente pendenti, pareva immobile al pari d’una statua, ma ai vicini il contrarsi de’ muscoli sotto le strette vesti di pelle che portava, lo stringer delle pugna, e più di tutto lo sfavillar degli occhi palesavano quanto bollisse internamente e si rodesse di non poter essere ivi altro che spettatore.
I riguardi che impedivano agli altri di turbar questa battaglia, o non vennero in mente, o non furon curati da Fanfulla che, lasciato il signor Prospero, veniva scorrendo pel campo; punse il cavallo, e colla spada in alto si serrò contro La Motta. Se n’avvide Ettore e gli gridò: — Indietro!; ma ciò non bastando spinse il cavallo in traverso a quello del Lodigiano, e col calcio dell’azza gli diede a man rovescia sul petto onde con poco buon garbo gli fece rattener le briglie.
— Basto io per costui, e son di troppo, gli disse istizzito.
Fu da tutti lodato l’atto cortese verso La Motta fuorchè da Fanfulla, che prorompendo in una di quelle esclamazioni italiane che non si possono scrivere, disse, mezzo in collera mezzo in riso:
— Hai la lingua nelle mani!
Voltò il cavallo, e messosi a guisa di pazzo fra i nemici, gli sconvolse senza assalirne nessuno in particolare, e finito così quel momento d’inazione, si rinnovò più calda che mai la battaglia.
Fin dal principio, Brancaleone fisso nel suo proposito avea corso la lancia con Grajano d’Asti, e la fortuna si era mostrata uguale fra loro. Venuti alla spada si mantennero ancora senza deciso vantaggio per nessun de’ due: Brancaleone era forse superiore al suo nemico per robustezza ed anche per maestria, ma il Piemontese era gran giocator di tempo; e chi conosce l’arte dello schermire, sa quanto sia utile questa qualità.
Fra i combattenti dell’altre coppie la vittoria era per tutto in forse, e quantunque la battaglia non durasse che da un’ora e mezzo circa, era stata però tanto ostinata e calda che si poteva facilmente conoscere gli uomini ed i cavalli aver bisogno d’un breve respiro che venne loro conceduto di comune accordo dai giudici. La tromba ne diede il segno, ed i re d’armi entrando in mezzo spartirono i combattenti.
Quel bisbiglio che udiamo sorger istantaneo nei nostri teatri al calar del sipario dopo uno spettacolo che si sia cattivata l’attenzione degli spettatori, nacque egualmente fra le turbe che circondavano il campo. I cavalieri tornati alla prima ordinanza scavalcarono; chi si traeva la barbuta per rinfrescarsi la fronte e tergerne il sudore; chi, trovando l’arnese o la bardatura de’ cavalli guasta in qualche parte, s’ingegnava di racconciarla. I cavalli, scotendo il capo e dimenando le mascelle, cercavan sollievo al dolore cagionato dalle scosse de’ freni. E, non sentendo più l’uomo in sella, si piantavan sulle quattro zampe ed a capo basso davano un crollo prolungato facendo risonare le loro armature. I venditori del contorno, trovandosi a polmoni freschi, alzaron più alte le grida, e i due padrini, mossi i cavalli, vennero a trovare i loro guerrieri.
Per la prigionia d’uno de’ francesi e per trovarsi gli altri malmenati e feriti quasi tutti, fu giudicato da ognuno, gli Italiani aver la meglio, e fra i molti che aveano scommesso per l’una o per l’altra parte, quelli che tenevan pe’ primi cominciavano ad accigliarsi ed a dubitare. Il buon Bajardo avea troppa esperienza di simili fatti per non accorgersi che le cose voltavan male pe’ suoi. Studiando di non mostrar questo sospetto gli incoraggiava, li poneva in ordinanza e veniva ricordando ad ognuno le regole dell’arte, i colpi da tentarsi ed il modo di difendersi.
