Atto terzo

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Atto secondo Licenza

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ATTO TERZO

SCENA I

Cortile interno del carcere in cui è custodito Timante.

Timante e Adrasto.

Timante. Taci! E speri ch’io voglia,

quando muore Dircea, serbarmi in vita,
stringendo un’altra sposa? E con qual fronte
sí vil consiglio osi propor?
Adrasto.   L’istessa
tua Dircea lo propone. Ella ti parla
cosí per bocca mia. Dice che è questo
l’ultimo don che ti domanda.
Timante.   Appunto
perch’ella il vuol, non deggio farlo.
Adrasto.   E pure...
Timante. Basta cosí!
Adrasto.   Pensa, signor...
Timante.   Non voglio,
Adrasto, altri consigli.
Adrasto.   Io per salvarti
pietoso m’affatico...
Timante. Chi di viver mi parla, è mio nemico.
Adrasto.   Non odi consiglio?
          soccorso non vuoi?
          è giusto se poi
          non trovi pietá.

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               Chi vede il periglio,

          né cerca salvarsi
          ragion di lagnarsi,
          del fato non ha. (parte)

SCENA II

Timante e poi Cherinto.

Timante. Perché bramar la vita? e quale in lei

piacer si trova? Ogni fortuna è pena;
è miseria ogni etá. Tremiam, fanciulli,
d’un guardo al minacciar; siam giuoco, adulti,
di Fortuna e d’Amor; gemiam, canuti,
sotto il peso degli anni. Or ne tormenta
la brama d’ottenere; or ne trafigge
di perdere il timor. Eterna guerra
hanno i rei con se stessi; i giusti l’hanno
con l’invidia e la frode. Ombre, deliri,
sogni, follie son nostre cure; e, quando
il vergognoso errore
a scoprir s’incomincia, allor si muore.
Ah! si mora una volta...
Cherinto.   Amato prence,
vieni al mio sen. (l’abbraccia)
Timante.   Cosí sereno in volto
mi dai gli estremi amplessi? E queste sono
le lagrime fraterne
dovute al mio morir?
Cherinto.   Che amplessi estremi?
che lagrime? che morte? Il piú felice
tu sei d’ogni mortal. Placato il padre
è giá con te; tutto obbliò. Ti rende
la tenerezza sua, la sposa, il figlio,
la libertá, la vita.

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Timante.   A poco a poco,

Cherinto, per pietá! Troppe son queste,
troppe gioie in un punto. Io verrei meno
giá di piacer, se ti credessi a pieno.
Cherinto. Non dubitar, Timante.
Timante.   E come il padre
cambiò pensier? Quando partí dal tempio,
me con Dircea voleva estinto.
Cherinto.   Il disse,
e l’eseguía; che inutilmente ognuno
s’affannò per placarlo. Io cominciavo,
principe, a disperar, quando comparve
Creusa in tuo soccorso.
Timante.   In mio soccorso
Creusa, che oltraggiai?
Cherinto.   Creusa. Ah! tutti
di quell’anima bella
tu non conosci i pregi. E che non disse,
che non fe’ per salvarti? I merti tuoi
come ingrandí! Come scemò l’orrore
del fallo tuo! Per quante strade e quante
il cor gli ricercò! Parlar per voi
fece l’utile, il giusto,
la gloria, la pietá. Se stessa offesa
gli propose in esempio,
e lo fece arrossir. Quand’io m’avvidi
che il genitor giá vacillava, allora
volo (il ciel m’inspirò), cerco Dircea:
con Olinto la trovo. Entrambi appresso
frettoloso mi traggo; e al regio ciglio
presento in quello stato e madre e figlio.
Questo tenero assalto
terminò la vittoria. O sia che l’ira
per soverchio avvampar fosse giá stanca,
o che allor tutte in lui
le sue ragioni esercitasse il sangue,

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il re cedé, si raddolcí, dal suolo

