Demetrio Pianelli/Parte seconda/IV

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IV.


Demetrio abitava tre stanzucce poste all’ultimo piano d’una vecchia casa di via San Clemente, alle quali si accedeva per una scaletta semibuia a giravolte, come quella di un campanile.

Una volta giunti lassù si aveva il compenso dell’aria e d’una grande occhiata sopra i tetti. Una piccola ringhiera menava a un terrazzino esterno, sul quale dal giorno che il nuovo padrone era venuto ad abitare in quella casa si distingueva una giovine vite del Canadà, che teneva il piede in un barile.

Nella bella stagione verdeggiavano e serpeggiavano avviluppati ai ferri alcuni rami di fagiolo, che aprono i bei campanelli bianchi, rossi, violetti, e mandano i filamenti a carezzare il muro; da alcuni trespoli piovevano sul tettuccio sottostante dei ciuffi spessi di garofano.

Ma più che i fiori, Demetrio amava le erbe, le erbe semplici, vestite soltanto di verde, le tredescanzie, che sembrano capelli sciolti [p. 160 modifica]d’una bella donna, le felci magre e lunghe, i muschi morbidi come il velluto, l’edera coi suoi capricci, ed anche il rosmarino, anche l’insalata dalle coste dure...., il verde, insomma, in tutte le sue modeste e ricche varietà, quel benedetto verde, che par fatto per il riposo del corpo e dell’anima.

Nato anche lui nel bel mezzo dei prati lombardi e da una gente abituata chi sa da quanti anni a rovistare nell’erba, aveva nel sangue l’istinto fantastico della natura verde e silenziosa, della quale sapeva intendere le voci più misteriose; era un vero appetito d’erba, che gli faceva costruire in tre o quattro cassette di legno sopra le tegole bruciate un campionario di quella natura, ch’egli sognava quasi tutte le notti.

Quando voleva poi pigliarsi una boccata d’aria, andava a passare la domenica alle Cascine Boazze, poche miglia fuori di porta Romana, quasi sotto il campanile di Chiaravalle, la terra classica del verde, delle marcite, delle praterie color smeraldo, lunghe, larghe, distese a perdita d’occhio, sprofondate tra i filari dei salici grigi e dei pioppi tremolanti.

Suo cugino Paolino Botta, presso il quale si era ricoverata la famiglia di Cesarino dopo la disgrazia, era figlio d’una sorella di sua madre. Si volevano un gran bene, fin dal [p. 161 modifica]tempo che i Pianelli abitavano a San Donato, un fondo limitrofo: e ora si rivedevano sempre volentieri senza bisogno di dirselo.

Nei lunghi pomeriggi domenicali, i due cugini, colle spalle appoggiate al muro di un pollaio e coi prati distesi davanti fin che l’occhio poteva correre, stavano a discorrere un gran pezzo di coltivi, di concimi, di piante, di riforme agrarie, che non c’era nessun obbligo di eseguire.

Oppure pigliavano la canna e andavano a pescare nei canali o nello stagno presso la chiesa, finchè, fatto quasi buio, il regio impiegato pigliava il treno a Rogoredo e rientrava in città stracco e colla testa piena di erba come una cascina. Al taglio dei fieni il delicato profumo dell’erba secca lo accompagnava fin sotto le lenzuola, e svegliandosi la mattina, ne trovava ancora dei fascetti nelle scarpe.

La prima stanza dietro l’uscio, che serviva d’anticamera e da salotto, conteneva un canterale, un tavolino, alcune sedie e una vecchia poltrona di vacchetta, a schienale diritto, a grosse borchie d’ottone, ridotta magra anch’essa dall’età e dall’astinenza. Nell’altra stanza c’era un inginocchiatoio di vecchio stile con su un crocifisso vecchio vecchio anche lui. Erano i pochi avanzi salvati dal naufragio [p. 162 modifica]della sua casa. La tetra stanzuccia serviva di ripostiglio e a un caso di cucina; ma di solito Demetrio usciva a mangiare, d’inverno a una trattoria in via degli Spadari, e d’estate, col bel tempo, ora qui, ora là fuori di porta, o alla Samaritana, o all’Orcello, o al Ginepro, e qualche volta fino a Sesto o alla Cagnola.

