Discorso economico sopra la Maremma di Siena

Sallustio Bandini

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DISCORSO ECONOMICO


SCRITTO


DALL’ARCIDIACONO


SALUSTIO ANTONIO BANDINI


PATRIZIO SENESE


Nell’anno 1737.


E PUBBLICATO NELL’ANNO CORRENTE 1775.


DOPPO LA DI LUI MORTE SEGUITA


NEL 1760.







IN FIRENZE L’ANNO MDCCLXXV,

per gaetano cambiagi stampator granducale


CON LICENZA DE’ SUPERIORI.
Il merito dell’Autore, e l’occasione del
discorso si possono vedere negl’Atti dell’
Accademia Fisiocritica di Siena
Tom. III.
a c. 307.
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DISCORSO





I
L fine mio si è intraprendendo Intento di questo discorso a discorrere della Maremma di Siena, d’adempier prima l’obbligo, che corre verso del mio Sovrano, additandoli umilmente come da questa Provincia ora sì povera ed abbandonata può ricavare vantaggi considerabilissimi pel suo Erario, e sollievo per gli altri suoi sudditi; in secondo luogo di ovviare a danni della mia Patria, la quale dietro alle rovine della Maremma, và ancor essa precipitandosi; e finalmente di giovare a tutta la Toscana, la quale ne [p. 4 modifica]pascoli, ne grani, ne Bestiami di quella può in caso di bisogno avere un idoneo Mallevadore.

Si propone libertà di molte ordinazioniVi sono alcune infermità, che altrimenti non si curano, che con un poco di aria aperta, ed i Medici medesimi dopo di avere sperimentati o nocivi, o inutili gli altri medicamenti me danno il consiglio. Questo è il rimedio, che io proporrò da tentarsi nel corpo languido della Maremma; deve lasciarvisi oprar la natura, deve regolarsi con poche leggi, e queste semplici ed a portata di Pastori, e di Agricoltori, bisogna dilatare il cuore con qualche respiro di libertà per ristorarla da quelle impressioni maligne, che cagiona una vita stentata priva di ogni ricreazione, e nella continua orrenda vista di terre desolate, ed incolte.

Ma conveniente a’ Vassalli Guardimi però il Cielo, che nel nominare, che io so questa aria di libertà, mi venga pure in mente di derogare in parte alcuna a quella suprema autorità, [p. 5 modifica]che deve riserbare il Principe sopra qualunque suo Vassallo, che anzi dico, che questa è necessario di adoprarsi maggiormente tra popoli incolti, e che altra ragione per lo più non riconoscono, che il loro interesse, le loro passioni; E però quando lecito ancora mi fosse non saprei desiderare ad essi una libertà tanto pericolosa; che se mi ingegnerò alle volte di persuadere di alleggerirvi il numero dei Ministri, de Giudici, degli Esecutori della Giustizia, farò insieme vedere, che l’essere molti a comandare non giova niente al miglior servizio del Sovrano, e per non aggravare i sudditi inutilmente, deve di necessità cessare l’Ufizio di quelli, che vegliano alla custodia di alcune leggi, le quali secondo me dovrebbero torsi di mezzo come perniciosissime.

Si promette di scuoprire il male.Se la Divina Misericordia compatendo agli stenti di una Provincia sì desolata, ed afflitta, mi darà la grazia di esporre vivamente sotto degli occhi i disordini, che [p. 6 modifica]cagionano tanto esterminio, mi crederò di avere ottenuto l’intento di questa piccola mia fatiga senza pretendere di passare più oltre, e farmi autore di un nuovo metodo da praticarsi in avvenire. Quando averò dimostrato, che senza scapito alcuno del Regio Erario, senza accrescere inquietudini a chi governa, col solamente permettere a Maremmani l’uso di quella buona legge, che concede a qualunque debitore di pagare in quel modo, che più li torna in acconcio i suoi debiti, i suoi tributi: può questa Provincia mutar faccia, divenir ricca, e felicitare il rimanente della Toscana; Io mi lusingo, che faranno i Supremi Ministri a gara, per immaginare da se medesimi, e proporre sotto gli occhi del Sovrano quella mutazione di Governo, che stimeranno la più adattata per ottenere questi vantaggi.

Non farò altro adunque in questo discorso, che quello, che costumano di fare i familiari, e domestici di un infermo; ne [p. 7 modifica]descrivono questi la complessione, i disordini, le cagioni della malattìa, acciocchè quindi il Perito pigli lume per ordinargli i medicamenti, e prescrivergli il metodo da tenersi in avvenire: E siccome non si biasima il zelo di costoro, quasi pretendessero di rimproverare al Perito la minor pratica, che egli ha dell’Infermo, così spero, che quei supremi Ministri, i quali hanno l’autorità sopra questa Provincia, gradiranno di essere informati de’ suoi andamenti, da chi vi ha interesse, e prova in pratica le cagioni delle sue rovine.

Argomento odioso a prima vista.Vedo bene, che io intraprendo a difendere una causa di pessima faccia, e che non vi è condizion di persone, cui non debba far ombra, ed apparite in qualche parte odioso il mio ragionamento. Gli Artisti, e la Plebe se li lanceranno contro in sentire biasimare la tanto desiderata Bonaccia, i Mercatanti paventeranno che ne venga danno a loro appalti; che più? Gli istessi devoti, e persone da bene si [p. 8 modifica]scandalizzeranno, quasi da me pretendasi di affamare i poveri meschini, e di vedere succhiato il sangue loro da Nobili, e da Facoltosi: e questi non potranno del tutto gustare quei compensi, che sono necessarj, acciocchè non scapiti il Regio Erario, in tor via quelle Gabelle, che furono la cagione di tante rovine.

E pure talmente confido nella forza di quel vero, che io maneggio, che non darei per sospette nel giudizio di questa Causa, se non quella condizione di persone, che si pascono, dirò così, di Carni morte, cioè, che si arricchisce in un Processo, in una Cattura, nella rovina di una famiglia, o di un intiero Castello, che fabbrica nella rovina del Pubblico le sue fortune; Anzi quantunque io preveda pur troppo, che questi tali saranno capaci colle loro astuzie di impedire, che queste verità arrivino alle orecchie dei Supremi Ministri nude, e schiette, quanto bisognerebbe per l’interesse del Sovrano, e dei suoi Vassalli, mi [p. 9 modifica]assicuro però, che niuno intraprenderà mai di contrastarle distesamente, ed a faccia scoperta; Ma come che io propongo un Edifizio, che farebbe ombra a quei luminosi Posti, che essi godono, si ingegneranno destramente ad ingrandirne la difficoltà, a criticare i difetti più minuti di questo disegno, ed esagerare l’imperizia dell’Architetto, ma non si arrischieranno mai a dire, che non vi sia necessità di pensare a un nuovo regolamento.

Non vorrei però, che alcuno mi credesse così ardito, e fuor di senno, da essermi venuto pur in mente di restituire alla Maremma quella piena felicità, che godeva nei tempi degli Etruschi, o de Romani, e fino a due secoli avanti a noi; conosco che della declinazione universale deve prima di ogni altra risentirsi questa Provincia, la quale tra le altre sue disgrazie, ha lo svantaggio di essere aggravata da un Cielo naturalmente nemico di Popolazione. [p. 10 modifica]

Fino a qual segno possa migliorarsi la Maremma. Non estendo più oltre la mira, che all’età dei nostri Vecchi per meno di un secolo sopra noi, quando dugento mila scudi almeno entrando ogni Anno nella Toscana per questa porta, arricchivano oltre la Città di Siena anche le montagne del Casentino, e di Pistoja, le quali mandandovi migliaja di Lavoratori, che sarebbero altrimenti rimasti oziosi fra le loro nevi, se li vedevano poi tornare alle case svernati, e capaci coi guadagni fatti, di soccorrere la famiglia, di sodisfare senza grave incomodo anche il Principe de suoi Tributi. Fino a questo segno sostengo, che sia facile restituire la Maremma in brevissimo tempo, senza che nè il Sovrano, nè i sudditi siano obbligati di contribuirvi pure un denaro: ed entrerei ancora mallevadore, che sarebbono di ritorno quei tempi, quando lo Stato di Siena era tenuto per la seconda preziosa gioja della Corona Reale; e non riputavasi come in oggi, quasi una parte morta, e di peso al rimanente della Toscana; [p. 11 modifica]Onde a mio credere se la pigliano contro tanti moribondi, perchè non caminano quanto facevano da sani quei Ministri, che si affaticano a reggervi nell’antico piè, chi una, chi l’altra Gabella, e niente pensano a restituir loro i medesimi spiriti vitali, che già tramandava la Maremma, a procurare, che di nuovo acquisti tutto lo stato il primiero vigore.

L’accrescere i rigori l’è pernicioso.Credono questi d’acquistarsi merito col Principato, se non lasciano indietro alcuna di quelle esazioni consegnate alla loro vigilanza ed allora, che qualcuno rimane indietro, badano ad aggiungere de soprasselli a quei pochi, che si reggono ancora in piedi, senza pensare, che presto si abbandoneranno ancora questi. Meritano certamente dal Principe costoro la gratitudine medesima, che aver dovrebbe un privato Cavaliere ad un suo Fattore di Campagna, il quale si gloriasse di averli anche nelle raccolte meschine mantenute le rendite senza diminuzione, col risparmio delle spese, che [p. 12 modifica]vi volevano per ingrassare i terreni, per fare le fosse, per sostenere le viti, e col guadagno fatto in vendere i Bovi, gli Alberi da frutto, e finalmente i tegoli, e le travi de Casamenti.

Eppure io credo, che il Sovrano, in eleggere a questi onorevoli incarichi Uomini di particolare, e specchiata intelligenza non pensasse d’avvilirli, d’abbassarli a una semplice, e servile esazione, ma confidasse, che saprebbono avere in vista anche i tempi avvenire, e farebbono spiccare il loro talento, in mantenere copiosa la vendemmia, senza succhiar troppo le viti, saprebbono diramare l’albero, ma insieme ne risparmierebbono il tronco; nè si dimenticherebbono mai, che le cariche pubbliche non sono fatte per caricare il Pubblico, ma per caricarsi de pensieri per assistere ai vantaggi del Pubblico.

Temo di dovere essere inteso troppo, e pure non potrò fare di meno di accennare di tanto in tanto un delicatissimo [p. 13 modifica]punto, da cui siccome è procedura a mio credere in gran parte la rovina della Maremma, così non dubito, che deva contrastarsene sempre il ristabilimento. Si sentirà, chi biasima di levare una Gabella, che affligga quel misero popolo senza utile del Principato perchè porta qualche profitto agli Ufizj, che vi presiedono: Vi si promuoverà un Appalto, per far la Carità a quello, che vorrebbe essere il primo Appaltatore, vi si farà un Bando, una proibizione perchè l’obbligare il Popolo a chiederne la dispensa mantiene gli utili del Tribunale. Appena ottenutavi una carica, credono molti, che il primo obbligo loro sia di mantenerla, e rovinarebbono senza scrupolo la Provincia, purchè quella non scapitasse di giurisdizione, d’utile, di rispetto. Onde ne segue, che per fare arrivare in mano del Principe pochi soldi, bisogna, che spendano quei Popoli molte lire, in questa sorte Vetture, s’insanguinano molte mani, s’inquieta l’Inferno, e non cadono nel Catino [p. 14 modifica]del Principe, che poche gocce, perchè tutti vogliono dargli la loro lancettata, per mostrare di essere deputati ancora Essi alla sua Cura, per non perdere l’utile della propina.

Se una Terra sia ridotta a poche misere Case, non importa, deve reggervisi il Tribunale, che si meritava quando era popolata, perchè i Nobili, ed i Notari non abbiano un pane, un impiego di meno.

Sono mancati alla Comunità i terratici, gli affitti delle sue terre, per non esservi più chi le semini, sono cessati gli utili de proventi del Macello, dell’Osteria, perchè quei pochi Abitatori, che vi sono rimasti, hanno di brighe a potersi cibare di pane, e d’acqua: contuttociò essa deve depositare nella Cassa, che la governa tutti quelli avanzi, che non vi sono più secondo l’antica tassa. Stia piuttosto senza del Chirurgo, senza del Maestro, senza del Predicatore. Si lasci di risarcire la Chiesa, che rovina, la fonte, che si inaridisce, [p. 15 modifica]suppliscano, se non vi è altro modo, que pochi, miseri, che vi rimangono, a quei che sono mancati: la Cassa deve reggersi in qualunque modo. Il Sale non si consuma perchè l’è inutile a chi non ha companatico, non ostante, perchè non scapiti questa Gabella, si obblighino quei meschini a comprarne quella porzione, che loro bisognerebbe se fossero ricchi.

Dove era Vigna, non vi è altro, che Sterpi, e Roghi, nulla dimeno il dazio deve pagarsi, e se non si trova chi abbia la disgrazia di essere Erede di quei che la possedevano, il rimedio l’è pronto, ingegnoso, e provato, si obblighi il vicino a addossarsi questo scapito. Così si stilla, si suda per reggere la Carica, ma non già i Popoli, nè l’interesse del Principato, e poi co’ gravamenti, colle Catture si tira avanti, e si arricchisce di zappe, di ferramenti, delle spoglie di quei miserabili qualche forestiero infingardo per non dire facinoroso, che sotto pretesto di promuovere la [p. 16 modifica]Giustizia, tenga mano alle ingiustizie, voglio dire un Birro vagabondo capitatovi a sorte per soverchiare colla mano armata gli innocenti, non per zelo di castigare i colpevoli.

Desolazione della Maremma. Certamente, che chiunque passeggiando la Maremma vedesse quei fertilissimi Campi ridotti di tal maniera selvaggi, che neppure gli Armenti vi pascolano, quelle Vigne abbandonate, quegli Ulivi insalvatichiti, per non trovare chi il loro frutto raccolga, tante Abitazioni, ed intiere Castella diroccare, non saprebbe persuadersi, come non fossero effetti questi o di qualche nimica incursione, o di qualche pestilenza straordinaria. Eppure se è vero ciò, che affermano, cioè, che v’abbian cagionata desolazione maggiore gli ultimi quattro lustri, che non aveano fatta quasi due secoli antecedenti, non v’anno colpa nè le guerre, nè gli influssi maligni del Cielo, non l’esecuzioni militari, ma piuttosto le Civili, e le Criminali, non i [p. 17 modifica]disordini, ma i troppi ordini, più la troppa giustizia, che le ingiustizie, l’essere troppi a regolarla, e niuno a procurar di conoscerla, non che di proteggerla.