la nuora sollevò, si strinse al petto
l’innocente bambin, gli sdegni suoi
calmò, s’intenerí, pianse con noi.
Timante. Oh mio dolce germano!
oh caro padre mio! Cherinto, andiamo,
andiamo a lui!
Cherinto.   No: il fortunato avviso
recarti ei vuol. Si sdegnerá, se vede
ch’io lo prevenni.
Timante.   E tanto amore, e tanta
tenerezza ha per me, che fino ad ora
la meritai sí poco? Oh, come chiari
la sua bontá rende i miei falli! Adesso
li veggo, e n’ho rossor. Potessi almeno
di lui col re di Frigia
disimpegnar la fé. Cherinto, ah! salva
l’onor suo, tu che puoi. La man di sposo
offri a Creusa in vece mia. Difendi
da una pena infinita
gli ultimi dí della paterna vita.
Cherinto. Che mi proponi, o prence! Ah! per Creusa,
sappilo alfin, non ho riposo; io l’amo
quanto amar si può mai. Ma...
Timante.   Che?
Cherinto.   Non spero
ch’ella m’accetti. Al successor reale
sai che fu destinata: io non son tale.
Timante. Altro inciampo non v’è?
Cherinto.   Grande abbastanza
questo mi par.
Timante.   Va’; la paterna fede
disimpegna, o german: tu sei l’erede.
Cherinto. Io?
Timante.   Sí. Giá lo saresti,
s’io non vivea per te. Ti rendo, o prence,

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parte sol del tuo dono,

quando ti cedo ogni ragione al trono.
Cherinto. E il genitore...
Timante.   E il genitore almeno
non vedremo arrossir. Povero padre!
posso far men per lui? Che cosa è un regno
a paragon di tanti
beni ch’egli mi rende?
Cherinto.   Ah! perde assai
chi lascia una corona.
Timante. Sempre è piú quel che resta a chi la dona.
Cherinto.   Nel tuo dono io veggo assai
     che del don maggior tu sei:
     nessun trono invidierei
     come invidio il tuo gran cor.
          Mille moti in un momento
     tu mi fai svegliar nel petto,
     di vergogna, di rispetto,
     di contento e di stupor. (parte)

SCENA III

Timante e poi Matusio con un foglio in mano.

Timante. Oh figlio! oh sposa! oh care

parti dell’alma mia! dunque fra poco
v’abbraccerò sicuro? È dunque vero
che fino all’ore estreme,
senza piú palpitar, vivremo insieme?
Numi, che gioia è questa! A prova io sento
che ha piú forza un piacer d’ogni tormento.
Matusio. Prence! signor!
Timante.   Sei tu, Matusio? Ah! scusa
se invano al mar tu m’attendesti.

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Matusio.   Assai

ti scusa il luogo in cui ti trovo.
Timante.   E come
potesti mai qui penetrar?
Matusio.   Cherinto
m’agevolò l’ingresso.
Timante.   Ei t’avrá dette
le mie felicitá.
Matusio.   No: frettoloso
non so dove correa.
Timante.   Gran cose, amico,
gran cose ti dirò.
Matusio.   Forse piú grandi
da me ne ascolterai.
Timante.   Sappi che in terra
il piú lieto or son io.
Matusio.   Sappi che or ora
scopersi un gran segreto.
Timante.   E quale?
Matusio.   Ascolta
se la novella è strana.
Dircea non è mia figlia: è tua germana.
Timante. Mia germana Dircea! (turbato)
Eh! tu scherzi con me.
Matusio.   Non scherzo, o prence.
La cuna, il sangue, il genitor, la madre
hai comuni con lei.
Timante.   Taci! Che dici?
(Ah, nol permetta il ciel!)
Matusio.   Fede sicura
questo foglio ne fa.
Timante. (con impazienza) Che foglio è quello?
Porgilo a me.
Matusio.   Sentimi pria. Morendo,
chiuso mel die’ la mia consorte; e volle
giuramento da me che, tolto il caso

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che a Dircea sovrastasse alcun periglio,

aperto non l’avrei.
Timante.   Quand’ella adunque
oggi dal re fu destinata a morte,
perché non lo facesti?
Matusio.   Eran tant’anni
scorsi di giá, ch’io l’obbliai.
Timante.   Ma come
or ti sovvien?
Matusio.   Quando a fuggir m’accinsi,
fra le cose piú care
il ritrovai, che trassi meco al mare.
Timante. Lascia alfín ch’io lo vegga. (con impazienza)
Matusio.   Aspetta.
Timante.   Oh stelle!
Matusio. Rammenti giá che alla real tua madre
fu amica sí fedel la mia consorte,
che in vita l’adorò, seguilla in morte?
Timante. Lo so.
Matusio.   Questo ravvisi
reale impronto?
Timante.   Sí.
Matusio.   Vedi ch’è il foglio
di propria man della regina impresso?
Timante. Sí, non straziarmi piú! (con impazienza)
Matusio. (gli porge il foglio) Leggilo adesso.
Timante. (Mi trema il cor.) (legge) «Non di Matusio è figlia,
ma del tronco reale
germe è Dircea. Demofoonte è il padre;
nacque da me. Come cambiò fortuna,
altro foglio dirá. Quello si cerchi
nel domestico tempio, a piè del nume,
lá dove altri non osa
accostarsi che il re. Prova sicura
eccone intanto: una regina il giura.
Argia».