Dalle tre finestre e dalla ringhiera si guardava in un cortile stretto e profondo come una torre, di cui non vedevi la fine; ma davanti l’occhio spaziava sopra una moltitudine di tetti e di tettucci, sovrapposti, accavallati l’uno all’altro, d’un uniforme colore bruciaticcio, con una moltitudine di abbaini e di soffitte sporgenti, di altane aperte, di comignoli di tutte le fogge, di tutti i colori, colle bocche nere, spalancate, sbadiglianti, con cappelletti in capo, di ferro, a guisa d’elmi, di visiere, di cuffie, di ombrelle: una folla insomma di figure che nella luce del crepuscolo e nelle notti chiare di luna parevano assumere un atteggiamento, un sentimento di vita.

Eravamo già alla seconda domenica di quaresima e la stagione favorita da un marzo galantuomo si avviava allegramente a braccio della primavera.

Il sole entrava vivo e festante per le tre finestrelle. Su per le tegole scorreva l’aria fresca mattutina e, qua e là, da qualche [p. 163 modifica]balcone alto o da qualche terrazza usciva un ramettino verde di sambuco.

Demetrio, infilato l’ago, stava rattoppando una delle tasche de’ suoi calzoni della festa, ingegnandosi da sè come deve fare chi ama la roba e non può spendere, canticchiando sottovoce e sollevando di tratto in tratto gli occhi al magnifico campanile delle Ore, che gli stava davanti, di un bel colore rossiccio, colle sue leggiere e vaghe ornamentazioni di terra cotta, che usciva da un mucchio di tetti disordinati come un bel soldato diritto. Oppure si arrestava incantato a contemplare la magnificenza del Duomo, di cui vedeva una membratura, un ricamo di marmo sul fondo celeste, che sfumava tremolante, per così dire, nella nebbiolina rosea del mattino. Sonarono le sei, quando entrò Giovann dell’Orghen col solito pentolino del latte e col pane fresco della colazione.

Era detto Giovann dell’Orghen, perchè tirava i mantici a Sant’Antonio e in altre chiese. D’origine era svizzero tedesco. Venuto a Milano dietro la carriola del padre arrotino nel quarantotto, era rimasto qui come un ciottolone delle sue montagne che l’acqua abbia menato in giù. Al disotto del linguaggio milanese viveva ancora qualche reminiscenza del suo vecchio terteufel, che Demetrio fingeva di capire tanto per fargli piacere. Il nostro [p. 164 modifica]galantuomo aveva fatto nella sua vita il giardiniere, l’arrotino, il guattero, il sacrestano, e, divenuto vecchio, sordo, debole di gambe, s’era ridotto a tirare i mantici e a trasportare i contrabassi e i violoncelli degli allievi che vanno al Conservatorio.... Era insomma una specie di artista anche lui, ridotto dalla miseria dei tempi a vivere in una soffitta sotto il colmo del tetto, due scalette più in alto di Demetrio.

— A che ora c’è la messa a Sant’Antonio? — gridò costui.

— Alle dieci e mezzo — rispose il sordo, che sapeva pigliare le parole al volo. — Viene a dirla un vescovo missionario chinese colla coda, che è a Milano per la liberazione dei moretti. — Giovann dell’Orghen rise all’idea di quel vescovo colla coda. — Oggi non tiro i mantici, perchè sto sul campanile a suonare le campane a festa. Sentirà tra poco che concerto. Altro che Verdi!

E il buon diavolo tornò a ridere, alzando la faccia pulita colla barba appena fatta e colla pelle quasi lucente, sotto un magnifico cappellino di paglia, o magiostrina, come dicono, preludio di primavera.

— Gli ho portato il latte bianco e il pane cotto nel forno — disse ancora collocando la roba sulla tavola — e vado subito perchè il prete m’ha promesso anche la cioccolata. [p. 165 modifica]

— Addio, uomo felice! — gridò Demetrio e pensò, quando l’altro fu uscito: — Che gli manca per essere felice? Se avesse una camicia di più, forse gli nascerebbero in cuore dei pensieri d’ambizione. Se anche gli manca un paio di scarpe, non ha rispetti umani lui: va in ciabatte.... Chi si contenta è beato, ricco, è tutto quello che vuole. In fondo è il mio sistema: e non c’è mestiere più stupido che il pretendere di raddrizzare le gambe ai cani.