Di qui è, che invece di promuovervi il traffico, par che siasi pensato il possibile per distruggerlo, obbligando quei venditori a rimettersi sempre alla discrezione de compratori: volendo, che si osservino in Maremma quelle Leggi, che tendono ad avvilire le vettovaglie, perchè questo torna conto, ed è ben fatto in altri luoghi, dove bisogna comprarne, e si scusano poi col rifondere nella pigrizia, e dappocaggine di quei miseri abitatori tutta l’origine, e la cagione del loro annichilamento.

Io negar non posso, che l’aria della maremma, infettando i corpi, e riducendoli incapaci di molte fatiche, non possa addormentare qualche poco anche lo spirito; ma dico, che dove una mercanzia, o non si vende, o si vende meno, di quello, che costa, può giovare l’industria, per [p. 18 modifica]diminuirvi lo scapito, ma non mai per trovarvi guadagno.

La Sementa costa denaro. Suol computarsi in Maremma sessanta scudi la spesa, che si richiede nel seminare un Moggio di Grano, e ridurre il suo frutto nel Granajo. Se questo frutto fossero moggia sei computandosi un annata per l’altra, e il terreno fertile collo sterile, non vi sarebbe da lamentarsi della raccolta. Ma se poi le moggia sei non rendono la spesa di sessanta scudi, resta in perdita il negoziante. Se in un anno sterile, quando il minor frutto non può compensarli altrimenti che col maggior prezzo, si serrano le tratte, e si vuole mantenere il prezzo ordinario: si studi, e si mediti quanto si vuole il traffico và fallito.

Io non intendo tassare adesso la spesa che si richiede in tirare a porto un Moggio di Grano di sementa, anzi che credo, che l’industria del Mercatante possa spiccare unicamente nel trattarla con qualche risparmio: desidero bene di mostrare, che le [p. 19 modifica]semente in Maremma costano denaro, non potendosi quivi praticare l’uso delle mezzarìe, dove il Padrone rifondendo nel colono tutte le spese, si trova a puro profitto la sua metà: E però i Maremmani, quando manchi un adeguato equilibrio del prezzo del Grano colla spesa, che ci si è fatta, devono necessariamente andare in aria.

Bisogna, che mi spieghi per non entrare in sospetto di volere in questo discorso fare, come suoi dirsi l’Avvocato delle Carestie, che sono de’maggiori castighi, che Iddio soglia adoprare per nostra punizione.

Col nome di Carestia, che ci castiga intendo quando manca nel Paese la vettovaglia corrispondente al consumo, tanto più se non vi è denaro da provvedersi della forestiera, senza che il Paese stesso vada in iscapito manifesto, onde i Cittadini, gli Artieri, gli Agricoltori medesimi debbono stentare di fame: e dico che questa non può desiderarsi neppure senza [p. 20 modifica]peccato, non che pretendersi di persuaderla, perchè sarebbe non solamente il desiderar di arricchirsi colla roba di altri, ma di ingrassarsi crudelmente eziandio col sangue dei poveri.

Ma dicesi ancora carestia, quando si vende la vettovaglia a caro prezzo, non per colpa della raccolta, non per la mancanza, che ve ne sia nel Paese, ma per lo spaccio che abbia in altre Provincie, e di questa sostengo, che non solamente sia lecito di desiderarla, ma sino ad un certo segno discreto, di procurarla eziandio come quella che riempie di denaro il Paese, e che accrescendo il guadagno agli Agricoltori fà fruttare anche i terreni più sterili.

Dico ancora, che collo sfuggire troppo questa seconda, procurando la bonaccia, che vuol dire un avvilimento tale di prezzi, che ristringa la cultura a migliori terreni e come suol dirsi, a soli tuorli di uovo, si deve necessariamente cadere in [p. 21 modifica]braccio della prima vera carestia, che ci castiga, non essendovi mezzo più efficace, che a quella conduca, che il mettere in necessità quei che seminano di diminuire, o abbandonare totalmente i loro lavori.

Se nelle mezzane raccolte un moggio di Grano, acciocchè possano i venditori ed i compratori campare dovrebbe valere dieci scudi; Dio mi liberi dal desiderare, che vaglia venti, vorrei, che il giusto prezzo si mantenesse, per quanto sia possibile; Ma se qualche piccola alterazione non possa alle volte sfuggirsi, vorrei che seguisse piuttosto nel più, che nel meno, temo i sei, e gli otto scudi più che i dodici, ed i quattordici, sì col riguardo che nei vili prezzi entra nel Paese meno denaro, così è molto più, perchè trascurandosi le semente, siamo più esposti fallendoci poi una raccolta o due al prezzo esterminatore dei venti, che sorprendendo un Paese scarso di denaro, lo fa morire di fame senza rimedio. [p. 22 modifica]

Non deve pretendersi, che alcuno venda meno di quello che costa. Non vi è Artiere, non vi è Mercatante, a cui si faccia dai compratori questo torto di pretendere, che vendano a scapito; la sola Agricoltura, che secondo ogni buon senso, e secondo le Leggi, e naturali, e civili, dovrebbe essere la più privilegiata, e dalla quale dipende tutta la sussistenza, la felicità di tutti i mestieri, di tutte le professioni, trova in Maremma questa disgrazia. E quello, che l’è più mirabile, pare che le persone più devote, e più pie si credano più degli altri obbligate dal loro zelo verso dei poveri, degli Artieri a promuovere una sì palpabile ingiustizia, come se qualunque Arte, qualunque professione non avesse una visibile connessione coll’Agricoltura, e non potesse provvedersi a poveri altrimenti, che col rendere necessitosi gli Agricoltori contro la disposizione della provvidenza, la quale con dichiarazione espressa nel superfluo di questi li provvede del loro pane.

Bonaccia rovina le Arti. E certamente vedrebbono, che si [p. 23 modifica]scaldano all’incendio della propria casa gli Artieri di Siena, se concepissero, che quel piacere del grano, che risparmia loro in qualche anno alcuni scudi; se necessita i Maremmani, ad abbandonare i loro lavori, l’è un seme di carestie. Ed oltre a ciò più non vedranno venir costoro per provvedersi alle loro botteghe, chi per rivestire la famiglia, chi per provvedere i lavoratori, chi per gli arredi degli sposalizi, quello per procacciarsi il necessario, quell’altro per aggiungerli il comodo, e il voluttuoso.

A principiar da quelle Arti, che servono al piacere, alla magnificenza, e discendere poi allo scarpinello, al mendico, non si sentono, che lamenti nella Città. Se si riguardano eziandio le Casse Fiscali, la Curia, il Clero, e le altre nobili professioni, non vi è, chi possa sussistere. La nobiltà medesima se ne viene meno, e quantunque siansi riuniti in un solo i Patrimonj di molte famiglie, pochi sono che [p. 24 modifica]abbiano il coraggio di maritarsi, e se il popolo scema, la povertà moltiplica sempre più, ed ogni condizione di persone mormora poi dell’altra, e sentendosi mancare l’alimento ne incolpa l’ingordigia di quella senza riflettere, che per lo più si secca il ramo dell’albero, non perchè l’altro li tolga il sugo, ma perchè la radice non tramanda, ed è scarsa per tutti.

Questa radice è l’Agricoltura, e contro di lei tutte le altre Arti si uniscono a fare tumulto, ed in vece di coltivarla, di fecondarla, la strapazzano, la vogliono inaridita. Non altrimenti che se fossero tanti branchi di armenti, ai quali perchè dell’erbe, e delle ghiande si pascono, poco importa che alcuno si affatichi a lavorare le terre, a seminare i grani, a piantare vigne, a coltivare frutti.

Felicità commune dipende da quella dell’Agricoltura. Non è così facile, che gli Artieri, i Mercatanti, e quei, che senza possedere Ville, e Terreni, si trovano provveduti d’ampie rendite di denaro, considerino, [p. 25 modifica]che la loro, niente meno, che l’altrui felicità sempre, ed indispensabilmente è legata con quella dell’Agricoltura.

Credono essi non avervi altro interesse che di desiderare di risparmiarsi qualche soldo il giorno nel pane, nel vino, che loro abbisogna; meglio per me se il grano valesse tre crazie lo staio, dice quel Commediante (piglio in esempio un Arte disgiunta dall’Agricoltura, quanto altra mai) mi farebbe qualche risparmio; e non considera, che farebbe forse terminarli allo Spedale i giorni suoi; poichè se i Nobili restano senza frutto dei loro terreni, sara il Teatro forse la prima Bottega, che resti senza avventori; se non potendo esigere da loro i suoi crediti il Mercatante, il frutto dei suoi Censi il Cittadino, se perderanno l’Arti più nobili il loro guadagno, l’impresario all’aria: e questa Arte, che pel servire, che fa al puro piacere crede di non avere alcun legamento colli stenti della campagna anderà la prima in rovina con essa. [p. 26 modifica]

Avanzerà grano, è vero, avanzerà vino, ma senza potere tirare avanti i suoi lavori, senza potere neppure rivestirsi all’Agricoltore, se queste cose, che ha di superfluo, non hanno spaccio. Potranno, è vero viver con pochi soldi il Mercatante e l’Artiere, ma stenteranno a vederne pure uno, perchè necessitato a stare ciascheduno nei proprj cenci, non troveranno richiesta i loro mestieri.

La Pittura, la Scultura, l’Architettura, come Arti nobilissime, che servono piuttosto all’accrescimento, che alla conservazione del grado, prima delle altre si perdono: la Curia cessando le contrattazioni, resta inutile, scemano le oblazioni alle Chiese, ed impossibilitandosi al Principe l’esazione dei suoi tributi, stagnano li stipendi, vacillano i luoghi di Monte, ed ogni cosa viene meno, finchè sopravvenendo una spaventevole Carestia all’universale impoverimento, che suole essere come si è detto, l’effetto ordinario [p. 27 modifica]di quelle bonacce, che mettono in perdita l’Agricoltura, non vi è modo di ripararsene, bisogna morire forzatamente di fame.

Nei luoghi ancora di puro traffico. Questo è un Discorso, che se non con tutta la sua forza, almeno può con una discreta proporzione applicarsi generalmente ad ogni Arte, ad ogni professione, a qualunque condizione di persone per tutti i tempi, per tutte le Provincie, e Città, senza eccettuarne neppure i Porti di Mare ed i Luoghi di puro traffico, perchè ancora questi devono risentirsi, ed aver danno dall’eccessiva abbondanza di una Provincia, la quale senza spacciare le sue grasce, non possa restare in grado di comprare le loro mercanzie.

Perciò privilegiata. Ed è un punto, il quale non ha bisogno di essere autenticato, o cogli antichi esempj dei Greci, degli Ebrei, e dei Romani, o colla moderna pratica di altre ben regolate Nazioni, le quali tennero sempre in grande onore, privilegiarono, e venerarono l’Agricoltura sopra qualunque scienza, sopra [p. 28 modifica]ogni Arte, ogni traffico, ogni guadagno; poichè basta un poco di riflessione, per conoscere ad evidenza, che non vi è pietra tanto ben collegata con un edifizio, quanto la felicità comune è unita, e dipendente dall’Agricoltura, e che sarà sempre impossibile che si mantenga quella, quando questa resti atterrata, come pur troppo se ne vede un funesto esempio nella Maremma, dove l’aver messe a perdita le semente coll’avvilimento dei prezzi dei grani, vi ha cagionata desolazione maggiore, che non seguì in quei secoli infelici, quando dalle incursioni dei Mori trovavasi ogni dì saccheggiata.

A segno che starei per dire, che se si potesse recidere dal corpo dell’Italia, e della Toscana questo vasto Paese, allargando al Mare i suoi confini, acciocchè lo sommergesse, sarebbe minor male, di quello, che provasi presentemente che queste Campagne sono annientate solamente riguardo al frutto, che il Principe, o i [p. 29 modifica]Possessori, ed Abitatori di Essa possano promettersene.

Ma pare, che vadano sempre dilatandosi, comunicando l’infezione alle vicine Provincie, e partecipando la loro debolezza anche alle lontane. Onde andandosi di questo passo, bisogna prepararsi a vedere presto nel cuore de l’Italia un immagine de’ deserti più impraticabili dell’Africa ripieni di fiere, e di malviventi, che inquietino i paesi vicini, e minaccino di comunicare alla Toscana tutta il contagio maligno.

La scarsezza di denaro non è cagione di doversi avvilire i grani. Nè vale la replica di alcuni, i quali tutti intenti a proteggere le Arti, e le Città, che sono Capo di Provincia, si credono necessitati per adattarsi alla scarsezza del denaro, che provasi nei nostri tempi, a procurare che le cose necessarie al vivere diminuiscano di prezzo a proporzione di questa diminuzione di denaro, affine che possano reggersi gl’Artieri, e la plebe abbia modo di sostentarsi, poichè [p. 30 modifica]questo loro discorso camminerebbe quando si adoperasse la medesima autorità, acciocchè le mercedi eziandio dei Giornalieri, ed i lavori, e le mercanzie diminuissero alla medesima proporzione; altrimenti la povera Agricoltura vi perderà, e resterà sopraffatta dalle Arti.

Perchè se per esempio il Calzolaio sostentava se, e la sua famiglia a vendere ad un certo prezzo le sue scarpe, il Giornaliere col ricevere una certa mercede per la sua opera, quando le grasce valevano il doppio, in oggi che si è dimezzato questo valore, sarà raddoppiato ad essi il loro guadagno, e però, o presto si arricchiranno, oppure come per lo più succede, si daranno alla pigrizia, giacchè la metà della fatiga basta per sostentarli ugualmente.

Al contrario l’Agricoltore, a cui non costa in oggi niente meno il suo Grano, se deve darlo a mezzo prezzo; se al Calzolaio, al Mercatante, al Giornaliere, invece di una misura deve darne due per [p. 31 modifica]avere il suo bisogno anderà in perdita manifesta. Bisognerebbe pertanto, che quei che hanno tanta compassione a poveri della Città, compatissero qualche poco i poveri della campagna, e per mantenere un giusto equilibrio diminuissero il valore delle mercanzie, delle Opere, e degli Artieri, a misura, che avviliscono le Grasce; altrimenti rovineranno prima la Campagna con metterla in scapito evidente, poi le Arti medesime, al principio dando loro occasione d’impigrirsi, poi privandoli di tanti avventori, quanti sono i lavoratori della Campagna con tutti quegli altri che dai terreni ricavano le loro entrate; i quali se bene si considera, non ostante la desolazione nella quale trovasi questo Stato presentemente, saranno in numero dieci volte maggiore, che non sono gli Artieri.

