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atto terzo 117


               Chi vede il periglio,

          né cerca salvarsi
          ragion di lagnarsi,
          del fato non ha. (parte)

SCENA II

Timante e poi Cherinto.

Timante. Perché bramar la vita? e quale in lei

piacer si trova? Ogni fortuna è pena;
è miseria ogni etá. Tremiam, fanciulli,
d’un guardo al minacciar; siam giuoco, adulti,
di Fortuna e d’Amor; gemiam, canuti,
sotto il peso degli anni. Or ne tormenta
la brama d’ottenere; or ne trafigge
di perdere il timor. Eterna guerra
hanno i rei con se stessi; i giusti l’hanno
con l’invidia e la frode. Ombre, deliri,
sogni, follie son nostre cure; e, quando
il vergognoso errore
a scoprir s’incomincia, allor si muore.
Ah! si mora una volta...
Cherinto.   Amato prence,
vieni al mio sen. (l’abbraccia)
Timante.   Cosí sereno in volto
mi dai gli estremi amplessi? E queste sono
le lagrime fraterne
dovute al mio morir?
Cherinto.   Che amplessi estremi?
che lagrime? che morte? Il piú felice
tu sei d’ogni mortal. Placato il padre
è giá con te; tutto obbliò. Ti rende
la tenerezza sua, la sposa, il figlio,
la libertá, la vita.