Enea nel Lazio/Atto V
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ATTO QUINTO.
SCENA PRIMA.
Selene e Perennio.
Ti risparmiai col mio silenzio! Avresti,
Se io ti chiamava de’ miei casi a parte,
Meco pianto più volte in un sol giorno.
Perennio. Ma tormento leggier, credi, non m’era
Il non vederti e dubitar mai sempre.
Io non ardia, quando vedeati unita
Con Enea, con Lavinia, alzar lo sguardo,
Non che il passo inoltrar. Provai talvolta
Di lontano sentir, ma vecchio io sono,
Gli organi ho guasti od imperfetti almeno.
Or in brieve tu sai quel che mi accadde.
Che, se mancami Enea, mi sposi il figlio.
Perennio. Non è perdita alfine. Alfin tu cambi
Viril guerriero in giovinetto amante,
E il cambio è tal che agl’imenei conviene.
Selene. Voglia il Ciel che ciò segua.
Perennio. Il Ciel lo voglia,
Per te, per me, che di riposo ho d’uopo.
Selene. Ecco i Troiani.
Perennio. Dove son?
Selene. Non vedi
Che si avanzano al campo?
Perennio. Oh me infelice!
Ogni dì più deteriorando vado.
Veggo oggetti confusi, e non discerno...
Or discerner principio. È quegli Enea.
E quella al fianco suo Lavinia è forse?
Selene. Che di’ tu di Lavinia? Era poc’anzi
Fra le donne Troiane, e da Laurento
Parti che ora ne venga?
Perennio. Ah! la memoria
Mi comincia a tradir.
Selene. Che sì, che donna
Credi il figlio di Enea?
Perennio. Ascanio è quegli?
Selene. Sì; che ti par?
Perennio. Ah! se di te fia sposo,
Ti dimentichi Enea, Cartago, e Dido.
SCENA II.
Enea, Acate, Ascanio con seguito, e detti.
Preceder deve il tramontar del sole.
E i sacerdoti ad offerir sian pronti. (si appressa l’ara
Perennio. Non ti guarda il garzon. (piano a Selene
Selene. Rispetta il padre.
(piano a Perennio
Ascanio. (Ahimè, se il genitor Lavinia insulta,
Nulla spero da lei; Selene io perdo). (da sè, agitato
Enea. Sian di Pallade e Marte i sacri onori;
Amor non entri degl’incensi a parte;
E tu che nell’april de’ tuoi verd’anni
Ti donasti alla gloria, impara, o figlio,
Odiar d’amore le saette e il nome.
Selene. (Misera me!) (da sè
Perennio. (S’egli dal padre impara,
Non odierà sì facilmente amore). (da sè
SCENA III.
Lavinia e detti.
E Lavinia si esclude, e ’l re mio padre
Non si attende all’altar?
Enea. Noi siam Troiani.
Sagrifichiamo ai Numi nostri. Al Lazio
Aitar non manca e sagrifizio e nume.
Lavinia. Qual nuovo stil, qual minaccioso aspetto?
De’ Latini e Troiani un popol solo
Stabilito non fu? Sull’ara istessa
Troiani numi e deità Latine
Venerar non si denno? Io più non sono
Destinata ad Enea?
Enea. Lavinia, io venni
Pace al Lazio a cercar, non guerra e sdegni.
Turno mi provocò, Turno fu vinto.
Meco pugnano i fati, e non li temo.
La domestica guerra io sol pavento,
E tu ovunque la porti ove t’annidi.
Se t’offendo, perdona, e da ciò ammira
Quanto diverso è dal tuo cuore il mio.
Per piacermi tu fingi, ed io ti spiaccio
Perchè finger non so. Mi valse un giorno
A scoprirti per sempre. In un sol giorno
Tant’arte usasti e macchinasti in guisa,
Che scarsissima fede in te ravviso,
E chi fè non apprezza, amor non merta.
Se non legaci amor, qual altro nodo
Dee soffrirsi fra noi? Vile interesse
L’alme illustri non lega. Io non intendo
Che il tuo regno mi doni, e non aspiro
A rapirlo a tuo padre. Ampio terreno
Lungo il Tebro si estende; Ardea le porte
Mi aprirà al nuovo sole, e mia conquista
Fia de’ Rutoli il regno. In pace viva
Il tuo buon genitor. Vivi tu stessa
Fin che vuole il destin, ma dal tuo seno
Prole non nasca a contrastarmi il Lazio.