Se non si avviliscono a proporzione anche le mercedi. Che se l’è difficile anzi ancora impossibile l’alterare ogni giorno i prezzi delle mercanzie, delle manifatture, delle mercedi, potrebbono sospendere almeno fino a [p. 32 modifica]qualche straordinaria penuria di intrigarsi colla loro autorità per avvilire quelli delle grasce, e lasciar che ciaschedun mestiere ti aiuti, perchè se la scarsezza del denaro tanto decantata fia vera, e reale, si vedranno senza alcuno artifizio, e di lor natura medesima di ritorno i prezzi di tre secoli antecedenti quando tanto nelle grasce, che nelle manifatture spendevasi il soldo, per quanto si spende la lira presentemente.

Certamente collo sforzare la natura abbassando i prezzi delle grasce, non si vede che neppure le Arti se ne sollevino, e l’esperienza dimostra, che queste sono certe piante, che non amano il terreno troppo grasso, perchè si fatica ordinariamente a misura, che si è stimolati dalla necessità. Ed oltre a ciò ogni Arte ha bisogno di spacciare i suoi lavori, e che la sua opera sia richiesta, e se non vi è nel Paese chi abbia denaro d’avanzo, vanno come si è detto a terra quelle Arti, che servono alla magnificenza, e al [p. 33 modifica]piacere; e se vi è il denaro per appunto, si moderano le spese anche necessarie, e si stenta di qualche cosa per tirare avanti.

Prezzi alti raffinano le arti. Vorrei appellarmene non solamente agli Artieri di Siena, che l’è una Città la quale non ha altra sussistenza, che col vendere ai forestieri le Grasce che sopravanzano; ma a quelli eziandio di Città di gran traffico, di gran commercio, perchè colla loro esperienza decidessero questo punto, cioè quali anni siano per li loro mestieri stati i più felici, o quei del vile, o quei dell’alto prezzo.

Per quello, che mi ricordo della nostra Città, discorrevano i nostri vecchi del 1677, quando il Grano arrivò al prezzo di dieci lire, come se fossero stati i secoli d’oro.

Era è vero carissimo il Grano, dicevano essi, ma il denaro in abbondanze suppliva a gravi bisogni. Trovavasi sempre il lavoro col pagamento pronto. Il tale fece quella Fabbrica, quell’altro quella coltivazione, quell’altro messe in piedi il suo [p. 34 modifica]Negozio. Se non bastava il guadagno trovavansi degli imprestiti, e per i poveri medesimi le limosine moltiplicavano. Che più? Noi medesimi in quattro anni di raccolte infelicissime, e forse senza esempio, cioè dal 1733. al 1736. nei quali abbiamo sperimentato pur troppo il saggio di quella carestia, che ho chiamata sterminatrice, poichè ha costretto il Pubblico, ed i Privati a sostentarsi a caro prezzo del Grano forestiero: tuttavia non abbiamo in vista, o si guardi la Città, o lo Stato una declinazione uguale, e corrispondente a quella che ci cagionarono altrettanti fertilissimi anni antecedenti in ciascheduno dei quali potevano additarsi nelle nostre campagne, e poderi abbandonati, e capitali di bestiami dismessi. Anzi che fra gl’Artieri medesimi parevano ultimamente calmati quei lamenti continui, coi quali ci assordivano per non trovare da fare, per non vedere denaro con che pagare la pigione, e provvedere le loro botteghe. La povertà [p. 35 modifica]ancora ha stentato è vero, ma forse non più del suo solito, e quantunque io non neghi che la fame, e gli stenti n’abbiano macellato qualche porzione con tutto ciò non è facile il dimostrare, che questa sia stata maggiore in questi anni di penuria, che negli anni antecedenti di abbondanza continua.

Io non pretendo già con questo mio dire, che col mandare via il denaro, col perdersi in questi anni il frutto dei nostri campi siasi arricchito, nè felicitato il Paese. Anzi dico, che se la Divina Provvidenza non ci avesse preparata la difesa contro annate sì meschine col denaro, che ci hanno lasciato le Truppe Forestiere, ci saremmo totalmente distrutti. Ma dico bensì, che noi non ci saremmo mai lusingati di potere scappare, quasi senza accorgercene dalla burasca di anni sì penuriosi, e che il male nostro è stato nel denaro, che abbiamo perduto, più, che nel prezzo eccedente, che si è venduto quel poco di [p. 36 modifica]grano, che avevamo, e che però possiamo aspettarci, che siccome la perdita delle forze si rende più sensibile nella convalescenza, che nel calore della malattia, così la perdita del denaro che abbiamo fatta ci apparirà sempre maggiore a misura che il grano perderà in avvenire la sua stima.

Mi converrà dunque allontanarmi un poco in questo mio Discorso dalla Maremma per sradicare, se pure è possibile, un opinione, che ha cagionata la sua rovina, e che potrebbe dirsi il più fatale effetto di quel Pianeta maligno, il quale secondo uno dei nostri Astronomi minaccia in questi tempi all’Italia l’ultima desolazione.

Si pretende di rimediare alla mancanza, che abbiamo di denaro, coll’avvilire al possibile i prezzi dei grani, acciocchè gli Artieri, ed i poveri arrivino a sostentarsi: ed io dico, che per questa ragione medesima della scarsezza del danaro, dovrebbe procurarsi di sostenere in istima le [p. 37 modifica]grasce per reggere un poco di commercio almeno con queste, acciocchè gli Artieri non rimangano oziosi, ed abbiano come vivere, e credo, che questo sia necessario nientemeno, che in una Piazza assediata il supplire alla mancanza della moneta col trasferire il valore di quella in un pezzo di quojo, o di piombo, o di carta improntata.

E farò vedere, che il costume, che aveva la nostra Città, quando il suo Stato era in popolazione sette volte maggiore, cioè di lasciar correre i prezzi, e permettere libero l’esito dei grani alla Marina senza pigliarsi altro pensiero, che di farne venire da altri paesi, quando le denunzie apparivano minori del bisogno, il che rare volte accadeva, prima che i nuovi provvedimenti ci costringessero a lasciare incolte le nostre campagne, era più profittevole, che qualunque industria di nuova moda. Stimo inutile il fermarmi a mostrare il ridicolo, e le pessime [p. 38 modifica]conseguenze che deve portare seco quel raziocinio, che a mio credere può venire in mente a qualche Mercatante appassionato per ostentare un privato interesse, ma non mai essere ammesso da uomo ragionevole. Si dice la Città è scarsa di denaro, dunque per reggere le Arti bisogna correre al piacere nel grano forestiero, e mortificare i Nobili, e gli Agricoltori, perchè imparino a adattarsi a loro bisogno. Questo si è lo stesso, che dire bisogna disfarsi di quel poco di denaro che vi è rimasto, ed acciocchè si reggano le Arti, ridurre i Nobili a non potere impiegarli nel loro lavoro, costringere gli Agricoltori ad abbandonare le semente.

Ciascun conosce quanto sia orrendo questo raziocinio, e capace in pochi anni di condurre l’Italia tutta nell’ultima desolazione, poichè lo spendere per desolare le nostre Campagne, si è lo stesso, che comprarsi una necessità sempre maggiore di grano forestiero, e di dovere perdere il [p. 39 modifica]doppio di denaro anche negli anni avvenire: l’è un danno così raddoppiato da ridurci in pochi anni senza Grano, e senza un denaro da provederlo.

Io non voglio pigliarmela con un raziocinio sì sciocco, che si scredita da se medesimo, ma voglio pigliarmela con quell’idea di porre ogni industria per avvilire sempre più il prezzo dei Grani anche senza mandare fuori di Stato il denaro quando sono i prezzi vilissimi, vuotando i Pubblici Magazzini perchè i Fornaj non comprino, quando la necessità stringe i Nobili, e gli Agricoltori a dover vendere, serrando, o lasciando incerte le Tratte, o con altri simiglianti modi, che sono ormai ridotti in un ordinario costume.

Cagioni del moto, che piglia il denaro. La moderna Filosofia, poste alcune generali, ed invariabili Leggi del moto, spiega molti fenomeni della natura, i quali altrimenti parrebbono impercettibili: parimente nell’ordine politico, senza conoscersi le cagioni, che danno moto al [p. 40 modifica]denaro, e raggirano il commercio, è facile l’ingannarsi.

Succede dell’oro nel commercio, come di una Fiaccola in mano di un Fanciullo, che pare, che faccia un cerchio continuato di fuoco, se venga raggirata con velocità. Così una piccola somma di oro, se si raggiri velocemente da una mano in un altra, abbaglia l’occhio, e par, che moltiplichi se medesima. Perchè un solo scudo, che passerà da una in altre mani cento volte in un mese, mantenendo ugualmente il commercio, che cento diversi scudi, che non facessero in questo tempo altro, che un solo passaggio nella seconda mano, farà figura di cento scudi provvedendo ciascheduna di questo cento persone, che lo spesero, del loro bisogno per l’intiero valore di uno scudo.

Posto tal principio ne segue, che può apparire arricchito un Paese, senza che vi sia venuta nuova moneta, ma solamente coll’essersi messa in maggior moto quella, [p. 41 modifica]che già vi era, di modo che, mai non stagnandosi passi per le mani di ciascheduno in quella quantità, che li bisogna spendere secondo il proprio grado.

Ma prima di far vedere il perchè accrescendosi il prezzo delle grasce s’accresca maggior moto al denaro, bisogna osservare, che la vera ricchezza non consiste tanto nell’oro, e nell’argento, quanto nella facoltà di potere ottenere tutto ciò, che ci può venire in mente di desiderare.

Uso della moneta, e quale sia. L’oro è inutile per se medesimo ad ogni umana necessità, non fu chiamato nel commercio, se non dopo, che moltiplicandosi l’Uman Genere si rendevano difficili le permutazioni. Chi aveva (per ispiegarmi con un esempio) bisogno dell’Olio, e non aveva altro, che Grano di sopravanzo, non poteva permutare questo Grano con un’altro, che non ne aveva bisogno, ma mancavali il Vino.

Per indurre dunque questo a dare l’olio, anche senza ricever vino, fu pensato [p. 42 modifica]a darli un mallevadore, il quale l’assicurasse, che riceverebbe per altre mani il vino, che desiderava. Per questo ufizio fu scelto l’oro, e l’argento, ed in tal maniera introdotto il contratto della vendizione, il quale poi si è reso sempre più comune, dopo, che moltiplicate le Arti, e gli impieghi, si è resa sempre più rara, ed impraticabile la permutazione.

Si può essere ricchi senza essa. Del restante quando la permutazione di ciò, che si ha di superfluo in altre cose, che si desiderano divenisse praticabile, si diverrebbe ricchi anche senza oro, senza moneta, senza questo mallevadore, il quale benchè credasi il tiranno di tutto il commercio, non è a ben riflettere altro, che un vile Ministro, il cui ufizio solamente ha luogo, quando tutte le altre cose perdono la loro stima, e per la troppa abbondanza, non essendo ricercate, non possono permutarsi.

Se le Grasce siano in stima. Quando diciamo, che quel Nobile spese tante migliaja di Scudi in quella [p. 43 modifica]fabbrica, quell’altro tante in quella coltivazione, che gli Artieri pagavano il grano lire dieci, noi ci immaginiamo, che quei Nobili avessero già ammassata nei scrigni quella moneta, che gli Artieri si fossero preparati a questo caro prezzo cogli avanzi degli anni antecedenti, e ci figuriamo, che vi fossero ad ogni passo de monti di oro.

Eppure facilmente que’ Nobili averan fatte queste gravissime spese, e gli Artieri averanno ricevuto da loro il necessario sostentamento, senza che vi corresse un denaro. Poichè ritrovandosi i Granaj, e le Cantine di quelli, ripiene di ciò, che gli Artieri più del denaro medesimo desideravano, tutti i lavori, tutte le mercedi con certa quantità di Grano, e di Vino, potendosi permutare pochissima moneta vi interveniva. In oltre camminando sul medesimo indubitabile principio, che la moneta non abbia altro uffizio, che di assicurare il conseguimento di quelle cose, che desideriamo, non solamente resta inutile quando [p. 44 modifica]possiamo ricevere queste cose medesime dalla persona con cui contrattiamo per via di permutazione, ma ancora quando a questa permutazione possa supplirsi con altro mallevadore.

Il concetto di ricchezza supplisce al denaro. Quando noi sentiamo dire, che nelle fiere di Amsterdam, di Londra, di Lione, si sono girati cento milioni, non dobbiamo immaginarci migliaja di Camarlinghi occupati dalla mattina alla sera a contare denaro, poichè con poca carta, alle volte con un sola parola senza altro denaro, che pochi pavoli per pagare il pubblico Scrivano, o Notaro, che ne faccia memoria, si supplisce a queste somme immense, ed impercettibili.

Non sono altro, che un piccolissimo foglio, le polizze dei Monti di S. Spirito, e della Pietà, e pure si raggirano in Roma, e si ricevono in tutti i Contratti più volentieri, che non si farebbe di quelle somme di oro, che vi sono scritte. Quante contrattazioni, quante compre, quanti [p. 45 modifica]parentadi si fanno, dove neppure il creditore medesimo si cura di ricever denaro. Una promessa, un obbligo di pagare una ricevuta scritta in piccolo foglio, o al più un Istromento steso per mano di Notaro tengono luogo di prezzo, e sono la moneta, che corre per lo più nelle contrattazioni più importanti.

In tutti questi casi la buona oppinione che si ha della persona che si obbliga, il credersi, che le sue facoltà, le sue ricchezze siano tali da potere a suo tempo adempire quanto promette, rendono inutile la presenza del denaro, nè si curano di questo mallevadore, ed arricchiscono il commercio niente meno, di quello, che farebbe uno sborso attuale. Ma facciamo qualche altra riflessione prima di ridurre questo discorso a dimostrare la cagione, perchè vedasi più denaro, quando sono in prezzo le grasce.

Le Grasce danno il prezzo al denaro. Quel prezzo fisso, ed invariabile, che si dice avere una moneta dalla volontà del [p. 46 modifica]Principe, o dal suo valore intrinseco, non può intendersi, che relativamente ad un altra moneta, ma non mai ad una certa quantità di grasce, o altre cose, le quali secondo l’abbondanza, o la penuria, ed il consumo, che se ne fà variano il loro prezzo. Se io ho una lira, posso assicurarmi di aver venti soldi, di avere la settima parte del nostro scudo; ma se voglio comprarne Grano, in un tempo n’averò il doppio, ed anche due volte più, che in un’altro. Tengo un mallevadore per potere ottenere ciò, che desidero, ma non sempre nella medesima quantità. Vorrebbe il compratore, che la roba fosse a vil prezzo per ottenerne maggiore quantità, ed il Venditore desiderando di vendere caro la sua roba, vorrebbe a vil prezzo la moneta.