Dopo la gran predica del cavalier Balzalotti si era persuaso anche di più che a lavar la testa agli asini si butta via ranno e sapone. In Carrobio non s’era più lasciato vedere. Venne qualche creditore in ritardo ed egli lo mandò difilato a Melegnano, dal sor Isidoro Chiesa, da quel talentone. — Che! che! voleva giusto mangiarsi il fegato, perderci salute e denari, compromettere la sua dignità e il suo onore per gli occhi di uno.... di una bella pigotta! Bel nome se si vuole; bisogna proprio dire che c’è della gente che ha nulla da fare a questo mondo, se passa il tempo a inventare questi titoli! No, no, non voleva saperne egli di partita doppia.... Grazie tante, sor Demetrio riverito, una bella figura! — E arrossiva ancora a pensarci. A casa sua egli aveva i suoi vasi, tre gabbie di canarini e faceva conto di adottare anche una [p. 166 modifica]tortorella. Le bestie almeno capiscono la ragione, e, fin che possono, ti si mostrano riconoscenti. Ma le donne...., queste donne.... Alla larga! Non aveva tempo di giuocar alla bambola lui!

Accese un fornellino a spirito, vi collocò un ramino con un’oncia di burro, levò da un armadietto un paio d’uova portate dalle Cascine, e quando furono spumanti le tolse, pose sul fornello il pentolino del latte. Invitò Amoretto, il più giudizioso dei suoi canarini, a tenergli compagnia. Aprì lo sportello d’una gabbia, l’uccellino saltò sulla tavola e cominciò a beccare.


*


Intanto, per non perdere tempo e per mandare innanzi un po’ di bene per l’anima, aprì il suo vecchio Kempis e cominciò a scorrerlo cogli occhi al disopra del piattello. Era un volumetto molto sciupato e gonfio, tenuto insieme a stento da una vecchia rilegatura di pelle con qualche avanzo dei fregi d’oro che le mani di molti ladri del Paradiso avevano slavato o graffiato nei duecent’anni o quasi dalla stampa del vecchio libro. Demetrio l’aveva caro, perchè era stato della sua mamma, che lo aveva ereditato dalla sua, e tutti vi avevano pescato, come in un gran mare, [p. 167 modifica]qualche consolazione. Nella sua vecchia stampa il libro, dove Demetrio lo aperse, diceva:

Confesserò contro di me la mia injustitia: confesserò avanti a Te, o Signore, la mia debolezza.

Giovann dell’Orghen cominciò a scampanare a Sant’Antonio colla pazza fiducia di un sordo.

E il libro:

Sovente è picciol cosa quella che mi abbatte et contrista.

— Questo è vero, — pensò Demetrio, — noi ci lasciamo spesso deviare ed affliggere da un’ala di mosca.

I canarini, eccitati dalla musica delle campane, cinguettavano e gorgheggiavano per cinquanta.

Mi propongo di fortemente operare et invece basta una mediocre tentatione perchè io pruovi massima angustia....

Demetrio credette di leggere un rimprovero nelle parole del vecchio libro, e socchiuse un poco gli occhi, come se volesse discendere collo sguardo fino in fondo alla coscienza. Quando li riaprì, ne vide innanzi due altri, che stavano osservandolo in un modo strano e indiscreto.

— Chi ti ha insegnata la strada, brutta bestiaccia?

— Beb! — rispose Giovedì, che credette di [p. 168 modifica]sentire nella voce dello zio un sentimento più umano a suo riguardo. E indovinò giusto. Questo nuovo sentimento di maggior tolleranza verso la più brutta bestia del mondo era nato nel cuore di Demetrio una mattina che, essendo egli andato a far mettere un piccolo segno sulla fossa del povero Cesarino, vi aveva trovato Giovedì, umido di guazza, colle zampe nel terriccio ed il muso sulle zampe, in atto di fare compagnia a qualcuno.

Alzando il viso al disopra della tavola, Demetrio credette di vedere di nuovo le quattro zampe del cane brutte di terra. Non ebbe più cuore di dir delle insolenze ad una bestia, che veniva ad implorare un boccone di pane. Giovedì non aveva nulla da vendere, quasi nemmeno la coda, ed era da compatire se abbaiava per fame.

Gli buttò dunque un boccone di pane fresco, che il cane lasciò cadere in terra e non toccò come se fosse veleno. Invece non cessò dal guardare, co’ suoi due occhi di bestia affettuosa e intelligente, ora lo zio, ora l’uscio, col corpo in preda ad una viva inquietudine.

Subito dopo Demetrio sentì un passetto sulla scala, quindi l’uscio si aprì e comparve Arabella. [p. 169 modifica]


*


— Sei tu? — esclamò lo zio, lasciando cadere la forchetta nel ramino.

La povera tosetta, vestita d’un modesto abito bigio, col velo in testa e un fazzolettino di lutto al collo, pallida in mezzo a tanto nero, venne avanti colle mani raccolte sul libretto da messa e fece un cenno del capo, come se volesse dire: — Sono io.

