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282 | ettore fieramosca |
mero; rotolati i brevi, e posti in un elmo, cadde la sorte su Fabrizio Colonna, Obignì e Diego Garcia di Paredes; i quali, sedendo al luogo preparato per loro, aprirono su una tavola il libro de’ vangeli, e ricevettero il giuramento de’ ventisei guerrieri, col quale s’impegnavano a non adoperar frode nel combattere, asserivano non aver incanti nè sui loro corpi, nè sull’arme, ed incontrar quel cimento valendosi della sola virtù e delle forze naturali. Furon letti di nuovo ad alta voce i patti coi quali si rimaneva d’accordo che ogni uomo potesse riscattar sè, l’arme e ’l cavallo mediante cento ducati, ed uno fra gl’Italiani, votando sulla tavola il sacco del danaro che avean recato, lo contò e lo consegnò ai giudici. S’aspettava quindi che i Francesi facessero altrettanto: visto che nessuno si moveva, Prospero Colonna disse loro più modestamente che potè: — Signori, e il vostro danaro?
Si fece avanti La Motta, e rispose sorridendo:
— Signor Prospero, vedrete che questo basterà.
Montò la stizza al barone romano per la milanteria inopportuna, ma si frenò, e disse soltanto: Prima di vender la pelle conviene ammazzar l’orso. Ma non importa; e quantunque fosse patto fra noi di portar il riscatto, neppur per questo non vogliamo metter ostacoli alla battaglia. — Signori, (aggiunse poi volto ai suoi) avete udito, questo cavaliere tien la cosa per fatta; sta a voi a chiarirlo del suo errore.
Sarà inutile il dire che questi modi sprezzanti fecero ribollire il sangue agl’Italiani, ma nessuno rispose nè a La Motta, nè al signor Prospero, fuorchè con qualche digrigno o qualche occhiata fulminante.
Terminati questi apparecchi, furon dai giudici licenziate le due parti e data loro una mezz’ora per prepararsi; dopo la quale un trombetta a cavallo, situato all’ombra degli elci, accanto ai giudici, darebbe tre squilli di tromba, segnale dell’assalto.