Non è il danaro, che deve fare il prezzo alle Grasce, ma sono le Grasce, che devono dare il valore al danaro, poichè i poveri lavoranti per vivere, e non campandosi di oro, ma di Grasce, non desiderano [p. 47 modifica]il denaro, se non come mezzo per fargli ottener queste in quella quantità, che si richiede per loro sostentamento, e della loro famiglia.

Il consumo, ed il bisogno lo mettono in prezzo. Ma se il bisogno, che hanno i poveri delle grasce per vivere, e quello, che costituisce la ricchezza de Grandi, quello, che fa servirli da loro domestici, che impiega nelle botteghe per loro comodo gli Artieri, che induce a soffrire gli stenti della campagna i Lavoratori, ne segue, che sempre non si divenga ricchi co granaj ripieni, e colle cantine; Ma si richiede che il consumo di queste cose faccia, che siano richieste, e le metta in qualche stima, altrimenti non si fa luogo al bisogno, che faccia faticare a fine di ottenerle. Se tutti avessero Vino più del loro consumo, certamente, che con una cantina ripiena non si potrebbe far muovere ad alcuno una paglia, niente più, che offerendo l’acqua della Cisterna a chi l’ha più comoda in propria Casa. [p. 48 modifica]

Quale sia il loro giusto valore. Questa proporzione adunque, che deve esservi fra una quantità di vettovaglie, e il loro consumo è quella, che ad esse pone il maggiore, o minor prezzo. Il prezzo di mezzo più ordinario, e più giusto è quello, che compensa all’Agricoltore le spese, e lo fatiche fatte per dare l’essere a questi frutti, senza di troppo aggravare il compratore di maniera, che deva stentare a vivere col guadagno di semplice Giornaliere. Stanno allora le bilancie in giusto equilibrio. Tira avanti l’Agricoltore il suo lavoro per la nuova raccolta, regge il Nobile il suo posto colla porzione del frutto dei suoi Terreni, e faticano gli Artieri, ma senza stentar di fame. Ma siccome nè tutte le stagioni sono ugualmente felici, nè tutti i terreni ugualmente fecondi, ed il consumo medesimo viene spesso alterato dal commercio colle altre Provincie, si rende impossibile di mantenere a lungo questo equilibrio.

Supponiamo, che il prezzo giusto [p. 49 modifica]nelle mezzane raccolte sia di dieci scudi per un moggio di Grano. Stanno allora in equilibrio i dieci scudi con questo Moggio, e sono un egual ricchezza. Sopravviene l’abbondanza, non vi è chi ricerchi il grano, chi possa consumarlo, ed ecco, che va in aria questa ricchezza; il solo denaro diviene prezioso, e s’accresce infinitamente di peso, perchè mancali il contrappeso.

Se vagliono meno, non sono ricchezza. Coll’avvilirsi del Grano perdono la stima i Terreni ancora che lo producono, e conseguentemente manca il credito, nè può nel commercio contarsi sul possedimento di fertilissime Ville; perchè ristretto che sia ogni valore nel denaro, non vogliono più contrattare i Mercatanti, nè più lavorare gli Artieri senza la presenza di questo, che diviene veramente un vero tiranno del commercio, il quale quanto più ricercato, tanto ancora più si nasconde, e rimane ozioso ne nascondigli più cupi per non esservi forza di contrappeso, che lo rinalzi. [p. 50 modifica]

Crescendo il valore sono ricchezza. Al contrario, se ò per la scarsa raccolta, o perchè il consumo si apprenda maggiore della quantità, che vi è di Grano, il moggio pesi più de dieci scudi, viene all’aria tutta la moneta, non vi è chi tema di privarsene per assicurarsi di ciò, che è più raro. I Mercatanti, gli Artieri non si curano più di denari, anzi se ne avevano qualche somma nascosta la portano a Nobili insieme colla loro mercanzia, co’ loro lavori per riceverne un poco di Grano.

Rivestono i Contadini la loro Famiglia, pagano al Principe i suoi tributi colla vendita di poco grano. Impiegansi giornalmente tanto questi, che gli Artieri, nè restano mai oziosi, perchè trovandosi i Nobili in buon punto, buonificano i loro terreni, accrescono comodo alle loro Case, nobiltà nelle loro supellettili, e spendono volentieri prima ciò che hanno di meno prezioso, cioè il denaro, poi anche le Grasce per timore, che alla nuova raccolta cadano di prezzo, ed ogni terreno trova [p. 51 modifica]compratori, e trova imprestiti chi lo possiede, ed essendo creduto ricco, può spendere, può contrattare anche senza denaro.

Non bisogna adunque lasciarsi abbagliare gli occhi dallo splendore dell’oro, perchè sono ugualmente ricche tre persone, una delle quali ha mille scudi in contanti, l’altra ha grano, l’altra ha terreni, che possono farli comodo, quanto i mille scudi, e se sono ciascheduno di ugual ricchezza, ugualmente ancora contribuiscono a rendere ricca la loro Città.

Ancora i Terreni crescono di prezzo. Qualunque di queste ricchezze ha i suoi pregj, i suoi difetti, ma i terreni seguono la fortuna de frutti, che in essi raccolgonsi. Se questi sono in istima anche i Terreni formano una ricchezza, ma se questi vagliono poco, perdono ancora i Terreni ogni prezzo, restano fuori del commercio, impoveriscono, e screditano chi più ne possiede, non essendo chi si curi di industriarsi in un traffico, dove gli stenti, ed i sudori non trovano il loro compenso. [p. 52 modifica]

Questo raziocinio può con tutta la sua forza applicarsi a qualunque frutto della terra, ad ogni genere di mercanzie, perchè ogni cosa acquista prezzo dalla rarità, dalla difficoltà, che si ha nel conseguirla. Or questa rarità nasce dal maggior numero di quelli, che desiderano di comprarla e questo maggiore, o minore numero, dipende dalla maggiore, o minore abbondanza, che ve ne sia relativamente al consumo, che di esse si fa.

Il consumo da stima a qualunque cosa. Niuna cosa adunque per quanto utile siasi, e necessaria, può arricchire giammai il commercio, nè nominarsi ricchezza, se l’uso, se il consumo non ne cagiona il bisogno. Possono ben possedersi gran legna da bruciare, gran materiali da fabbricare in Maremma, se non vi è chi fabbrichi, se vi sono più selve, che non vi sono fuocorali, non può esservene commercio, nè costituiscono l’infimo grado della ricchezza.

Che se a sorte qualche industrioso [p. 53 modifica]Mercatante disegni di inalzare in mezzo alla selva un edifizio per qualche lavoro, che richiegga un continuo, e gagliardo fuoco, ecco, che subito a questa prima vista di questo consumo il Possessore, piglia l’aria di padronanza, comincia ad annoverare fra le sue ricchezze queste cose già abbandonate, e scordate, vi vuol oro, vi vogliono grosse somme per ottenerne una mercanzia, che piuttosto, che arricchirlo, l’ingombrava, l’impoveriva.

Ma basta l’avere accennate queste riflessioni importantissime intorno a generi diversi della ricchezza, perchè ciascheduno da se stesso applicandole a varie sorti di beni, a diversi luoghi, a diversi tempi, sempre più si persuada della loro verità. Quanto a me supponendo, che ciascheduno sia per trovarle scritte nel proprio intendimento insieme con tutte quelle indubitabili verità, che dai Filosofi chiamansi eterne, ritornerò alla proposizione per dimostrazione della quale in esse mi divagai, [p. 54 modifica]e me ne servirò per assegnar la ragione, perchè accrescendosi il prezzo dei viveri, apparisca la Città, e la Provincia più ricca.

Ragione perchè essendo le grasce a caro prezzo, apparisca più ricco il il paese. Succede nel commercio, come nei conviti se vi siano molte saporite vivande ogni poco pane è d’avanzo; ma se mancando alle vivande il sapore, tutti siano obbligati a saziarsi col solo pane, non basta il poco, ed apparirà poco anche il molto: Così quando tutte le contrattazioni deve farle la moneta, è impossibile, che ne giri abbastanza per tutti; ma se la penuria metterà in prezzo le grasce, e colle grasce i terreni, che le producono, la moneta averà poco da fare, il commercio si sazia con queste. Una misura di olio, di grano, di vino, di frutti formano tutte le contrattazioni, che fanno i Nobili cogli Artieri; una carta, un istromento di obbligazione, attesa l’idea maggiore, che si ha del valore delle loro terre, sono il denaro, che molte volte girano i Nobili fra loro stessi, e fra i Mercatanti. Paga il [p. 55 modifica]Contadino colle grasce l’Artiere, compensa l’Artiere coi suoi lavori il Contadino; onde resta poco altro uso della moneta, che quello, che si fa piuttosto col rame, che coll’argento, e coll’oro per provvedersi di erbaggi, di frutti, e di cose di poco valore: e l’oro, e l’argento restano liberi per sodisfare al Principe dei suoi tributi, o per contrattare con paesi lontani, o per altri simiglianti casi, dove la difficoltà del trasporto renda impraticabile il pagamento in generi di vettovaglia.

Ristretta, che siasi la moneta in questi confini, l’è facile il concepire, come acquisti eziandio un moto maggiore, e faccia credersi moltiplicata, perchè più spesso fa vedersi in diverse mani.

Perchè col diminuirsi il denaro scemi ancora il suo frutto. Si maravigliano molti, perchè come l’esperienza ci insegna nella nostra Città a misura, che si impoverisce, va scemando di frutto il denaro, onde se un secolo avanti costituivansi i Censi a sei, ed otto per cento, oggi bisogni contentarsi dei tre [p. 56 modifica]quantunque nelle Città ricche, e di gran commercio non se ne trovi uguale la diminuzione. Come mai dicono essi, se tutte le mercanzie vanno crescendo di prezzo, quando sono più rare, e se ne accresce il bisogno, si vede nella moneta sola seguire tutto l’opposto? Ma la regione se non unica, almeno la più forte si è, perchè l’impoverirsi di una Città proviene dal mancarvi il Commercio, il traffico, e gli impieghi lucrosi: mancati questi, chi ha denaro, se non vuole tenerlo ozioso, bisogna che lo rivesta negli impieghi, che vi rimangono meno lucrosi, oppur se vuol farne credito con qualcheduno si adatti nel tassarne i frutti a quella ragione, che se ne ricaverebbe impiegandosi altrove.

Se nella nostra Città non vi resta altro impiego, che il comprare delli stabili, e se questi per l’avvilimento delle Grasce non rendono il due per cento, computandosi uno per l’altro, non è piccolo frutto nei Censi il ritrovarne i tre col vantaggio, [p. 57 modifica]come suol dirsi, che non vi piova sopra. Ma in Olanda, in Lisbona, in Cadice, in Inghilterra, trovandosi impieghi lucrosissimi fino al venti, al trenta, ed anche al cento per cento, si trova chi cerchi l’imprestiti anche per guadagnarvi alla regione degli otto, e dei dieci.

Onde anco fra noi, quando reggendosi i prezzi delle Grasce tornava conto lavorare le Campagne, e rendendosi fruttiferi anche i terreni inferiori maggior quantità di frutti raccoglievasi, e meglio ancora vendevasi, bisognava, che chi cercava imprestiti, ne offerisse il frutto alla ragione dei rinvestimenti, che nelli stabili potevano farsi.

La moneta nelle bonacce non gira. Di quì ne segue, che nelle nostre bonacce, anche quel poco di denaro, che vi è deve perdere il suo moto, e stagnarsi in tutte quelle mani, dove non trovi necessità alcuna, che lo rispinga ad uscir fuori. Se tutte le cose sono vili, e non vi è, che questo di prezioso, questo dunque anche [p. 58 modifica]per regola di prudenza deve custodirsi colla premura possibile, come l’unico antidoto, che possa preservarci nell’universale impoverimento; e l’avarizia stessa, la quale niente più brama, che di vederlo moltiplicato, stimola a tenerlo ozioso, quando non ha in vista, che un tenuissimo guadagno, e deve stentarsi fino a trenta anni, o quaranta prima di vedersi restituita coi frutti, e ritornata in mano la quantità, che si impiegasse ai due o tre per cento.

Invigila ciascheduno ai proprj vantaggi, ha premura dei proprj interessi, e siccome pochi sono quelli, che recusino al Terreno la semenza per non voler privarsene per qualche mese, così pochi si trovano, che vogliano tenere ozioso negli scrigni il loro denaro, quando vi sia speranza di vederselo presto moltiplicato, impiegato che fosse in traffico di gran guadagno.

L’alto prezzo cagiona la coltura. Quando dopo il principio di questo secolo il prezzo de Vini per lo spaccio, che aveva nell’Inghilterra quello della [p. 59 modifica]Provincia del Chianti, era quattro, o cinque volte sopra il prezzo ordinario dei nostri tempi, non v’era Poggio sì alpestre, o sassoso, che ò col ferro, o col fuoco non si stritolasse per piantarvi le Viti. Chi aveva denaro s’impiegava in questo onesto, e piacevol guadagno, chi non ne aveva, cercava imprestiti per rinvestirvelo, onde tutto era in continuo moto fra le mani de poveri lavoratori, che non restando neppure un giorno giammai oziosi si sostentavano decentemente. Ciò, che seguì nel Chianti a tempi nostri, quando il Vino era in prezzo, cioè di trovarsi coltivato, e fecondato di Ulivi, di Biade, e di qualunque sorta di frutti, può osservarsi anche in altre Provincie da chiunque vorrà rintracciare l’epoca de loro miglioramenti, che hanno avuta comunemente l’origine dall’essere salito in prezzo qualche frutto, che la natura di quei terreni potesse volentieri produrre.

Ma senza considerare adesso il gran [p. 60 modifica]vantaggio, che sia di una Provincia il trovarsi coltivati, ed in frutto quei Terreni, i quali prima sterili erano, e quasi come non fossero, a me basta pel punto, che presentemente maneggio, il fare avvertire il moto maggiore, che piglia il denaro, mettendoseli in vista qualche guadagno, dandoseli a vedere, che i frutti della Terra, e che la terra medesima sono alle volte in istima più preziosa di lui, e come allora non sia più stagnante nelle mani dei ricchi, ma ripigli il suo corso fra quelle de poveri, dove non può essere se non velocissimo attesi i molti bisogni, e le continue necessità, che l’obbligano a non fermarvisi giammai.