Ma la voce non uscì. Essa tremava di vergogna e di soggezione.

— Che cosa vuoi? chi ti ha accompagnata?

— Ferruccio.

— Siedi.

— Zio! — soggiunse la fanciulla, aprendo i suoi larghi occhi di velluto, — è proprio in collera con noi?

— Sono in collera con nessuno, ma sto a casa mia — si affrettò a dire lo zio senza tante cerimonie.

— Non ci abbandoni per carità, zio, per carità!....

La voce di Arabella s’intenerì e rasentò il pianto, contro il quale ella faceva di tutto per resistere.

Lo zio rispose con una ruvida alzata di spalle e brontolò: [p. 170 modifica]

— Non sono....

— Se abbiamo sbagliato, zio, — continuò quella voce piena di lagrime — ci perdoni per questa volta. La mamma non fa che piangere.

— È lei che ti manda qui? — gridò lo zio con una esagerata ruvidezza.

— No, non sa che sono venuta. Ho detto che andavo a messa con Ferruccio, che aspetta qui sulla scala. È venuto anche Giovedì.

"Beb!" soggiunse il cane a sentire il suo nome, guardando ora la ragazza, ora lo zio.

— Povera mamma, ha quasi la febbre. Va compatita se non è pratica. È il nonno che le ha detto di far così, ma adesso si accorge anche lei che aveva ragione....

— Chi aveva ragione? — chiese con un sogghignetto sarcastico Demetrio, mostrando i denti.

— Lei, zio....

— Ah! lo so bene. Grazie tante.

— Non abbiamo più nulla da mangiare. I bottegai non ci dànno più nulla. Ieri e ieri l’altro ho provveduto alla meglio, facendo vendere da Ferruccio la medaglia de’ miei esami, ma non si può andare avanti così, zio, non si può. I ragazzi fanno compassione.

La voce di Arabella andò morendo in un singhiozzo, contro il quale ebbe ancora la [p. 171 modifica]forza di reagire, forse per la paura che il pianto non le lasciasse il tempo di dire tutto quello che era venuta per dire.

— Per amore del nostro povero papà, zio, non ci tolga la sua benevolenza....

Il cane venne anche lui a posare le due zampe sulle ginocchia di Demetrio.

Capiva anche lui che la fanciulla cercava di intenerire lo zio: la voce piagnucolosa della bimba faceva tremare la povera bestia.

Demetrio si contrasse nella sua scontrosità come una foglia secca. I nervi del viso guizzarono sotto la dura corteccia. Non era più il credenzone, l’allocco d’una volta, e non per nulla il cavalier Balzalotti avevagli insegnata l’arte di stare al mondo. Le donne quali più quali meno, sono tutte commedianti, specialmente certe donne....

— Già, sono io che vi faccio patire la fame! — brontolò agitandosi sulla sedia. — Si dirà anche questa. Io sono il ladro, il pedante, il tiranno, e se vi dò un buon parere è per fare il mio interesse, si sa. Io ho le olle in cantina piene di marenghi.... Vieni avanti, mangia!

Demetrio aveva versato, colla mano convulsa, il latte nella scodella, che spinse colla mano fino all’orlo del tavolo, mettendo vicino un pane.

— E lei? — balbettò la fanciulla. [p. 172 modifica]

— Mangia, non far smorfie. Già.... gli altri hanno grandi chiacchiere, ma, quando si tratta di tirar fuori un quattrino, stanno a Melegnano, gli altri. Ed io sono il ladro, il tradi....ditore.... Mangia dunque, non farmi scappar la santa pazienza.

Arabella si avvicinò al tavolo e cominciò a mangiare, come se lo facesse soltanto per obbedienza e per non irritare di più lo zio.

Ma alle prime cucchiaiate di latte caldo le sue guancie si fecero rosee e gli occhi brillarono di una gioia intensa nel fissare il fondo della scodella.

Demetrio cercava di tirarsi in mente tutte le raccomandazioni fattegli dal suo superiore; ma in quel momento non poteva vedere che tre poveri fanciulli quasi morti di fame.

Si è o non si è cristiani, e, per quante fossero le colpe di quella donna, si deve lasciar morire su una strada tre poveri innocenti?

Arabella lasciava cadere nella scodellina anche le sue lagrime e se le mangiava poi col pane.

