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modo innanzi al signor Prospero, e ci vollero molti ajuti e molte braccia, tanto era fuor di sè stesso, a fargli aprire le mani e porlo fra i prigionieri. Alla fine parve agli Italiani stessi troppo crudel cosa seguitare una simil battaglia; il gridar di Fieramosca fu imitato dagli altri, e tutti insieme sospeso il ferire, venivan dicendo a quei pochi superstiti «prigioni.... prigioni».

Fra il popolo cominciò un bisbiglio, crebbe, e senza che volesse l’opposizione degli araldi, cominciaron voci e poi schiamazzi ed urli onde finisse il combattere, ed i Francesi avesser la vita salva: rotti gli ordini s’era stretta la turba intorno ai combattenti, che si trovavano chiusi in un cerchio di trenta o quaranta passi di diametro; chi gridava, chi faceva svolazzar fazzoletti e cappelli, quasi sperando di partir così la battaglia; chi si volgeva ai giudici ed ai padrini. Il signor Prospero fattosi far luogo, e venuto più presso, alzava la voce, il bastone per indurre i Francesi alla resa; Bajardo anch’esso, per quanto sentisse dolore dell’infelice riuscita de’ suoi, visto esser inutile un maggior contrasto, e pensando che era troppo peccato lo sprecar così il sangue e le vite di quei valorosi, si spinse avanti e gridava ai suoi che finissero e si desser prigioni; ma nè la sua, nè l’altrui voce non era ascoltata dai vinti, che avendo appena ancora sembianza d’uomini parevan piuttosto demoni, furie scatenate. Scesero alla fine anche i giudici dal tribunale, vennero in mezzo al cerchio; fecero dar nelle trombe e gridar ad alta voce gl’Italiani vincitori; questi allora voller ritirarsi, ma tutto era niente; i loro nemici, che la rabbia, il dolore, le ferite avean inebriati al punto di non capire e non sentir più nulla, seguitavano, come tigri che siano strette fra gli avvolgimenti d’un serpente a ghermirsi come potevano coi loro avversari.