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Matusio.   Tu tremi, o prence!

Questo è piú che stupor. Perché ti copri
di pallor sí funesto?
Timante. (Onnipotenti dèi, che colpo è questo!)
Matusio. Narrami adesso almeno
le tue felicitá.
Timante.   Matusio, ah! parti.
Matusio. Ma che t’affligge? Una germana acquisti,
ed è questa per te cagion di duolo?
Timante. Lasciami per pietá! lasciami solo! (si getta a sedere)
Matusio. Quanto le menti umane
son mai varie fra lor! Lo stesso evento
a chi reca diletto, a chi tormento.
          Ah! che né mal verace,
     né vero ben si dá:
     prendono qualitá
     da’ nostri affetti.
          Secondo in guerra o in pace
     trovano il nostro cor,
     cambiano di color
     tutti gli oggetti. (parte)

SCENA IV

Timante solo.

Misero me! Qual gelido torrente

mi ruina sul cor! Qual nero aspetto
prende la sorte mia! Tante sventure
comprendo alfin. Perseguitava il cielo
un vietato imeneo. Le chiome in fronte
mi sento sollevar. Suocero e padre
m’è dunque il re? figlio e nipote Olinto?
Dircea moglie e germana? Ah, qual funesta
confusion d’opposti nomi è questa!

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Fuggi, fuggi, Timante! agli occhi altrui

non esporti mai piú. Ciascuno a dito
ti mostrerá. Del genitor cadente
tu sarai la vergogna; e quanto, oh Dio,
si parlerá di te! Tracia infelice,
ecco l’Edipo tuo. D’Argo e di Tebe
le Furie in me tu rinnovar vedrai.
Ah, non t’avessi mai
conosciuta, Dircea! Moti del sangue
eran quei ch’io credevo
violenze d’amor. Che infausto giorno
fu quel che pria ti vidi! I nostri affetti
che orribili memorie
saran per noi! Che mostruoso oggetto
a me stesso io divengo! Odio la luce;
ogni aura mi spaventa; al piè tremante
parmi che manchi il suol; strider mi sento
cento folgori intorno; e leggo, oh Dio!
scolpito in ogni sasso il fallo mio.

SCENA V

Creusa, Demofoonte, Adrasto con Olinto per mano,
e Dircea, l’un dopo l’altro, da parti opposte, e detto.

Creusa. Timante!

Timante.   Ah! principessa; ah! perché mai
morir non mi lasciasti?
Demofoonte.   Amato figlio!
Timante. Ah! no, con questo nome
non chiamarmi mai piú.
Creusa.   Forse non sai...
Timante. Troppo, troppo ho saputo!
Demofoonte.   Un caro amplesso,

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pegno del mio perdon... Come! t’involi

dalle paterne braccia?
Timante. Ardir non ho di rimirarti in faccia.
Creusa. Ma perché?
Demofoonte.   Ma che avvenne?
Adrasto.   Ecco il tuo figlio:
consòlati, signor.
Timante.   Dagli occhi, Adrasto,
toglimi quel bambin.
Dircea.   Sposo adorato!
Timante. Parti, parti, Dircea!
Dircea.   Da te mi scacci
in dí cosí giocondo?
Timante. Dove, misero me! dove m’ascondo?
Dircea. Ferma!
Demofoonte.   Senti!
Creusa.   T’arresta!
Timante.   Ah! voi credete
consolarmi, crudeli, e m’uccidete.
Demofoonte.   Ma da chi fuggi?
Timante.   Io fuggo
dagli uomini, dai numi,
da voi tutti e da me.
Dircea.   Ma dove andrai?
Timante. Ove non splenda il sole,
ove non sian viventi, ove sepolta
la memoria di me sempre rimanga.
Demofoonte.   E il padre?
Adrasto.   E il figlio?
Dircea.   E la tua sposa?
Timante.   Oh Dio!
non parlate cosí. Padre, consorte,
figlio, german son dolci nomi agli altri;
ma per me sono orrori.
Creusa.   E la cagione?
Timante. Non curate saperla:
scordatevi di me.