Prospero Colonna che vedeva i suoi avere minor bisogno di riposo per esser meno maltrattati dei nemici, dopo una mezz’ora domandò che si riprendesse la battaglia, ed i giudici ne fecero dare il cenno. I cavalli, ai quali un ansar frequente facea ancora battere i fianchi, stimolati dallo sprone rialzarono il capo, e si slanciaron di nuovo gli uni contro gli altri. Ormai la vittoria si dovea decidere in pochi momenti: crebbe il silenzio, l’immobilità negli spettatori, l’accanimento e la furia nei combattenti. Le gale del vestire, le penne, gli ornamenti eran volati in brani, o bruttati di polvere e di sangue. Dal fianco di Fieramosca pendeva tagliata da un fendente la sua tracolla azzurra, l’elmo era rimasto nudo e basso, ma egli ferito soltanto leggermente nel collo, si sentiva gagliardo del resto, e stringeva La Motta col quale si era di nuovo accozzato. Fanfulla avea a fronte Jacques de Guignes. Brancaleone seguitava la sua battaglia con Grajano, avvisando al modo di coglierlo sull’elmo, e gli altri compagni qua e là per il campo si raggiravano accoppiati coi Francesi combattendo la maggior parte coll’azza, e stringendoli mirabilmente.
A un tratto s’alzò un grido fra gli spettatori tutti, e persino i combattenti volgendosi per conoscerne la causa, videro che la zuffa tra Brancaleone e Grajano era finita. Questi, curvo sul collo del destriere, coll’elmo ed il cranio aperti pel traverso, perdeva a catinelle il sangue che scorreva nei buchi della visiera sull’arme e giù per le gambe del cavallo, il quale stampava le pedate sanguigne. Rovinò in terra alla fine, e risonò sul suolo come un sacco pieno di ferraglia. Brancaleone alzò l’azza sanguinosa brandendola sul capo, e gridò con voce maschia e terribile:
— Viva l’Italia! e così vadano i traditori rinnegati. Ed insuperbito si cacciò menando a due mani sui nemici che ancora facevan difesa. Ma non durò a lungo il contrasto. La caduta di Grajano parve desse il crollo alla bilancia. Fieramosca, accanito per la lunga ed ostinata difesa di La Motta, raddoppiò la forza de’ colpi con tanta rapidità che lo sconcertò, lo sbalordì, e privato dello scudo, con mezza spada in mano e l’arnese schiodato e rotto, lo percosse sul collo coll’azza di tanta forza, che lo fe’ rannicchiarsi stordito sull’arcione dinanzi e quasi smarrita la luce degli occhi.
Prima che si riavesse, Fieramosca, il quale gli stava a destra, buttandosi lo scudo dietro le spalle, l’afferrò colla manca alle corregge che sulla spalla reggono il petto della corazza e stringendo le cosce, diede di speroni al cavallo. Questi si lanciò avanti, e così il cavaliere francese fu violentemente tratto giù dalla sella. Quando si stese in terra, Fieramosca che avea colto il tempo e s’era buttato da cavallo, gli si trovò sopra colla daga sguainata, ed appuntandogliela alla vista in modo che un poco gli toccava la fronte, gli gridò: Renditi o sei morto. Il barone, ancor mezzo fuor di sè, non rispondeva; e questo silenzio potea costargli la vita: gliela salvò Bajardo, gridandolo prigione.
Condotto via La Motta da’ suoi famigli che lo consegnarono al sig. Prospero, Fieramosca si voltò per risalire a cavallo: il cavallo era scomparso: girò lo sguardo per la battaglia e vide che Giraud de Forses, essendogli stato morto il suo, aveva tolto il destriere dell’Italiano e stava fra suoi facendo ancor testa agli uomini d’arme nemici. Il buon Ettore conobbe che solo e a piedi non avrebbe potuto riaver il cavallo. L’aveva nutrito ed allevato di sua mano, ed addestrato a seguirlo alla voce; onde non si confuse; fattosegli più presso che potè cominciò a chiamarlo, battendo il piede come era usato di fare quando voleva dargli la biada. Il cavallo si mosse per venire a quel cenno, e volendo il cavaliere contrastargli, prima cominciò ad impennarsi, poi si mise a salti, e senza che colui potesse nè opporglisi nè governarlo, lo portò suo malgrado fra gli Italiani che, circondatolo, l’ebber prigione senza colpo di spada. Scendendo dal cavallo sul quale tosto saltò Fieramosca, malediceva la sua fortuna; ma questi resagli per la punta la spada che gli era stata tolta, gli disse:
— Fatti con Dio, fratello, piglia le tue armi e torna fra’ tuoi, chè i prigioni gli abbiamo per forza d’arme, e non per arti da ciurmadori.
