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capitolo xix. 297

vean o meno stanco o più corridore, cosicchè nell’andar addosso ai nemici il centro si spinse avanti, figurando un cuneo, del quale Ettore era alla punta. Quest’ordine fu tanto ben mantenuto che, giunto al ferire, sforzò la fila dei Francesi senza che potessero porvi riparo. Qui sorse una nuova zuffa più serrata, più terribile che mai: al numero, al valore, alla perizia degli Italiani s’opponevano sforzi più che umani, disperazione, rabbia del disonore imminente ed inevitabile: i prodi ed infelici Francesi, fra un turbine di polvere, cadevano insanguinati sotto le zampe dei cavalli; si rialzavano afferrandosi alle staffe, alle briglie de’ vincitori, ricadevano, spinti, maltrattati, calpestati, rotolandosi sotto sopra, mezzo disarmati, cogli arnesi infranti, e pur sempre sforzandosi di riaversi, raccogliendo in terra pezzi di spade, tronchi di lancia, e per fino sassi onde ritardar la sconfitta.

Ettore il primo alzò il grido onde lasciasser l’impresa e si rendesser prigioni; ma appena era udito in quel fracasso, o se l’udivano negavan coi fatti, soffrendo muti quelle orribili percosse, ed ebbri pel furore, seguitavano la mirabil difesa. De’ quattro che eran ancora in sella al principio di quest'ultimo scontro, uno era caduto e si difendeva a piedi; a due erano stati morti i cavalli; il quarto preso in mezzo era stato fatto prigione.

Sarebbe impossibile il descrivere tutti gli strani accidenti, i colpi, gli atti disperati che accaddero in quegli ultimi momenti, dei quali fra gli spettatori rimase per molti anni una memoria di maraviglia e di orrore.

De Liaye, per dirne uno, fu veduto afferrare a due mani il freno di Capoccio romano, per istracciargli, se potesse, o togliergli la briglia; il cavallo se lo cacciò sotto colle zampate, ma non potè mai farsi lasciar dal Francese, che trascinato pel campo fu condotto in tal