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cone alto o da qualche terrazza usciva un ramettino verde di sambuco.
Demetrio, infilato l’ago, stava rattoppando una delle tasche de’ suoi calzoni della festa, ingegnandosi da sè come deve fare chi ama la roba e non può spendere, canticchiando sottovoce e sollevando di tratto in tratto gli occhi al magnifico campanile delle Ore, che gli stava davanti, di un bel colore rossiccio, colle sue leggiere e vaghe ornamentazioni di terra cotta, che usciva da un mucchio di tetti disordinati come un bel soldato diritto. Oppure si arrestava incantato a contemplare la magnificenza del Duomo, di cui vedeva una membratura, un ricamo di marmo sul fondo celeste, che sfumava tremolante, per così dire, nella nebbiolina rosea del mattino. Sonarono le sei, quando entrò Giovann dell’Orghen col solito pentolino del latte e col pane fresco della colazione.
Era detto Giovann dell’Orghen, perchè tirava i mantici a Sant’Antonio e in altre chiese. D’origine era svizzero tedesco. Venuto a Milano dietro la carriola del padre arrotino nel quarantotto, era rimasto qui come un ciottolone delle sue montagne che l’acqua abbia menato in giù. Al disotto del linguaggio milanese viveva ancora qualche reminiscenza del suo vecchio terteufel, che Demetrio fingeva di capire tanto per fargli piacere. Il nostro