A me più non pensar; ma non per questo
Di novelli imenei desìo m’accende.
Odio il perfido amor. Tu avesti il vanto
Di farmi odioso di Cupido il nome.
Amo la gloria. Nel mio figlio Ascanio
Ha un erede il mio sangue. I miei Troiani
Tutti son figli miei. Riposo e pace
Deggio a lor, deggio a me. Lavinia, udisti:
Se più sposa non sei, te stessa incolpa.
Lavinia. Molto dicesti, e s’io soffersi e tacqui,
Tacer ti prego e sofferir per poco.
Rea son io nel tuo cor; rea d’un delitto
D’ingegnoso mister dariagli il nome.
Sembra a te che il coprir di lieto ammanto
Il timore o il livor, senza disegno
Di vendetta o d’insulti, a render basti
Perfido un core e d’ogni stima indegno?
E che donna regal che la sua pace
Simulando procacci, in faccia al mondo
Delinquente apparisca, e sposo e regno
Perda, e fama e decoro, e soffra quanto1
Soffrir dovrebbe una tiranna, un’empia?
Esaminiam della mia colpa il fonte.
Gelosia mi sedusse; e qual più forte
Prova di vero amor può darsi in sposa,
Oltre un vivo timor? Mancava forse
Fondamento al sospetto? In faccia mia
Non vantossi di te Selene amante?
Africa non ti vide a lei vicino?
Non ti segue nel Lazio, e non ti chiama
Perfido, mancator? Dovea soffrirla
Senz’amaro dolor? Lasciar doveva
Che innanzi a me ti ridicesse ingrato?
Poco amor, poca stima, e scarso zelo
Mostrato avrei per lo novel mio sposo.
Dirai: dovevi palesar la tema,
Sfogar lo sdegno, e minacciar ardita.
Piacerebbeti, Enea, sposa superba
Che sapesse insultar? Di’: quella pace
Che tu venisti a rintracciar nel Lazio,
Spereresti2 da un cuor sdegnoso e fiero?
Scelsi fra dubbi miei la via men dura
Per te, per me, per la straniera istessa.
Vincerla procurai. L’affetto in uso
Posi pria che il rigore; e se giungesti
L’arte discreta e le discrete mire.
Allor che amasti, e abbandonar pensavi
La tua bella Didone, hai tu svelato
Crudelmente il disegno, o pur cercasti
Differirle la pena, usando ogni arte
Per trattener le lagrime scorrenti? (Enea si agita
Ti ho toccato nel cuor; comprendi adesso
Se colpa è il simular, e vedi quanto
Maggior ragione a finger mi costrinse.
Fui gelosa di te, lo sono ancora,
E lo sarò finchè non dia Selene
Altrui la destra, e il mio timor sia spento.
Se sia ver quel ch’io narro, Acate il dica,
Acate cui tentai d’unir Selene.
Ma Selene, cui noto è il suo costume,
Sposo non ama agl’imenei forzato.
Finalmente m’aperse il Ciel cortese
A migliore speranza un nobii varco.
Quest’Ascanio, signore, in cui la terra
Fida l’alte speranze, e quando mai
Svilupperà que’ fortunati germi
Cui l’Italia sospira e Troia e il mondo?
E nel fior dell’età; di amor le vampe
Sente già nel suo cuor. Più degna sposa
Gli potresti tu dar? Potresti meglio
Compensar di Selene i mali estremi
Derivati da te, che darle un figlio
Parte del sangue tuo? Mancar ti puote
Nell’Italia feconda ampio terreno
Per stabilire alla tua prole un seggio?
Credi, non spiacerebbe al prode Ascanio
La vezzosa Selene, a lei non spiace
Il fervido garzon. Osserva in esso
Quel modesto rossor che parla e tace.
Sposa lieta m’avrai... Ma ohimè, che dico?
Sposa tua più non son; rea mi dichiara
Il severo tuo labbro. Un lieve fallo
Tanto spiace ad Enea, che abborre il nome
Del più tenero amor. Calpesta i dritti
Della fè, dell’onore; imprime in fronte
A una figlia regal d’obbrobrio un segno.
Infelice Lavinia, ah! che mi resta
Fuor di morte a sperar? Pietade, amici.
Non la chiedo ad Enea, che il duolo e il pianto
Crederà una menzogna: a voi la chiedo;
Voi pregate per me. Vi è noto appieno
Il mio cuore qual sia. Barbaro amore,
Fosti tu la mia colpa. Ah! sei tu solo
Nell’afflitto mio cor la pena estrema.