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Dircea.   Deh! per quei primi

fortunati momenti in cui ti piacqui...
Timante. Taci, Dircea.
Dircea.   Per que’ soavi nodi...
Timante. Ma taci, per pietá! Tu mi trafiggi
l’anima, e non lo sai.
Dircea.   Giá che sí poco
curi la sposa, almen ti muova il figlio.
Guardalo: è quell’istesso
che altre volte ti mosse;
guardalo: è sangue tuo.
Timante.   Cosí nol fosse!
Dircea. Ma in che peccò? perché lo sdegni? a lui
perché nieghi uno sguardo? Osserva, osserva
le pargolette palme
come solleva a te: quanto vuol dirti
con quel riso innocente!
Timante.   Ah! se sapessi,
infelice bambin, quel che saprai
per tua vergogna un giorno,
lieto cosí non mi verresti intorno.
          Misero pargoletto,
     il tuo destin non sai.
     Ah! non gli dite mai
     qual era il genitor.
          Come in un punto, oh Dio,
     tutto cambiò d’aspetto!
     voi foste il mio diletto,
     voi siete il mio terror. (parte)

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SCENA VI

Demofoonte, Dircea, Creusa, Adrasto.

Demofoonte.   Sieguilo, Adrasto. (Adrasto parte, dopo aver consegnato Olinto ad un servo, che lo conduce fuori di scena)

Ah! chi di voi mi spiega
se il mio Timante è disperato o stolto?
Ma voi smarrite in volto:
mi guardate e tacete! Almen sapessi
qual ruina sovrasta,
qual riparo apprestar. Numi del cielo,
datemi voi consiglio;
fate almen ch’io conosca il mio periglio.
          Odo il suono de’ queruli accenti,
     veggo il fumo che intorbida il giorno,
     strider sento le fiamme d’intorno,
     né comprendo l’incendio dov’è.
          La mia téma fa il dubbio maggiore,
     nel mio dubbio s’accresce il timore,
     tal ch’io perdo pel troppo spavento
     qualche scampo che v’era per me. (parte)

SCENA VII

Dircea e Creusa.

Creusa. E tu, Dircea, che fai? Di te si tratta;

si tratta del tuo sposo. Appresso a lui
corri, cerca saper... Ma tu non m’odi?
tu le attonite luci
non sollevi dal suol? Dal tuo letargo
svégliati alfin. Sempre il peggior consiglio

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è il non prenderne alcun. Se altro non sai,

sfoga il duol che nascondi;
piangi, lagnati almen, parla, rispondi!
Dircea.   Che mai risponderti,
          che dir potrei?
          Vorrei difendermi,
          fuggir vorrei;
          né so qual fulmine
          mi fa tremar.
               Divenni stupida
          nel colpo atroce;
          non ho piú lagrime,
          non ho piú voce;
          non posso piangere,
          non so parlar. (parte)

SCENA VIII

Creusa sola.

Qual terra è questa! Io perché venni a parte

delle miserie altrui? Quante in un giorno,
quante il caso ne aduna! Ire crudeli
tra figlio e genitor, vittime umane,
contaminati tempii,
infelici imenei. Mancava solo
che tremar si dovesse
senza saper perché. Ma troppo, o sorte,
è violento il tuo furor: conviene
che passi o scemi. In cosí rea fortuna
parte è di speme il non averne alcuna.
          Non dura una sventura,
     quando a tal segno avanza:
     principio è di speranza
     l’eccesso del timor.

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          Tutto si muta in breve;

     e il nostro stato è tale,
     che, se mutar si deve,
     sempre sará miglior. (parte)

SCENA IX

Luogo magnifico nella reggia, festivamente adornato
per le nozze di Creusa.

Timante e Cherinto.

Timante. Dove, crudel! dove mi guidi? Ah! queste

liete pompe festive
son pene a un disperato.
Cherinto.   Io non conosco
piú il mio german. Che debolezza è questa
troppo indegna di te? Senza saperlo,
errasti alfin. Sei sventurato, è vero,
ma non sei reo. Qualunque male è lieve,
dove colpa non è.
Timante.   Dall’opre il mondo
regola i suoi giudizi; e la ragione,
quando l’opra condanna, indarno assolve.
Son reo pur troppo; e, se finor nol fui,
lo divengo vivendo. Io non mi posso
dimenticar Dircea. Sento che l’amo;
so che non deggio. In cosí brevi istanti
come franger quel nodo,
che un vero amor, che un imeneo, che un figlio
strinser cosí? che le sventure istesse
resero piú tenace? e tanta fede?
e sí dolci memorie?
e sí lungo costume? Oh Dio! Cherinto,
lasciami per pietá! Lascia ch’io mora,
finché sono innocente.