Demetrio, fatte due o tre giravolte per la stanzetta, seguitò come se parlasse a sè stesso:

— Perchè non dovrei aver volontà di aiutarvi? Ah! dunque, io ho men cuore del vostro cane.... L’ho provata anch’io la [p. 173 modifica]miseria e so che sapore ha: ma contro la miseria non c’è che un rimedio: volontà di lavorare e risparmio, risparmio e volontà di lavorare. Tu hai nominato tuo padre.... Se sapeste tutto.... Se fosse qui lui a vedere....

— Ah, zio, zio!.. — proruppe la bambina, portandosi a un tratto il fazzoletto agli occhi, e lasciando traboccare quel gran fiume di pianto che aveva trattenuto fin qui.

— Cosa?

— So tutto....

— Cosa sai?

— Mi dica che non è vero.

— Che cosa ti hanno detto?....

— Che il povero papà s’è ammazzato....

— Chi?...

Demetrio strinse i due pugni in aria, con un rapido movimento d’ira, come se volesse scagliarsi contro l’assassino che aveva parlato. Gli occhi cominciarono a veder male, e il cuore.... sentì che il cuore andava in pezzi sotto i colpi di quei singhiozzoni, che minacciavano di soffocare la povera tosetta.

Colla gola stretta, strozzata da un’adirata passione, si appoggiò colle mani alla sponda della sedia, dove stava la fanciulla e aspettò che finisse di piangere. Ma vedendo che non poteva smettere, alzò lentamente una mano, che pareva inchiodata sul legno della sedia, e la posò dolcemente sulla testa di Arabella. [p. 174 modifica]

Questa sentì tutto il significato di quella tenera carezza e il cuore volle scoppiare. Nemmeno lo zio seppe trovare una parola da dire in quel momento, tanto il dolore gli stringeva lo stomaco. Gli occhi si riempirono di lagrime dure e cristalline, che egli tolse, passandovi sopra con forza il grosso fazzoletto di cotone.

Arabella, quando potè parlare, raccontò che, stando una sera sul pianerottolo a prender acqua alla pompa, sentì sulla scala di sopra Ferruccio, che indicando l’uscione del solaio, raccontava a un altro ragazzo che il sor Cesarino si era impiccato lassù. Aveva creduto di morir di spavento; ma capì subito che la mamma non ne sapeva nulla e che la gente cercava di nascondere la verità. Non era morta ancora, perchè la Madonna Addolorata l’aiutava...., ma non ne poteva più.

— No, zio Demetrio, non ne posso più — esclamò aggrappandosi colle braccia al collo dello zio, accostando la sua faccia pallida e lagrimosa a quella accigliata e ruvida dell’uomo. — Non ne posso più.... e il cuore mi si spezzerà davvero se non ci aiuta. Lei mi dirà tutto, com’è stato.... Ah Signore! il mio povero papà! mi dica che non è vero.... Che cosa abbiamo fatto di male noi al Signore? O Madonna, Madonna!

Arabella pronunciò il nome della Madonna [p. 175 modifica]con due gridi pieni di una disperata protesta, e subito dopo Demetrio se la sentì venir meno nelle sue braccia, come se morisse lì lì.

— Arabella, povera figliuola mia — uscì a dire una voce, che Demetrio stentò a riconoscere per sua, tanto veniva dal profondo dell’animo.

E, come se veramente si snodasse in lui uno spirito nuovo, forte, operativo, fece sedere la fanciulla, ne asciugò il viso grondante, l’appoggiò alla tavola, corse a un armadio a prendere dell’aceto, ne bagnò la fronte e i polsi, la rincorò con paroline d’amore sussurrate all’orecchio, volle infine che prendesse un granello di zucchero tuffato nel rhum; e, quando vide che il sangue rifluiva alle guancie, corse di là, finì di vestirsi, prese alcuni denari, il cappello, il bastone, una cesta di vimini, e rincorata di nuovo la tosetta:

— Andiamo, — disse — ne parleremo con comodo. Non dir nulla per ora. Fu una disgrazia per tutti.... L’aria ti farà bene.... Vuoi appoggiarti? Asciuga gli occhi.

E uscirono.

Giovedì correva innanzi, ma ad ogni svolto di scala si voltava indietro a guardare lo zio e la nipote, e gridava: beb!

Sulla porta trovarono Ferruccio, al quale Demetrio consegnò la cesta e i denari e diede alcuni ordini per la spesa. Per strade [p. 176 modifica]secondarie si avviarono finalmente verso il Carrobio. Demetrio però si guardava sempre intorno con sospetto, per paura d’imbattersi per caso nel cavalier Balzalotti, che gli aveva dato quei tali consigli.