Il Francese, che ogn’altra cosa s’aspettava, restò molto maravigliato. Pensò un momento, poi rispose:
— S’io non m’arrendo alle vostre armi, m’arrendo alla vostra cortesia: e, presa la sua spada alla metà della lama, andò a deporla a terra avanti al signor Prospero: e fu detto da tutti quelli che lodavano l’atto cortese di Fieramosca, anche il Francese aver operato e parlato saviamente. Per la qual cosa esso solo fu poi rimandato senza che pagasse il riscatto.
La parte francese era scemata di quattro delle sue migliori spade, mentre l’Italiana contava ancora i suoi tredici uomini a cavallo e si poteva facilmente conoscere in qual modo la cosa dovesse andar a finire. Nonostante i Francesi scavalcati che erano cinque, si serrarono insieme, ai loro lati si posero due per parte i quattro a cavallo; e così ordinati si disposero a far testa di nuovo agli Italiani, i quali rannodando per la terza volta la loro battaglia, fecero impeto tutt’insieme sugli avversari.
Non venne in mente ad alcuno che questi vi potessero reggere, ma ammirando tuttavia la costanza, e l’arte di quella brava gente, crebbe negli spettatori l’ansiosa curiosità di veder l’esito del loro ultimo disegno; e quasi ad alcuni sapeva male, che con tanto valore dovessero cimentarsi con grandissimo rischio della loro vita ad un giuoco tanto disuguale. Ma per questo non temevano i Francesi: pesti, feriti, coperti di polvere e di sangue, pur offrivan fiero ed onorato spettacolo stando arditi ad aspettare la rovina che veniva loro addosso di tanti cavalli, e pareva dovesse ridurli in polve. Si mossero alla fine gl’Italiani, non colla prima celerità, che la stanchezza lo vietava ai cavalli, molti de’ quali per le violente scosse dei freni avean la bocca coperta di spuma sanguigna. Alzarono i cavalieri più forte il grido di Viva Italia! e malgrado l’instare degli sproni vennero a ferire d’un galoppo grave e sonante. Nonostante le leggi promulgate al principio, fu tale la smania di curiosità che invase a quel punto gli spettatori, che il cerchio formato da loro all’intorno s’andò progressivamente stringendo. Gli uomini che avean la cura di mantener l’ordine, curiosi più degli altri, anch’essi seguiron quel moto concentrico, come vediamo succedere quando in piazza si caccia il toro, che al principio ognuno sta saldo al suo luogo, ma quando un cane comincia ad attaccarsegli all’orecchio, e poi se n’attacca un altro, e quasi hanno fermato il loro nemico, nessun può più star a segno, crescon le grida, gli schiamazzi, si scioglie l’ordine, ognuno si spinge avanti per veder meglio.
In mezzo alla fila di nuovo schierata degli Italiani s’era posto Fieramosca, il quale aveva il miglior cavallo, ed ai suoi lati, a mano a mano quelli che l’avean o meno stanco o più corridore, cosicchè nell’andar addosso ai nemici il centro si spinse avanti, figurando un cuneo, del quale Ettore era alla punta. Quest’ordine fu tanto ben mantenuto che, giunto al ferire, sforzò la fila dei Francesi senza che potessero porvi riparo. Qui sorse una nuova zuffa più serrata, più terribile che mai: al numero, al valore, alla perizia degli Italiani s’opponevano sforzi più che umani, disperazione, rabbia del disonore imminente ed inevitabile: i prodi ed infelici Francesi, fra un turbine di polvere, cadevano insanguinati sotto le zampe dei cavalli; si rialzavano afferrandosi alle staffe, alle briglie de’ vincitori, ricadevano, spinti, maltrattati, calpestati, rotolandosi sotto sopra, mezzo disarmati, cogli arnesi infranti, e pur sempre sforzandosi di riaversi, raccogliendo in terra pezzi di spade, tronchi di lancia, e per fino sassi onde ritardar la sconfitta.