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SCENA X

Adrasto e poi Matusio, indi Dircea con Olinto, e detti.

Adrasto.   Il re per tutto

ti ricerca, o Timante. Or con Matusio
dal domestico tempio uscir lo vidi.
Ambo son lieti in volto,
né chiedon che di te.
Timante.   Fuggasi: io temo
troppo rincontro del paterno ciglio.
Matusio. Figlio mio! caro figlio! (abbracciandolo)
Timante.   A me tal nome!
come? perché?
Matusio.   Perché mio figlio sei,
perché son padre tuo.
Timante.   Tu sogni... Oh stelle!
torna Dircea!
Dircea.   No, non fuggirmi, o sposo;
tua germana io non son.
Timante.   Voi m’ingannate
per rimettere in calma il mio pensiero.

SCENA XI

Demofoonte con séguito, e detti.

Demofoonte.   Non t’ingannan, Timante: è vero, è vero.

Timante. Se mi tradiste adesso,
sarebbe crudeltá.
Demofoonte.   Ti rassicura;
no, mio figlio non sei. Tu con Dircea
fosti cambiato in fasce. Ella è mia prole,
tu di Matusio. Alla di lui consorte

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la mia ti chiese in dono. Utile al regno

il cambio allor credé; ma, quando poi
nacque Cherinto, al proprio figlio il trono
d’aver tolto s’avvide, e a me l’arcano
non ardí palesar, ché troppo amante
giá di te mi conobbe. All’ore estreme
ridotta alfin, tutto in due fogli il caso
scritto lasciò. L’un die’ all’amica, e quello
Matusio ti mostrò: l’altro nascose,
ed è questo che vedi.
Timante.   E perché tutto
nel primo non spiegò?
Demofoonte.   Solo a Dircea
lasciò in quello una prova
del regio suo natal. Bastò per questo
giurar ch’era sua figlia. Il gran segreto
della vera tua sorte era un arcano
da non fidar che a me, perch’io potessi,
a seconda de’ casi,
palesarlo o tacerlo. A tale oggetto
celò quest’altro foglio in parte solo
accessibile a me.
Timante.   Sí strani eventi
mi fanno dubitar.
Demofoonte.   Troppo son certe
le prove, i segni. Eccoti il foglio, in cui
di quanto ti narrai la serie è accolta.
Timante. Non deludermi, o sorte, un’altra volta.
  (prende il foglio e legge fra sé)

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SCENA ULTIMA

Creusa e detti.

Creusa. Signor, veraci sono

le felici novelle, onde la reggia
tutta si riempí?
Demofoonte.   Sí, principessa,
ecco lo sposo tuo. L’erede, il figlio
io ti promisi; ed in Cherinto io t’offro
ed il figlio e l’erede.
Cherinto.   Il cambio forse
spiace a Creusa.
Creusa.   A quel, che il ciel destina,
invan farei riparo.
Cherinto. Ancora non vuoi dir ch’io ti son caro?
Creusa. L’opra stessa il dirá.
Timante.   Dunque son io
quell’innocente usurpator, di cui
l’oracolo parlò?
Demofoonte.   Sí. Vedi come
ogni nube sparí. Libero è il regno
dall’annuo sacrificio. Al vero erede
la corona ritorna. Io le promesse
mantengo al re di Frigia,
senza usar crudeltá. Cherinto acquista
la sua Creusa; ella uno scettro. Abbracci
sicuro tu la tua Dircea. Non resta
una cagion di duolo;
e scioglie tanti nodi un foglio solo.
Timante. Oh cavo foglio! oh me felice! Oh numi!
da qual orrido peso
mi sento alleggerir! Figlio, consorte,
tornate a questo sen: posso abbracciarvi
senza tremar.

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Dircea.   Che fortunato istante!

Creusa. Che teneri trasporti!
Timante. (s’inginocchia) A’ piedi tuoi
eccomi un’altra volta,
mio giustissimo re. Scusa gli eccessi
d’un disperato amor. Sarò, lo giuro,
sarò miglior vassallo
che figlio non ti fui.
Demofoonte.   Sorgi. Tu sei
mio figlio ancor. Chiamami padre: io voglio
esserlo fin che vivo. Era finora
obbligo il nostro amor; ma quindi innanzi
elezion sará: nodo piú forte,
fabbricato da noi, non dalla sorte.
Coro.   Par maggiore ogni diletto,
     se in un’anima si spande,
     quand’oppressa è dal timor.
          Qual piacer sará perfetto,
     se convien, per esser grande,
     che cominci dal dolor?