Denaro dei poveri è sempre in giro, e pare, che si moltiplichiUna moneta, che non esca dalle mani dei poveri, è capace di fare in un mese cento, e mille contrattazioni, che vuol dire può arricchire il Commercio per cento, e mille volte più dell’intiero suo valore provvedendo ciascuno di questi miseri di quanto li bisogna. La spendo il [p. 61 modifica]Contadino, e si provvede di Scarpe; la spende il Calzolajo, e si riveste; chi li vende il Panno, ne compra il Vino, questi ne compra il Grano, facendola tornare alle volte in mano del Contadino medesimo, che rimedia con essa a qualche altra sua necessità, stradandola in altro giro.

In esaminare a fondo il commercio, si osserva, che quantunque i Ricchi non trovino da fare fruttare le grosse somme a tre per cento, riesce ai poveri di ricavare alle volte del poco, che questi hanno, anche cento per uno.

In vedere molti, che si industriano nel vendere a minuto le vettovaglie, e simili bagattelle, campare, tirare avanti la loro famiglia, sodisfare le loro pigioni, e riempier sempre più la bottega, si crederebbe, che da qualche importante somma fosse principiata la fortuna del loro traffico.

Ma pochi scudi, e forse anche poche lire tenute da costoro in continuo moto, raggirate sempre una, o più volte il [p. 62 modifica]giorno nel vendere, e nel comprare, profittarono ad essi più, che non averebbe fatto un grosso capitale, che camminando a passo lento, appena terminasse in più anni il suo giro.

Ma credo, che basti ormai il detto fin quì intorno a generi diversi della Ricchezza, del moto, che danno alla moneta le Grasce, degli effetti dell’alto, e del vil prezzo di queste per convincere di falsità quell’idea, di renderle sempre più vili in pregiudizio evidente de Nobili, e degli Agricoltori, perchè si vuol crederlo necessario per reggere le Arti, e supplire alla mancanza del denaro.

A me pare una riflessione, che non sia superiore alla capacità del volgo eziandio più ignorante il considerare, che quel Nobile, che averebbe avuti mille scudi di entrata in vendendo le Grasce il giusto prezzo, n’averà soli cinquecento, se questo prezzo si avvilisce per metà. Onde stenterà a reggere agli obblighi di Giustizia, non [p. 63 modifica]che pensare più a sovvenire i poveri colle carità, e si troverà costretto a mandare in Piazza la mobilia, che aveva di superfluo, in cambio di impiegare gli Artieri, come averebbe fatto, ordinandone di nuova moda, e screditerà sempre più le loro manifatture.

E quel Contadino, il quale vendendo a un giusto prezzo il grano, che sopravanza al suo vitto avrebbe potuto comodamente pagare i Dazj, comprare il Sale, e dar guadagno agli Artieri col rivestire la sua Famiglia, dimezzandosi questo prezzo, sarà costretto, se non vuol vendere il doppio di grano, e restare senza pane, e lasciare nudi, e scalzi i suoi Figli con gravissimo pregiudizio delle Arti, e Manifatture eziandio più necessarie, le quali perdendo tanti Avventori, quanti sono i Nobili, ed i Contadini debbono perdersi, e morire di fame in grembo a quella bonaccia, che tanto desiderano.

Che se questa bonaccia riesce fatale [p. 64 modifica]anche nelle Città, e per gli Artieri, quali pessimi effetti non dovrà produrre nella Maremma, dove sono tutti pieni di grano, e mancanti di ogni altra cosa, e dove dimezzandosi il prezzo del grano non solamente si dimezzano l’entrate, non solamente si perdono affatto, ma si riducono a scapito manifesto, e ad una total rovina di tutti quei meschini, i quali, pressati dalla necessità si contenterebbono di perdere insieme colle fatiche, anche parte della spesa, che fecero per dare l’essere a questi grani, purchè trovassero qualche oblatore.

Qual patimento si può fingere maggiore, sentire che i Genovesi sono costretti ad arricchire co loro Tesori i Barbari dell’Affrica, ed i Nimici del Nome Cristiano, e che questi impiegano poi questo denaro in armare contro nuovi Corsari, e vedere marcirsi il grano ozioso nei Magazzini pel zelo capriccioso di serrare le Tratte.

All’esame adunque un poco più minuto dei cattivi effetti di questa politica [p. 65 modifica]voglio discendere, e mostrando la necessità, che ha la Maremma della libertà delle Tratte indispensabile, vale a dire di una legge perpetua, che assicuri la facoltà a Maremmani di poter vendere i loro grani, i loro bestiami, e qualunque frutto di quelle Campagne a Forestieri, discuoprire una cagione, che dopo di avere precipitata la Maremma ridurrà un Cadavere l’Italia tutta, se non si risolve a cibarli del pane suo, cioè di quello irrigato dal sudore del suo volto, per adoprare una frase della Scrittura che spiega il mio intento.

Che gli gioverà essere il Giardino dell’Europa, godere col clima felice anche i Terreni fecondi, se abbandonandoli niente meno, che se fossero sterili arene, si ridurrà vergognosamente a dovere governare un popolo sempre, è vero, minore, ma sempre ancora più bisognoso, col grano raccolto in Paesi, che di loro natura sarebbono abbandonati, se noi colle nostre ricchezze non li facessimo fecondi. [p. 66 modifica]

E quali miniere ha la Toscana, che possano compensarle tanto denaro, che manda fuori? Si mediti quanto si vuole, si ingrandiscano gli utili della mercatura, e delle manifatture non sarà mai possibile il pareggiare l’utile, che tempo fa ritraevasi col grano, che sopravanzava, non che il danno, che abbiamo presentemente colla compra continua, che dobbiamo farne, o per necessità nelle raccolte più meschine, o per artifizio, e particolare interesse di qualche privato nelle abbondanti.

E quando ancora ci riuscisse col fatto della nostra industria di avere sempre l’oro a dovizia, non saremo sempre esposti al pericolo della fame, quando una guerra impedisca di trasportarci il grano, che ci bisogna, quando un sospetto di contagio ne impedisca il commercio, quando la raccolta de nostri venditori sia scarsa per il nostro provedimento?

Diasi un occhiata alla Palestina, all’Egitto, alla Natolìa, ed a tanti bei Paesi, [p. 67 modifica]che gemono sotto del Turco, i quali se davano una volta la sussistenza ad un Popolo cento volte maggiore abbondavano sempre più di vettovaglia, e riandando la cagione della presente desolazione, si troverà, che non può essere stata cagionata dalle Guerre, poichè non vi è Paese, che da molti secoli in quà ne sia stato più libero: non da celibato, che non vi è conosciuto: non dalle pestilenze, che non vi hanno trattato i secoli più vicini niente più indiscretamente di quello, che facessero nei più rimoti, ma dal poco conto che fanno i Turchi degli Agricoltori. Onde non difendono dalle incursioni degli Arabi le loro Campagne, non vogliono, che dispongano, e si approfittino del frutto delle loro fatiche, gli disprezzano, gli opprimono.

Ma ripigliando l’esame delle Tratte si dice, che il lasciare l’uscita libera dallo Stato ai Grani, ed ai Bestiami, farebbe lo stesso, che il lasciarsi uscire dalle mani [p. 68 modifica]l’alimento più necessario per reggersi in piedi: ed il pretendere che una Provincia nelle Carestie eziandio straordinarie mandasse in altri Paesi quello, che l’è necessario per vivere ripugna al buon senso della natura, quanto l’uccidere se medesimo.

Potrebbono lasciarsi le Tratte aperte, e comprarsi i Grani. Veramente parrebbe un volerne troppo, e sarebbe un render troppo odioso il Discorso, se si stendesse a persuadere la libertà delle Tratte anche nei tempi delle Carestie sterminatrici. Ma pure vi resterebbe da rispondere, che potrebbe lasciarsi la libertà di estrarre i Grani, e fare insieme in modo, che di fatto non si estraessero; se i Compratori della Provincia si conformano ai prezzi, che corrono alla Marina, se vogliano anche a pari prezzo essere preferiti ai Forastieri, non vi è danno dei Venditori, nè la Provincia perde il suo alimento, benchè restino le Porte aperte.

Ma lasciando di discorrere delle Carestie straordinarie dove la Legge di natura, e della propria difesa può dispensare a [p. 69 modifica]qualunque impegno di pubblica costituzione, ad ogni ragione di privato interesse, ristringiamo la proposizione a persuadere la libertà delle Tratte, non tanto per scacciare le Carestie già presenti, quanto per preservarci, acciocchè non vengano in avvenire, come appunto si getta nei Campi la Semenza, benchè accresca la penuria, che già ci affligge.

Al tempo dei Romani sentivansi più di rado le Carestie. Ci insegnano le Storie, e l’esperienza medesima lo conferma pur troppo fino ai dì nostri, che dopo la decadenza dell’Imperio Romano diviso che fu quel gran Corpo in varie dominazioni, principiarono ora in questa, ora in quella Provincia a sentirsi più frequentemente le Carestie. Molte ragioni possono addursene secondo i luoghi, e i tempi particolari. Una però ve ne è universale dalla quale doveano necessariamente prodursi questi pessimi effetti, ed è, che obbedendo prima le membra tutte ad un capo solo, ciascheduno al bisogno dell’altro liberamente soccorreva, ogni [p. 70 modifica]Provincia arricchiva l’altra di ciò, che aveva di superfluo, e lasciandosi oprar la natura, non vi era autorità umana, che pretendesse di raffinare sopra le Leggi semplicissime della Provvidenza: era l’Agricoltura rispettata, privilegiata, ed in grande onore, e l’impedire il commercio dei frutti della terra ascrivevasi a sacrilegio.

Per lo contrario, diviso che fu questo gran corpo in varie Provincie, le quali formarono tanti separati corpi, per lo più tra loro indipendenti senza legamento, senza corrispondenza, senza amicizia, si scordò questa buona Legge di soccorrersi vicendevolmente con ciò, che si ha di superfluo: onde si introdussero nuove difficoltà nel commercio delle vettovaglie, affine di affamarsi, se erano nemici, ovvero per vendere più caro anche agli amici.

Origine delle Gabelle sopra le vettovaglie. Quindi le proibizioni di estrarre, e le Gabelle sopra i Frutti della Terra, che si estraessero, e parve a chi governava i Paesi più abbondanti, che la Provincia, [p. 71 modifica]che era affamata, dovrebbe, così facendosi, avere dipendenza da chi poteva negarle il suo alimento, e sarebbe necessitata a pagarle almeno indirettamente il tributo nel maggior prezzo, che la Gabella aggiungeva al valor naturale di questi frutti.

Ma non si avviddero, che la natura sa bene vendicarsi da se medesima dei torti, che si fanno alla sua provvidenza. Queste Provincie le quali pretesero di far traffico degli stenti altrui, davano, come praticasi nelle guerre più crude, il guasto al proprio Paese per levare al nemico la sussistenza; perchè quel superfluo, che conceder potevano di buona voglia a chi ne aveva necessità, stagnando fra loro, e non potendo tutto digerirsi, cagionar dovea una malattia più perniciosa della fame stessa, che procuravano ad altri, e che coll’andare dei tempi terminerebbe in produrre le Carestie anche sopra di loro.

Il ripetere, ed insinuar questo punto [p. 72 modifica]quanto ai Popoli odioso, altrettanto vero non è mai troppo. Se il consumo non è proporzionato alla quantità del frutto, questo perde di stima, si avvilisce il prezzo. Questo avvilito mette in perdita il coltivarlo, onde ne segue la desolazione delle Campagne, la povertà, la miseria delle Città, e finalmente le Carestie. Il volere aggravarsi lo stomaco di quell’alimento, che ci sopravanza, negando di permutarlo con altra cosa, che ci bisogni l’è un volere affliggere noi medesimi perchè l’altro stenti di fame.

La natura suol produrre il provvedimento sufficiente per tutti.La natura ha data alla terra una fecondità proporzionata al bisogno dei suoi Abitatori; suole anche la Provvidenza riempier il mondo di sufficiente provvedimento, ma per mantenere fra gli Uomini, fra le Provincie la società, ha ancora saviamente disposto, che nissuno avesse tutto ciò, che può bisognarli.

Fino dal principio del mondo nè si raccoglieva il grano da Pastori, nè la Terra [p. 73 modifica]produceva le lane per rivestire chi la lavorava; ma commutandosi fra queste prime innocentissime arti il loro superfluo, si trovavano tutti bastantemente vestiti, ed alimentati. Produceva una Provincia il vino soprabbondantemente, ma del grano non ve ne era abbastanza, l’altra felicissima in grano non aveva clima adattato a maturare l’uve per il vino. La Provvidenza aveva provvedute ambedue di grano, e di vino senza altra obbligazione, che ciascheduna dispensasse all’altra il superfluo.

Ma se una, scostandosi da questa buona legge, per far valer più del giusto il superfluo che dava all’altra, l’aggravava di qualche Gabella, ne difficoltava il commercio, come per lo più seguiva dopo la divisione dell’Imperio Romano, resistendosi allora alla Provvidenza, presto dovevano rovinarsi ambedue colla carestia del grano, e del vino. Mancanza di consumo termina in Carestia.Imperciocchè se il vino per esempio cresciuto di prezzo per la Gabella richiedeva in compenso più misure di [p. 74 modifica]Grano, che non si usava di prima, doveva seguirne, che togliendosi l’equilibrio, che la natura aveva posto fra questi due superflui, il superfluo del grano equilibrasse minor quantità di vino; Onde quel povero Uomo, che per tutto l’anno si provvedeva di vino col grano, che li sopravanzava, era necessitato a bere l’acqua per qualche mese, e consumarne in minor quantità. In tal maniera, venendo meno il consumo, rigurgitava nella sua sorgente, e perdeva il vino la stima in modo, che più non tornava conto lavorar le viti, e molto meno il piantarle.

Sopravvenir deve di tanto in tanto l’anno sterile, mancare il vino eziandio pel proprio consumo, non che per provvedersi di grano, e provavasi intiera la carestia.

Si resiste alla provvidenza, negando di dare il superfluo a chi ne ha bisogno. Senza questa legge di permutarsi il superfluo vicendevolmente, e di donarlo ancora a miseri gratuitamente, conforme dichiarò poi l’Incarnata Sapienza, che le [p. 75 modifica]naturali leggi venne fra noi a perfezionare, l’è impossibile lo spiegare, come la Provvidenza alimenti ciascheduno, e lo rivesta meglio, che gli Uccelli dell’aria, ed i Gigli del campo, secondo l’Evangelica Verità.