Ettore il primo alzò il grido onde lasciasser l’impresa e si rendesser prigioni; ma appena era udito in quel fracasso, o se l’udivano negavan coi fatti, soffrendo muti quelle orribili percosse, ed ebbri pel furore, seguitavano la mirabil difesa. De’ quattro che eran ancora in sella al principio di quest'ultimo scontro, uno era caduto e si difendeva a piedi; a due erano stati morti i cavalli; il quarto preso in mezzo era stato fatto prigione.
Sarebbe impossibile il descrivere tutti gli strani accidenti, i colpi, gli atti disperati che accaddero in quegli ultimi momenti, dei quali fra gli spettatori rimase per molti anni una memoria di maraviglia e di orrore.
De Liaye, per dirne uno, fu veduto afferrare a due mani il freno di Capoccio romano, per istracciargli, se potesse, o togliergli la briglia; il cavallo se lo cacciò sotto colle zampate, ma non potè mai farsi lasciar dal Francese, che trascinato pel campo fu condotto in tal modo innanzi al signor Prospero, e ci vollero molti ajuti e molte braccia, tanto era fuor di sè stesso, a fargli aprire le mani e porlo fra i prigionieri. Alla fine parve agli Italiani stessi troppo crudel cosa seguitare una simil battaglia; il gridar di Fieramosca fu imitato dagli altri, e tutti insieme sospeso il ferire, venivan dicendo a quei pochi superstiti «prigioni.... prigioni».
Fra il popolo cominciò un bisbiglio, crebbe, e senza che volesse l’opposizione degli araldi, cominciaron voci e poi schiamazzi ed urli onde finisse il combattere, ed i Francesi avesser la vita salva: rotti gli ordini s’era stretta la turba intorno ai combattenti, che si trovavano chiusi in un cerchio di trenta o quaranta passi di diametro; chi gridava, chi faceva svolazzar fazzoletti e cappelli, quasi sperando di partir così la battaglia; chi si volgeva ai giudici ed ai padrini. Il signor Prospero fattosi far luogo, e venuto più presso, alzava la voce, il bastone per indurre i Francesi alla resa; Bajardo anch’esso, per quanto sentisse dolore dell’infelice riuscita de’ suoi, visto esser inutile un maggior contrasto, e pensando che era troppo peccato lo sprecar così il sangue e le vite di quei valorosi, si spinse avanti e gridava ai suoi che finissero e si desser prigioni; ma nè la sua, nè l’altrui voce non era ascoltata dai vinti, che avendo appena ancora sembianza d’uomini parevan piuttosto demoni, furie scatenate. Scesero alla fine anche i giudici dal tribunale, vennero in mezzo al cerchio; fecero dar nelle trombe e gridar ad alta voce gl’Italiani vincitori; questi allora voller ritirarsi, ma tutto era niente; i loro nemici, che la rabbia, il dolore, le ferite avean inebriati al punto di non capire e non sentir più nulla, seguitavano, come tigri che siano strette fra gli avvolgimenti d’un serpente a ghermirsi come potevano coi loro avversari.
Diego Garcia finalmente, visto che non v’era altro modo, prese partito, e gettandosi alle spalle di Sacet de Jacet che attaccato con Brancaleone pretendeva strappargli l’azza dalle mani mentre questi era in forse d’appiccargliene un colpo sul capo, ed al certo l’avrebbe fatto cascar morto, l’avvinghiò con quella sua maravigliosa forza, e lo trasse suo malgrado fuor della zuffa. Quest’esempio fu imitato da molti spettatori, e in un momento furon tutti addosso ed attorno ai combattenti, e quantunque ne riportassero qualche percossa, pure urtandosi, stracciandosi i panni, dopo molto stento e molto tirare, vennero a capo di levar di mezzo que’ cinque o sei uomini mezzo fracassati; e quantunque si dibattessero ancora e schiumasser di rabbia, pure alla fine li trassero sotto le querce cogli altri prigioni.