Enea. Ah! Lavinia, non più; quel pianto amaro
Temer non posso e giudicar menzogna.
Se fingesti con pena, e se virtude
Parveti il simular, se onesto è il fine,
Scuso l’inganno, e ogni spiacer mi scordo.
Tu perdona, mia cara, al giusto, al santo
Amor di verità che m’arde in petto,
E di qualunque finzïon si sdegna.
Pur troppo, è ver, che per amor mi valsi
Di tal arte con Dido, e sdegno ho meco,
Ma in te d’amor la stessa colpa io scuso,
E t’amo e stimo, e sposa mia ti abbraccio.
Ascanio. Ciò non basta, signor; se altrui non leghi
Di Selene la man, Lavinia è inquieta.
Enea. Oh! saggio figlio, che provede al bene
E alla quiete d’altrui! Lo zelo intendo
Che il cor t’infiamma, e a parlar move il labbro;
Ma vuo’ render giustizia in un sol punto
A due figlie reali. Abbia Lavinia
Quello stato che merta. A te destino
Di Turno il regno, e la donzella in sposa.
Lavinia. Or sì che lieta sposo mio ti chiamo,
E t’abbraccio contenta, e ti prometto
Perpetuo amor, sincerità perenne.
Ascanio. Pietoso genitor, grazie ti rendo.
Selene. Scusa, Enea, del mio cuore amori e sdegni.
Te mio benefattor, padre e signore
Sempre mai chiamerò.
Perennio. (Pianger m’è forza
Per estremo piacer). (da si
Acate. Signor, mai sempre
Pietoso fosti, e ne raddoppi il vanto.
SCENA IV.
Claudio e detti.
Vuol che ad esso si renda. Arde di sdegno
Contro te, contro lei, nè vuol che resti
Fra i Troiani in ostaggio una sua figlia.
Enea. Di’ che venga a veder la degna figlia,
Fatta sposa d’Enea.
Lavinia. Supplica il padre
Che a parte venga del piacer ch’io provo.
Claudio. (Come l’instabil Dea cangia d’aspetto!) (da sè, e parte
Enea. Fumi l’ara d’incensi, e al sagrifizio
Sian le vittime offerte. Unite in rogo
Sian le spoglie serbate ai sacri Numi,
E tra fiamme giulive ardano, e Giove
Tuoni a sinistra, e i nostri doni accetti.
(si eseguisce da Sacerdoti quanto Enea ha ordinato
SCENA ULTIMA.
Latino, Claudio, Soldati e detti.
Renda giustizia al sangue mio, nè voglia
Un re amico pagar con sdegni ed onte?
Enea. Deh perdona, signor; confesso il torto,
E ne ho pena e rossor. Merta Lavinia
II rispetto e l’amor. L’amo, ed apprezzo
Il suo cor, la sua destra e il sangue illustre.
Ecco l’ara, ecco il Nume; altro non manca,
Che il cenno tuo per vincolar due cuori.
Lavinia. Deh, padre mio, non ritardare il cenno.
Latino. Non m’oppongo. Si faccia, e il Ciel n’arrida.
Enea. Dammi, sposa, la destra.
Lavinia. Deh! preceda
L’imeneo di Selene.
Enea. Ancor ne temi?
Porgi, figlio, la destra alla tua sposa.
Ascanio. Eccola. Oh me felice!
Selene. Oh amico fato!
Enea. Sei contenta?
Lavinia. Lo sono. Eccoti, o caro,
La mia mano e il mio cor. Vivi sicuro
Di mia sincerità. Sol se dicessi
D’amarti poco, lo direi fingendo.
Enea. Compito è già del sagrifizio il rito.
Scenda il chiaro Imeneo di pace empiendo
Del Tirreno le sponde e Italia tutta.
Ecco Troia rinata, ecco l’impero
Che promisero i fati alle nostr’armi.
Enea regna nel Lazio, e il Tebro aspetta
Figli da lui, che daran legge al mondo.
Deh! si avveri il presagio a me svelato
Figlio, mi disse, il sangue tuo sul Tebro
Secoli regnerà. Superbia alfine
Troncherà il corso della sua fortuna;
E vedrassi d’Eroi dal più bel seme
D’Adria nel sen rinnovellar l’impero.
Fine della Tragedia.