E però, siccome viene minacciato di eterna punizione, come prevaricatore delle leggi della Provvidenza, quello che, del superfluo essendo troppo tenace, alle miserie delli infelici non soccorre liberalmente. Così non può mai essere felice quella Provincia, che lasci marcire oziosamente le vettovaglie che le sopravanzano, e piuttosto che sovvenire con esse anche con profitto proprio all’altrui necessità, lasci avvilire ciò, che è destinato per alimento dell’Uomo fino a pascerne, come fra noi più volte è accaduto, i Giumenti; e deve ragionevolmente temere, che la Provvidenza stessa vendicandosi di sì gran torto, presto non riduca gli Uomini a dovere avvilirsi alle ghiande, all’erbe, ai pascoli dei Giumenti. [p. 76 modifica]

Ma le verità metafisiche sono troppo astratte, e poca breccia possono fare per convincere chi sia preoccupato in contrario nel punto, che tento presentemente di persuadere, cioè di lasciare estrarre i grani di Maremma liberamente.

Meglio è dunque il discendere alle prove sensibili, e palpabili, e mettendo in una Bilancia l’utile, che può risultare alla Provincia della Toscana dal serrarli le Tratte, cioè dal proibire l’estrazione dei grani della Maremma in anni penuriosi, procurar di disingannare coloro, che lo credono un rimedio efficace più, che non è in effetto, facendo loro vedere, che l’è di minima considerazione rispetto ai danni immensi da contrapporseli dipoi.

Pigliando il confronto della quantità del grano, che suole estrarsi dalla Maremma secondo le Gabelle delle Tratte ascende a 2700. moggia un anno per l’altro in anni dieci fino a questo anno, in cui scrivo 1737. Si ristringe dunque tutto il [p. 77 modifica]vantaggio in assicurare alla Toscana molto meno della centesima parte dell’alimento, che le bisogna, poichè in seicento mila persone di popolazione computandosi il consumo non più, che trecento mila moggia se ne ricava la detta proporzione: certamente quasi insensibile, e come suol dirsi in proverbio, che ò non basta, o non bisogna. Lascio di ripetere, che neppure questo vantaggio sarebbe da ascriversi totalmente alla proibizione delle Tratte, poichè comprandosi il grano da quei della Provincia se ne otterrebbe il medesimo effetto.

A questa centesima porzione adunque si ristringe il vantaggio, che ricava lo Stato dal proibire l’estrazione de grani; nè può negarsi, che per piccolo, che apparisca questo accrescimento, potrebbe alle volte porre in equilibrio la quantità del grano col suo consumo, e quando a tanto non basti, parrà sempre lodevole il trattenerlo nella Bilancia, perchè sempre vi si [p. 78 modifica]richiederà minore quantità di grano forastiero per metterla in pari.

Certamente, che se la Morale, e la Politica potessero raziocinare all’uso de Geometri, non potrebbe mettersi in dubbio questa dimostrazione. Suppongono questi le loro quantità certe, determinate, ed invariabili, e perciò alle loro conseguenze, alle proprietà che considerano di una figura, alle proporzioni fra due grandezze non si può contrastare. Ma la Morale essendo legata a sensi, a costumi, agli affetti, alle passioni, bisogna, che si appaghi della probabilità, e molte volte anche alle oppinioni, ed errori comuni si adatti, e con quelli si regoli.

Le Carestie per lo più non sono reali. È impossibile, che chi governa arrivi a sapere anche a molte migliaja di moggia il bisogno di una Provincia pari alla Toscana. Ma anche che fosse sicuro che la quantità, che vi si trova, ha una giusta proporzione colle persone da alimentarsi: non pertanto basterebbe per [p. 79 modifica]addormentarsene quietamente, poichè per lo più l’alterazioni dei prezzi, e le carestie medesime, delle quali la Natura viene incolpata, sono effetto di una falsa opinione di un vano timore cagionato alle volte anche da un prudentissimo provedimento.

Quantunque l’argomento del mio discorso non sia favorevole alla compra de Grani forastieri, mi trovo non ostante forzato dall’amore della verità a discuoprire un vantaggio importantissimo, che hanno quelli sopra de nostri per avvilire i prezzi, e torre il timore delle carestie, il quale deve crescersi pel contrario quando quei di Maremma si trattengono nello Stato colla sola proibizione delle Tratte, e non passano a fare la figura ancora essi di Forastieri colla fortuna di essere comprati, e raggirati, o nel Porto di Livorno, o ne’Mercati di Firenze, o di Siena, i quali sono i Tribunali, che fra noi decidono fra l’abbondanza, e le carestie. Poichè il Grano forastiero comprandosi col fine di [p. 80 modifica]arricchire i Mercati, o i Pubblici Magazzini, riesce efficacissimo in questi la sua comparsa per diminuire i prezzi, e per far credere, che il Grano non mancherà.

Dove col serrarsi le Tratte mostrandosi timore di carestia senza arricchirsi di Grano il Mercato ciascheduno si mette in guardia. Chi era deliberato di vendere soprassiede: chi non pensava di comprare vuol provvedersi per tutto l’anno, e si accresce senza accorgersene, il prezzo in Firenze, ed in Siena, dove non vi si pensava per fare in Maremma un abbondanza eccessiva fuori di tempo, e perniciosissima.

Io non nego, che per nostra punizione non si siano alle volte date, e che non si deva anche in avvenire giustamente temere delle carestie vere, e reali, intendendo con questo termine quelle, nelle quali ancora che tutti contribuissero sinceramente al pubblico consumo, quanto possiedono di vettovaglie, tanto non basterebbe. Ma dico bene, che la maggior [p. 81 modifica]parte sono fatte a mano per sbaglio, per industria, per zelo eziandio di chi governa.

Se in due Provincie, e Città vicine provvedute dalla natura in un anno di raccolta proporzionata, ed anche superiore al loro consumo, si usino diverse regole: cioè che dove in una la pietà del Governatore, ricevuta appena la notizia della raccolta, per far vivere i suoi Popoli nell’abbondanza proibisca l’estrazioni, obblighi a riempier il Mercato, a vendere per certo prezzo, nè risparmi industria, nè autorità per torre ogni ombra di carestìa: quando nell’altra niente si pensa a regolar il prezzo, lasciando correrlo tutto a seconda dei Venditori.

Chi non vede, che la prima da se stessa si fabbrica una pessima carestìa, e la seconda passerà l’anno nell’abbondanza? Poichè non perde niente questa della sua provvisione, anzi chiamandone dalla Provincia vicina, che corre all’alto prezzo anche ad onta delle proibizioni, si riempirà [p. 82 modifica]soprabbondantemente, e vedrà presto i venditori mortificati scontare in dieci mesi l’accrescimento del prezzo, che avevano forse malignamente procurato.

L’alto prezzo riempie la Città, ed è cagione, che poi le Grasce si avviliscono. L’unico antidoto provato, e sperimentato per chiamare alla Città l’abbondanza, si è il tenere in riputazione i Mercati di Settembre in modo, che metta conto di riempirla: perchè più presto, che v’entra Grano, più presto si avvilisce da se medesimo. Non pretendo però, che quei, che vi presiedono debbano impegnarsi a preparare colle proprie mani a popoli una sì amara medicina, basta, che lascino correre, ne impediscano la natura, se opera da se medesima.

Quel pretendere di affaticarsi, quando non bisogna, e subito dopo raccolte fertilissime per tenere il prezzo più vile, a vuotare i Magazzini del Pubblico, da riempiersi poi fra pochi mesi, l’è un volere, che si ammali il Popolo di ripienezza per aver poi l’onore per pigliarsi il piacere di [p. 83 modifica]curarlo con altrettanta dieta, col cavargli quel sangue, che potevasi risparmiare, se si fosse lasciato cibare a seconda dell’appetito.

Tanto più, che a bene esaminare gli effetti di questo regolamento si conoscerà, che siccome appunto il sangue non si cava nè dallo stomaco, nè dal palato, che ebbero il piacere di saziarsi, così la pena di questo rimedio cade tutta sopra le membra meno nobili sopra la povertà, poichè l’avvilire un prezzo per un mese, o due, giova a quei compratori, i quali hanno polso di provvedersi la questo tempo per tutto l’anno, e fa danno a quei miseri venditori, i quali debbono precipitare la loro mercanzìa a tracollo, perchè li pressa il bisogno. Pel contrario i venditori ricchi potendo aspettare, che il Mercato si sfolli di venditori, si ridono di questo efimero avvilimento, e lo fanno scontare a poveri, ai più mendici, che campano giorno per giorno, e dovranno per dieci mesi [p. 84 modifica]pagare il Grano più caro, perchè per uno, o due mesi l’ebbero a buon mercato.

Provvisioni dell’abbondanza ottime, ma si vorrebbe diverso regolamento. Non può forse da una savia politica pensarsi mai un istituto più profittevole, e pio di quel che sia il conservare una quantità di frumento per provvedere in anni sterili i Forni, ed i Mercati, affine di mantenervi anche a faccia delle carestie un prezzo discreto, ed a portata delle forze del popolo, e della plebe meschina.

Questo istituto chiamasi fra noi l’Abbondanza e con giusta ragione quei, che la governano hanno tutta la potestà di regolare i prezzi del pane, e di far pubblico traffico del Grano, di vantaggiarsi ancora nel trafficarlo, perchè troppo importa ai poveri, che questo lor patrimonio non manchi.

Ma io non vedo il perchè dopo di avere ripieni i Granai, ed i Magazzini, e quando corrono i prezzi vilissimi, non possono starsene in pace quei, che non hanno altro uffizio, che di guardarci dalle [p. 85 modifica]carestie. Fino a sare attenti perchè i Grani, che essi tengono in riserbo, non patano, procurando di rinnovarli di cambiarli; l’intendo. Ma questo potrebbe farsi anche per via di permutazione senza alterare il commercio, coll’obbligare i Fornaj, e gli altri Cittadini a permutarlo, e potrebbe anche ottenersi col risparmio di molte spese di Ministri, di trasporti, di conciatori, che forse consumano il guadagno del traffico continuo, che ogni anno si fa in gravissimo pregiudizio del commercio sempre a scapito della povertà. Dove senza darsi alcun moto, e senza intrigarsi nel commercio, finchè il prezzo del nostro Moggio non arrivi almeno ai dodici scudi potrebbono governare allora la Città a dieci con quel Grano, che costerà forse meno di otto, e assicurarsi un importantissimo, e sicuro avanzo, col meritarsi insieme tutte le benedizioni.

Questo l’è un punto, che quantunque non paja, che così da vicino riguardi [p. 86 modifica]l’argumento del mio discorso, nulla di meno non potevo dispensarmi di accennarlo a cagione del gravissimo pregiudizio, che risente la Maremma dall’alterazion del prezzo, che il traffico dell’Abbondanza fa nel commercio, quasi che l’obbligasse il suo istituto a provveder il pubblico con roba di pura conquista sopra i miseri Agricoltori, e non a procurare piuttosto il bilanciare la tariffa dei prezzi in modo, che possano sussistere ancora questi, mantenere aperto il loro traffico, tirare avanti quelle semente, le quali sono l’unica difesa, che la natura ci abbia insegnata per difenderci dalle carestìe.

Tanto più, che quei medesimi che quei medesimi presiedono all’abbondanza di Siena, godendo giustamente l’autorità di regolare anche la Maremma, in ciò, che riguarda la vettovaglia richiedono da essa con troppo zelo l’osservanza di alcune Leggi, le quali sono utilissime per le Città popolate, e per i luoghi dove vi è più consumo, che [p. 87 modifica]cheroba, ma sono per la Maremma perniciosissime.

Traffico dei Grani da permettersi nella Maremma. Quel perseguitare come insidiatori del pubblico bene, e persecutori dei poveri coloro, che comprano i Grani per guadagnarvi, quando sono necessarj ad alimentare il Paese, quando pretendono di affamarlo per fare il prezzo a modo loro: io l’intendo, fanno un traffico maledetto da Dio medesimo. Ma se in Maremma non v’è altra mercanzia, che questa di sopravanzo, se non vengono compratori forastieri a ricercarla, quando la necessità di vendere incalza, e che quei miserabili co Granaj pieni non hanno da sodisfare i loro creditori, da reggere la spesa del loro lavoro, lo crederei un traffico onesto, utile, e lodevole, e da promuoversi piuttosto, che proibirsi.

Anzi credo, che uno dei maggiori danni, che cagiona l’incertezza delle Tratte sia, perchè pochi impiegherebbono il loro denaro nel traffico dei Grani eziandio che fosse permesso, senza essere assicurati di [p. 88 modifica]potere disporne poi a lor piacimento. Dove con questa sicurezza potrebbe sperarsi, che quei, che hanno denari in Firenze, in Genova, in Livorno farebbono a gara per interessarsi in una mercanzia capacissima di raddoppiare di prezzo in pochi anni, ed alle volte in pochi mesi.

L’ Olanda lascia estrarre sempre i Grani. Non credo di sbagliarmi, poichè l’esempio degli Olandesi gran Maestri del Commercio, mi persuade, che così seguirebbe. Questi non provano mai la carestìa, perchè mostrano di non temerla, e dalle loro Provincie, che non producono, che l’ottava parte del grano, che vi si consuma, v’è facoltà di estrarne quanto si vuole, senza che possa temersi, che motivo, nè necessità alcuna possa fare giammai alterare questa buona legge, dalla quale riconoscono la loro abbondanza continua. Per questo vi concorrono somme immense di Grano, i Mercatanti tutti ve ne fanno un continuo traffico, ve lo portano, ve lo depositano, perchè sanno, che avranno [p. 89 modifica]sempre la libertà di estrarlo. Onde ne segue, che avendo i Magazzini in casa, essi si provvedono con vantaggio, più che non segue altrove dove stanno spigionati, perchè non si vuole concedere la Chiave libera, non si vuol che si venda senza licenza, e sono troppi che hanno la facoltà di impedirla.

L’Inghilterra premia chi l’estrae. L’istesso osservasi nell’Inghilterra Provincia, a cui sopravanzano i Grani, non perchè vi manchi, come in Maremma, la Popolazione, ma perchè vi fiorisce l’Agricoltura niente meno che il traffico. Quivi non solamente è lecito di estrarre i grani sempre, e senza alcuna Gabella, ma di più con savio provvedimento si premiano dal Pubblico Erario quei che l’estraono, e si paga loro una certa somma di poco minore alla Gabella, che secondo i nostri costumi l’Erario medesimo ne ritrarrebbe; tanto preme in quel Regno, che non perdano il coraggio gli Agricoltori, mostrando con questa, e con altre leggi, colle quali sopra [p. 90 modifica]degli altri si privilegiano, di avere maggiore premura della ricchezza, che ricavano dalle loro Terre, che di quella che vi si apporta colla navigazione continua di tanti preziosi Vascelli.