La prima cura di Fieramosca, finito appena il combattere, fu gettarsi da cavallo e correre a Grajano d’Asti, che giaceva immobile nel luogo ov’era caduto.
Quando Brancaleone ebbe fatto il bel colpo, il cuor generoso di Ettore non aveva pur potuto difendersi da un primo moto di gioja. Ma nato appena lo represse un sublime e virtuoso pensiero. Venne a lui, fece scansar la gente che gli stava affollata intorno, e gli s’inginocchiò accanto. Il sangue scorreva ancora dall’ampia ferita, ma lento ed aggrumato: gli sollevò il capo adagio e con tanta cura, che si sarebbe pensato avesse a salvare il suo più caro amico, e giunse a liberarlo dalla barbuta.
Ma l’azza, spaccato il cranio, era entrata nel cervello tre dita; il cavaliere era morto. Ettore con un sospiro, che sorse dal profondo del cuore, depose di nuovo a terra il capo dell’ucciso, e rizzatosi disse a’ suoi compagni che erano anch’essi venuti a vedere, e più direttamente a Brancaleone:
— Codesta tua arme, (ed additava l’azza che quegli teneva in pugno stillante ancora di sangue) ha compiuta oggi una gran giustizia. Ma come potremmo godere tal vittoria? Il sangue che inzuppa questa terra non è egli sangue italiano? e costui forte e prode in guerra non avrebbe potuto spargerlo a sua ed a nostra gloria contra i comuni nemici? La tomba di Grajano allora sarebbe stata venerata e gloriosa, la sua memoria un esempio d’onore. Invece egli giace infame, e sulle sue ceneri peserà la maledizione de’ traditori della patria.... Dopo queste parole tornarono tutti in silenzio e pensosi ai loro cavalli. Il cadavere fu la sera portato a Barletta, ma quando si volle seppellirlo nel sagrato, il popolo levato a rumore non lo permise. I becchini lo portarono al passo d’un torrente a due miglia dalla città, cavarono una fossa e ve lo chiusero. D’allora in poi quel luogo fu chiamato il Passo del traditore.
Il signor Prospero prima di muoversi per uscir del campo, voltosi a Bajardo gli domandò se voleva sborsare il riscatto de’ suoi. La millanteria di La Motta venne così scontata da Bajardo, il quale non rispose: ed i giudici decretarono che i prigioni dovessero seguire i loro vincitori a Barletta. Si avviarono a piedi, muti, sbalorditi, circondati da una folla immensa, e gl’Italiani li seguivano a cavallo, al suono degli stromenti, e fra le grida di viva Italia, viva Colonna!
Giunti alla rôcca, e saliti nella sala, i tredici guerrieri presentarono i dodici prigioni a Consalvo che gli aspettava in mezzo alla sua baronia. Il gran Capitano dopo aver molto lodato i vincitori si volse ai Francesi e disse loro:
— Non sarà mai ch’io voglia insultare alla mala fortuna d’uomini valorosi; l’arme son giornaliere, e chi è vinto oggi può vincer domani. Non vi dirò di rispettar d’or innanzi il valore italiano; dopo simili fatti le mie parole sarebbero superflue. Vi dirò bensì che impariate d’or innanzi ad onorare il valore e l’ardire ovunque si trova, ricordandovi che Dio l’ha distribuito fra gli uomini, e non l’ha accordato come un privilegio alla vostra nazione; e che il vero coraggio è ornato dalla modestia, e vituperato dalla millanteria.
Dopo queste parole licenziatili, tutti insieme uscirono della sala, e cotal fine ebbe quella gloriosa giornata.