Parrebbe forse lecito coll’esempio di una Repubblica, e di un Regno, quanto ogni altro autorevoli nelle regole del buon governo sperare anche pe’Grani della Maremma una pari fortuna; ma l’è troppo difficile il torre un costume di già invecchiato, e sempre si opporranno alla libertà delle Tratte coloro, i quali colla potestà di aprirle, e di chiuderle si mantengono in gran rispetto, sempre il liberarla dalla Gabella farà ombra alla Plebe, al Popolo, a Cittadini, che temeranno che il regio Erario non voglia compensarsi di questo scapito sopra di loro. Eppure è impossibile di andare avanti senza fare anche questo secondo passo, e torre di mezzo un inciampo, ed un aggravio, il quale ripugna ad ogni buon senso. [p. 91 modifica]

Gabella delle Tratte ridotta in oggi troppo gravosa. Imperciocchè quanto è giusto, che ogni Suddito contribuisca al Principe una porzione di quello, che ritrae dai suoi Terreni, da suoi lavori, da suoi guadagni, altrettanto, è impossibile l’obbligarlo a dare quello, che non ha, ed a pagare le Gabella per gli scapiti, per le perdite, per le disgrazie. Quando il prezzo de Grani, prima dell’avvilimento, che prima delle quattro ultime infelici raccolte abbiamo sperimentato continuo, non solamente compensava le spese della cultura, ma dava di più il guadagno di due, di quattro scudi per Moggio, poteva al più biasimarsi come perniciosa, e condannarsi forse come troppo severa una Gabella, che la sesta, la terza parte, ed anche la metà degli utili toglieva agli Agricoltori, ma finalmente qualche parte di guadagno vi rimaneva ancora per loro.

Ma se a tempi d’oggi si vende il Grano meno di quello, che costa, se non v’è industria, fertilità di terra, felicità di stagione, [p. 92 modifica]che basti ad ovviare gli scapiti, non che a premiare le fatiche de poveri Agricoltori; chi non vede, che non può chiamarsi Gabella, ma pena piuttosto, e castigo il torre pure un denaro nella vendita, che eglino fanno de proprj Grani; che il chiedere in tributo una porzione del loro guadagno a questi meschini, l’è un affliggerli, e deriderli insieme, niente meno, di quello che si farebbe con un misero navigante, se si volesse obbligarlo a fare parte degli utili, che ritrarrà da quelle merci che perirono nel naufragio.

Starei per dire, che se quei vincitori, i quali per mantenere un perpetuo monumento del loro furore contro qualche Città debellata comandavano, che si aspergessero di Sale i suoi Campi, avessero potuto assicurarsi di una Gabella simile a questa, che castigasse chiunque ardisse di lavorargli, e metterli in frutto, chiunque con alcuna industria si ingegnasse di arricchire la Città di denaro, di farla abbondante di [p. 93 modifica]vaglia, averebbono fatta una vendetta più senza paragone irrimediabile, ed esemplare.

Nè sia maraviglia, se sotto una Nazione, la quale nella Religione, nella Pietà, nelle Scienze, nelle Arti fiorisce quanto altra mai, ed in quella di governare è stata ad altre Nazioni ancora maestra, si discuopriranno altri simiglianti costumi, altre gravezze sopra la Maremma dello stesso carattere distruttivo. Perchè a cagione della sua desolazione resta da gran tempo questa infelice Provincia senza avere alcuno fra tanti Ministri, che la governano, che possa dirsi sua Creatura, o almeno, che avendo più volte passeggiate queste Campagne, avuto interesse in quei lavori, vedute almeno se non isperimentate le miserie di quegli infelici, sia in grado di rappresentarle al Sovrano, di fargliene sinceramente la descrizione.

La Maremma è stata governata da molti, e non protetta mai da nessuno. Tutti per lo più sapientissimi Giurisconsulti, oppure nella Mercatura pratici, ed esercitati si meritano questi posti [p. 94 modifica]supremi, da quali dipende colla forte dell’altre Provincie anche quella della Maremma, senza averne altra notizia, che quella della sua estensione che insegnano i Geografi, della sua desolazione che rappresentasi da qualche Viaggiatore. Niuno di essi ebbe mai l’incarico dal Sovrano di invigilare al suo mantenimento, al suo aumento, o l’obbligo di internarsi nella cognizione delle prime cause, dalle quali dipendono le sue rovine.

Io non credo, che sia un mancare del rispetto dovuto a tanti valenti Uomini, i quali col loro studio, colle loro lodevoli azioni illustrando la Curia, o aggiungendo ricchezze col loro traffico alla Città di Firenze si meritano di essere chiamati a parte del governo dello Stato distribuito in varj Magistrati, ed Ufizi, se dirò, che niente più può sperare la Maremma dalla loro condotta di quello, che potrebbe promettersene una valente Armata, la quale sotto del loro comando dovesse regolarsi nella [p. 95 modifica]conquista di una Piazza, di cui non sapessero altro che il nome. Se il bersaglio è fuori di mire, se non si discerne, se non si è mai veduto, è difficile il colpir giusto, anche che l’arte, e l’esercizio non mancassero.

Preoccupati essi secondo la condizione loro a favore della Plebe Urbana stimano, che fosse effetto della semplicità dell’antico Popolo Romano, l’ammettere, che faceva a consiglio le Tribù Rustiche, privilegiandole in modo, che la fortuna, e il mantenimento della Repubblica dipendesse totalmente dalla loro decisione. E vedendo che la sola Città di Firenze colle sue Arti, ed il Porto di Livorno col suo Traffico adunano più ricchezze, più contribuiscono al Regio Erario, che tutte le altre Città, tutte le Campagne della Toscana, all’accrescimento di quests due ristringono la loro premura.

Lo Stato di Siena non può reggersi, la Maremma è di peso: sono parole di qualche Ministro, che dovrebbe aiutarli più di [p. 96 modifica]ogni altro. Dunque, dice egli, bisogna tirare avanti meglio che si può, purchè le Regalie non scapitino, e vengano a Firenze le solite Tasse. Il mantenere il Grano nella Città a buon prezzo, dice chi presiede all’Abbondanza è il mio ufizio, nè devo pensare più oltre: ed il mantenere le rendite della Dogana, reggere i Monti è tutta la mia obbligazione, dice quell’altro. Ristringe uno tutta la premura, perchè le rendite del Sale non vengano meno: qualche altro, perchè si mantengano gli Appalti in credito, non pensa, che a perseguitare i Contrabbandieri. Tutti sapientissimi Giurisconsulti, come essi sono, occupati nel solo pensiero del proprio uffizio, stillano il loro ingegno nello studio degli antichi Bandi, in inventare nuove, e più severe leggi per vantaggio della lor Cassa, perchè non resti indietro la loro esazione, senza avvertire, che se molti periti Medici vorranno applicare ad un infermo ciascheduno il suo medicamento, se molti viandanti vorranno [p. 97 modifica]caricare una Nave del loro peso anche discreto, senza aver riguardo alle medicine, con cui gli altri hanno aggravato l’infermo, a molti pesi de’ quali gli altri hanno aggravata la Nave, faranno di quello un Cadavere, manderanno la Nave sotto acqua.

Sia detto con pace di quelli, che con somma lode arricchiscono la Città di Firenze col loro traffico, co loro lavori, non farebbe forse poco, se questa ricchezza, che essi acquistano alla Patria compensasse la perdita di denaro, che è necessario farsi in ciascheduno anno pel solo mantenimento della vettovaglia. Onde l’oro, che si manda fuori, e per mantenimento della delizia, e per accrescimento della pubblica, e privata magnificenza, e quella forza di contribuire al Regio Erario più, che tutto il rimanente della Toscana, deve necessariamente attribuirsi al vantaggio, che ha Firenze di radunarsi in essa come nel cuore tutti gli spiriti vitali della Provincia. [p. 98 modifica]

Le rendite de luoghi di Monte, gli stipendi della Corte, della Milizia, della Curia, delle Finanze formano una ricchezza tale, che sorprende lo stupore, e mostra di avere le sue radici distese oltre gli angusti confini non solamente della Città, ma ancora del suo Territorio, ed il pretendere di mantenere queste anche col seccarsi il rimanente della Provincia, non so come possa sperarsi.

Mi sta in mente l’impegno pigliato di non proporre in favore della Maremma partito alcuno, che neppure per ombra sia di aggravio al rimanente della Toscana, deve arricchirsi quella col far fruttare i suoi terreni, col dare l’essere a quei frutti, che non vi sono, non col pascersi all’ altrui spesa. Vorrei, che Firenze, Siena, e Livorno riguardassero questa Provincia come una bottega, che potrebbono avere sotto casa ripiena di ciò che a loro suol bisognare, senza avere obbligo neppure di voltarvisi quando trovano altrove maggior piacere. [p. 99 modifica]Se meglio si adatta al loro gusto il Grano navigato, se vogliono mandare i loro tesori a secondare le Campagne del Levante, e del Settentrione, piuttosto che mandare in Maremma per reggervi il traffico una piccola somma: io glie l’ammetto; non posso lodarlo, ma devo compatirlo, perchè l’è un vizio del secolo l’amare le cose più navigate.

Ma vorrei almeno, che se vogliono servirsi altrove, quando la mercanzìa non trova spaccio, si contentassero allora che questa abbia richiesta, o di lasciarla vendere a quei che sono soliti di comprarla, o farne la compra essi medesimi.

Serrare le Tratte non si vende neppure a prezzo vile. Quel serrare le Tratte senza volere comprare l’è un inchiodare affatto la porta della bottega, perchè vi marciscano dentro le mercanzie, ed il pretendere, che il trattenere il Grano in Maremma rimedi alla penuria che sia in Firenze si è lo stesso, che l’incendiarvi una Selva per riscaldare uno intirizzito che sia molte miglia [p. 100 modifica]lontano: sono tanto il Grano che il fuoco fuori della sfera della loro attività, poichè è tale la distanza, atteso particolarmente il non avere quei meschini nè commodità di vetture, nè pratica, nè corrispondenza, nè Mercati: ed oltre a ciò il non potere abbandonare le loro case, i loro bestiami, i loro lavori: che l’intraprendere per terra un trasporto per lo più anche proibito nello Stato di Firenze l’è molto più impraticabile, e dispendioso che quello della Pollonia, e della Moscovia a Livorno.

Quindi ne siegue, che non si trova chi compri neppure a prezzo vilissimo quel poco che ve ne sia di sopravanzo anche nei tempi di non mediocre penuria. Scacciati gli Avventori, e necessitati ad aprirsi altrove il commercio, manca la speranza dello spaccio anche negli anni avvenire: onde quegli anni, ne’ quali il prezzo maggiore dovrebbe compensare lo scapito, che fecero nella bonaccia, sono per [p. 101 modifica]i Maremmani i più esterminatori.

E sì abbandonano i lavori. Non si chiudono giammai le Tratte, senza che si obblighi qualcheduno di questi a chiudere, ed abbandonare il suo lavoro, siccome non cresce mai sopra l’ordinario prezzo il Grano, senza che eziandio la sementa non si accresca considerabilmente. Che se sarebbe un rimedio da disperati, e che non pensano all’ anno avvenire il mangiare il Grano, che dovrebbe seminarsi per diminuire la carestìa che ci affligge; non vedo come mai possa venire in mente di serrare le Tratte, quando anche queste necessitano niente meno i Maremmani ad abbandonar le semente.

Sarebbe minor male l’obbligarli a contribuire gratuitamente alle Città di Firenze, o di Siena la metà del Grano che hanno, purchè si lasciasse loro la libertà di trafficare il rimanente. Imperciocchè se il tutto non si trova da vendere neppure pel prezzo, che si venderebbe la sola metà, lo scapito diviene maggiore. [p. 102 modifica]

Non si ridurrebbono allora in grado di abbandonare anche co’ granaj pieni, come alle volte è accaduto, i loro Colti, e le Terre già lavorate, e smacchiate per non potere trovar compratore che desse denaro per andare avanti.

E seguono altri pregiudizi.Tanto più che debbono allora più che mai aspettarsi questi infelici di vedersi raddoppiati i rigori dell’ esazioni, poichè privato che sia il Regio Erario degli utili che ritrae dalla Gabella delle Tratte, non è in grado di soffrire dilazioni, di usar condescendenze, e la necessità di esigere viene in sequela della proibizione di acquistar denaro che ad essi si fa, quasi fosse in loro arbitrio il batter moneta, ed avessero la cava dell’ oro nelle loro Capanne. Che si obbligassero a dare quello che hanno, l’intendo, Grano, Bestiami, Istromenti de loro lavori; Ma il chiudere alla Fonte i Canali, e volere che segua a contribuire più abbondanti le sue acque, l’è una politica da non potere andare in lungo. [p. 103 modifica]

La poca pratica, che si ha della Maremma rende incredibili questi per altro chiari, e sensibili sconcerti. Non si f sa restar persuasi che non rimangano in quella compensi di altre rendite da potersi riavere del tenue danno, che si apprende potersele cagionare col chiudere le Tratte del solo Grano. Il Vino, l’Olio, le Lane, i Bestiami, le Biade, le Pasture con molti altri generi di frutti sono nei pressi delle gran Città di tale importanza, che raddoppiano, e rinterzano gli utili dei Terreni: di modo che una Possessione, cui per qualche disgrazia fallisce questa primaria rendita, non per questo resta priva delle altre, e va innanzi ugualmente bene.

Non così però in Maremma dove tutte queste rendite sono, si può dire, accessorie, ed hanno da quella del Grano una necessaria dipendenza: non tanto perchè quel povero Uomo che s’industria a seminare una Campagna di Grano rade volte ha in queste altre rendire alcuna parte, ma [p. 104 modifica]perchè senza vendersi il Grano, manca a tutti la sussistenza, ed il modo di tirar avanti gli altri guadagni: cessa il bisogno di queste cose, ed il modo di comprarle: onde devono ancora esse per mancanza di consumo avvilirsi, e perdere la loro stima.

Scematesi in Maremma tre, o quattro mila Moggia di Semente, si è perduto il consumo di quasi altrettante paja di Bovi, che vi si richiedevano per lavorare: è cessato l’utile di altrettante Doppie a quei che vi impiegavano le loro Cavalle nelle Tribbiature. I Cavalli, che per tanti trasporti vi bisognavano, o per l’uso di tanti lavoratori, non hanno più richiesta; e perciò a misura che scemarono le semente, fu necessità di disfarsi de’Bestiami, che a quelle servivano, e ritraevano da quelle la loro sussistenza.

Il Vino non suol computarsi in Maremma per una rendita di gran profitto, perchè le spese che richiede la sua cultura fatta a forza di contanti, e di lavoratori [p. 105 modifica]forastieri difficilmente possono pareggiarsi. Gli Ulivi, gli Alberi fossero quanto si voglia fruttiferi, senza lavorare all’intorno dovevano perdersi, e sopraffatti dalli Sterpi ridursi finalmente a pascolo degli Armenti; l’erbe, senza lavorare i Terreni, si insalvatiscono, e non vagliono per metà; In somma l’esperienza medesima ci ha comprovata pur troppo un’universale desolazione di tutte le rendite a misura degli scapiti, che si sono fatti nelle semente dei Grani.

E finalmente un universale desolazione. Stimo inutile l’estendersi maggiormente in porre sotto degli occhi di tutti i disordini, che dovevano cagionarsi dal privar una Provincia della sua principal ricchezza, della miglior sussistenza, di cui la natura l’avesse provveduta, e di far vedere, come dopo l’impoverimento, dovea seguirne la spopolazione, e dietro a questa la rovina delle Castella, la depravazione dei costumi, e tutti quei mali che l’hanno ridotta sotto del niente, e fanno desi[p. 106 modifica]derate che non vi fosse. Tanto più, che la sola proibizione delle Tratte, il solo avvilimento dei prezzi de Grani averebbe prodotta a mio credere questa declinazione a passo a passo, sarebbele stata una malattìa mortale, è vero, ma da consumarla insensibilmente: ma altre leggi dell’istessa indole, del genio medesimo di secondare la Plebe, col ridurre i frutti della Terra a vendersi meno di quello che costano, hanno sollecitato i suoi precipizj.

La mancanza delle Carni per la ragione stessa. Chi crederebbe, che la Città di Siena colle sue vaste Campagne, co suoi preziosi Pascoli fosse omai vicina a dovere mendicare da altre Nazioni le Carni per suo consumo, quando il sopravanzo di queste allorchè il suo Stato era in sette volte maggiore popolazione, formava una ricchezza invidiabile all’Italia tutta. Ma la proibizione di estrarre i Bestiami ridotta a legge ordinaria ha messo in perdita anche il loro frutto. Quel non volere comprare, nè volere lasciar vendere fuori Stato ha umi[p. 107 modifica]liati i Possessori di questo genere di Mercanzia sì fattamente, che pochi si trovano che si curino d’avere questa sorta di Capitali.

Bestiami nella Maremma costano più, e fruttano meno, che altrove. E certamente non poteva lusingarsi, che dovesse godere lunga vita questa bonaccia chiunque sapesse le gravi spese che richiedono, ed il frutto senza paragone minore che poi rendono i Bestiami della Maremma rispetto a quei degli altri luoghi. Vi vogliono in Maremma continue inquietudini, e spese gravissime, ed alle volte neppure bastano per trovare chi guardi, e faccia notte e giorno compagnìa ad un branco di armenti, che non sta mai al coperto esposto sempre alle Nevi, alle Piogge nell’Inverno, ed alla malignità dell’Aria, ed a riverberi del Sole più cocente nell’Estate, senza altro refrigerio, che di trovar forse dopo molte miglia di cammino un poco di acqua limacciosa per ristorarsi la sete. Mi assicuro, che se i Poeti avessero avuta in vista la vita pastorale de Ma[p. 108 modifica]remmani non avrebbero tanto esaltata, e lodata questa professione. Quel dovere andar sempre per balze, e dirupi ora a piedi, ora a cavallo, ora carpone in traccia di bestie insalvatichite, l’è troppo differente dal piacere che suppongono in vedersi seguir dietro mansueto, ed ubbidiente alla propria capanna l’armento.

Ed io credo, che niuno di quei che mendicando nelle Città muovono a compassione, e che tra’ poveri appariscono i più necessitosi si curerebbe di risanare i suoi piedi a condizione di dovere raddrizzato che fosse intraprendere la vita di costoro molto più stentata, e necessitosa.

Di quì è, che in procurando di avvilire i prezzi de Bestiami, se non forma a poco a poco, come appunto si è fatto nel Grano, la carestìa, ed il superfluo si riduce tutto nell’erbe, e ne’ pascoli, che se ne marciscono per non essere chi li consumi, onde saranno l’unica cosa che a lungo andare vi rimanga di sopravanzo, poichè il [p. 109 modifica]selvatico cresce più orgoglioso, allora che non vi si fatica, ne vi si spende. E quelle Comunità, che negli Erbatici credevano di possedere fra le ricchezze la più sicura, e meno esposta alle umane vicende, ben si accorgono, che essendone colla diminuzione de’ Greggi scemato il consumo, e con quello delle semente deteriorata la qualità, vi è ormai poco guadagno, e che se si sono perdute le rendite del Grano, e de Bestiami coll’adoprare quei mezzi che abbiamo veduto essere i più proprj per annientarne la specie, si perderà nientemeno quella de pascoli con annientarne il consumo.

Dogana dei Paschi frutta meno. E bene se ne può accorgere il Regio Erario dall’alterazione, che in questi ultimi anni si è fatta nella Dogana de’ Paschi che rendono la metà meno. So, che se ne incolpano i Frodi, ma sarà più difficile il provare, che i frodi siano moltiplicati, che il dimostrare che siano diminuiti gli Armenti per l’addotta ragione di volerli a discrezione de’ Compratori. [p. 110 modifica]

Mi sono prolungato più di quello che avessi in mente, e pure mi resterebbe molto che aggiungere contro di questo prurito di avvilire i prezzi che ha cagionate le rovine della Maremma, cui tengono dietro quella dello Stato di Siena, ed i pregiudizj gravissimi del rimanente della Toscana, la quale deve con scapito di somme immense mendicare da altre Nazioni quel Grano, quei Bestiami per vivere che erano prima la sua ricchezza. Se invece di avvilire sempre più i prezzi di quei frutti che nascono in casa si fosse procurato a trattenersi piuttosto il denaro, che non uscisse dal Principato, e non corresse alla macea dei Venditori forestieri: se si fosse procurato di reggere piuttosto i prezzi in modo che anche la Cultura de Terreni meno fertili potesse fare sperare il guadagno, non sarebbe la Maremma così desolata, e molto meno si vedrebbono anche fuori della Maremma tante Terre abbandonate, ed incolte, e molte migliaja di Moggia, che [p. 111 modifica]si seminerebbono di vantaggio, sarebbono una bella difesa dalle carestie che non così spesso ci visiterebbono, e lo stato munito de denaro non crollerebbe alla prima straordinaria disgrazia che lo minacciasse.

Scapito, che si farebbe in lasciare estrarre il Grano, e i Bestiami. Or io dico che facendosi al Grano, ed a Bestiami di Maremma il porto franco, permettendo di trafficarli, di estrarli liberamente, e senza Gabella, e con legge perpetua di non serrare mai le Tratte, e di non escludere i Compratori forestieri, se non col denaro alla mano, e con pagarli il medesimo prezzo, che quelli li pagherebbono: il Regio Erario altro non vi perderebbe, che meno di tremila scudi quanto presentemente frutta la Gabella delle Tratte, ed i suoi Sudditi perderebbono quel piccolo avvilimento di prezzo, che può cagionarsi allo Stato in qualche anno di penuria, col farvi rigurgitare una piccola quantità di vettovaglia: danno certamente, come si è mostrato insensibile, e facile a compensarsi in mille modi come vedremo. [p. 112 modifica]

Ma a dire il vero quantunque io creda che questo solo passo sarebbe stato venti, o trenta anni innanzi capace di trattenere que’ precipizj, ne quali vediamo in oggi caduta questa Provincia, e benchè io non dubiti ancora, che almeno un migliajo di Moggia fosse per accrescersi la sementa in sequela di questa deliberazione, ed a proporzione moltiplicarsi anche in oggi i suoi Bestiami: nondimeno l’è tale la sua desolazione, che fa duopo di riguardarla, come si riguardano quei Paesi, che per essere acquistati sopra qualche barbara Nazione, rimangono vuoti di abitatori colle Case diroccate, rovinati i Fonti, senza Frutti, senza Clero, senza Leggi. Questi per quanto siano di Clima, e di terreno naturalmente felici sarebbono di peso a chi li ha conquistati, se non vi si chiamassero nuove popolazioni premiando, donando, privilegiando: se col mettere in vista qualche guadagno non si inducessero ad abitarvi nuove Colonie, a trasportarvi dalla patria [p. 113 modifica]la loro famiglia, e fabbricare tra queste rovine.

Il privilegiar la Maremma è stato sempre creduto necessario. La regola di privilegiar la Maremma è stata sempre da’ nostri Sovrani raccomandata, ed è molto più necessaria in discorrendosi di rimetterla dalla presente desolazione. Con tutto ciò per sapere in oggi i suoi privilegj, bisogna ripescare negli antichi Archivj, perchè a proporzione della sua debolezza si vedrà, che resta molto più aggravata delle altre Provincie della Toscana, non già per quel pochissimo che si contenta ritrarne la Clemenza de’ nostri Principi, ma pel modo con cui questo poco si esige da chi eseguisce i loro comandamenti. Anco un discreto carico riesce grave, se montino sopra del carro molti caricatori, o se vi si aggiungano custodie sopra custodie che pesino quattro volte più.

Voglio dire, che, se le gravezze che ha la Maremma si misurino da quel poco che al Principe ne perviene, sono insensi[p. 114 modifica]bili, ma se si consideri l’inquietudine che portano ai popoli col necessitarli a governare tanti Tribunali, Magistrati, Scrivani, Birri, soffrire Gravamenti, Catture, Bandi Esilj, Ammazzamenti, riescono insopportabili.

Proibizione dell’Armi quanto sia molesta. Non si ritrae dalla Maremma più che poche lire colla proibizione delle Armi (mi appiglio a questa per ispiegarmi con un esempio) ma talmente si inquieta, che una gran parte di que’ Pastori si eleggerebbono di andare scalzi, piuttosto che senza schioppo. Trovarsi la notte in una campagna esposti senza difesa, se non agli Assassini, almeno ai Lupi, che insidiano al Gregge, vedersi il giorno venire a tiro Caprioli, e Cignali, e non aver come offenderli son altro patimento, che non è a un Cittadino il privarsi per poche ore della caccia di semplice divertimento. Quindi ne segue, che la lusinga di non essere nell’oscurità di quelle macchie trovati da’ Birri gli anima a contravvenire alla proibizione. Ma se per indizj, o per caso restano sor[p. 115 modifica]presi, ecco costoro in necessità, o di marcire in una prigione lasciando quel poco che hanno pe’ Tribunali, oppure resistendo perdere il Paese se vincono, e la vita eziandio se perdono, o finalmente di quietare coloro che li sorpresero, dandoli quanto essi hanno, e promettendo più che non hanno, che l’è il prezzo che vagliono i favori, e le grazie di questa fatta.

Ora tutte queste inquietudini, tutte queste afflizioni, tutte queste spese costano alla Maremma perdite di gente, di tempo, di denaro cento volte più che non profitta al Principe la Gabella, tanto più che queste proibizioni si osservano con tal rigore, che io ho veduto in pratica essere più facile ad essere assoluto chi uccise un Uomo senza offenderlo con armi proibite, che chi fu collo schioppo trovato in traccia di qualche Tordela. O sia ciò perchè in perseguitare chi contravviene alle Leggi positive si dia indizio di maggiore zelo, o perchè il perseguitare i Ladri, e Facinorosi [p. 116 modifica]non sia di ugual profitto, o sia eziandio più pericoloso.

Conseguenze de rigori, che si usano per conto del Sale. Non è così facile poi ad immaginarsi quante migliaja de’ suoi Abitatori costino alla Maremma, e quanti di questi furono anche innocentemente calunniati, perseguitati, ed uccisi, e quante Castella furono vuote, ed abbandonate a cagione de’ rigori contro de’ Contrabandieri di Sale.

Il non avere quei meschini denaro da comprarlo, l’essere a confine con molti Paesi che ne fanno miglior mercato, l’avere strade solitarie che fan sperare l’impunità, rendono questo delitto in Maremma, se non più frequente, almeno più verisimile. E poco più del verisimile appunto basta in un delitto tanto privilegiato, perchè un Delatore affamato ne dia la querela, necessiti il Tribunale alle inquisizioni, a principiar un Processo, a mettere in timore un intiero Castello, ad affliggerlo con esami, con cavalcate, con perquisizioni. Quanti per un vano timore di essere [p. 117 modifica] chiamati a un esame si stimarono fortunati in salvare la viva in altro Stato, senza confidarsi nella propria innocenza, tanto in gente semplice, e che non ha da perdere, atterisce il solo nome della Giustizia.

Non si può da chi pratica nella Città bastantemente comprendere quanto costi ad un Pastore il dovere abbandonare il suo Gregge, senza trovare chi sostituite ad un uffizio sì necessario. Se, per ubbidire alle Citazioni di un Tribunale che stia molte miglia lontano, egli dovrà lasciare le bestie con pericolo di essere sorprese in danneggiare l’altrui semente, di traviariî a qualche pascolo infetto, è capace di perdere in un giorno solo l’intiero capitale, non che îl frutto di tutto l’anno, senza che ne il Sovrano, ne altri ne risentano alcun profitto.

Io non voglio quì apportare alcuni lacrimevoli esempi non così facili ad accadere nelle Città, dove l’occhio del Principe, o di qualche suo principal Ministro [p. 118 modifica]Pagina:Discorso Economico sopra la Maremma di Siena.pdf/120 [p. 119 modifica]Pagina:Discorso Economico sopra la Maremma di Siena.pdf/121 [p. 120 modifica]Pagina:Discorso Economico sopra la Maremma di Siena.pdf/122 [p. 121 modifica]Pagina:Discorso Economico sopra la Maremma di Siena.pdf/123 [p. 122 modifica]Pagina:Discorso Economico sopra la Maremma di Siena.pdf/124 [p. 123 modifica]Pagina:Discorso Economico sopra la Maremma di Siena.pdf/125 [p. 124 modifica]Pagina:Discorso Economico sopra la Maremma di Siena.pdf/126 [p. 125 modifica]Pagina:Discorso Economico sopra la Maremma di Siena.pdf/127 [p. 126 modifica]Pagina:Discorso Economico sopra la Maremma di Siena.pdf/128 [p. 127 modifica]Pagina:Discorso Economico sopra la Maremma di Siena.pdf/129 [p. 128 modifica]Pagina:Discorso Economico sopra la Maremma di 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