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della sua casa. La tetra stanzuccia serviva di ripostiglio e a un caso di cucina; ma di solito Demetrio usciva a mangiare, d’inverno a una trattoria in via degli Spadari, e d’estate, col bel tempo, ora qui, ora là fuori di porta, o alla Samaritana, o all’Orcello, o al Ginepro, e qualche volta fino a Sesto o alla Cagnola.

Dalle tre finestre e dalla ringhiera si guardava in un cortile stretto e profondo come una torre, di cui non vedevi la fine; ma davanti l’occhio spaziava sopra una moltitudine di tetti e di tettucci, sovrapposti, accavallati l’uno all’altro, d’un uniforme colore bruciaticcio, con una moltitudine di abbaini e di soffitte sporgenti, di altane aperte, di comignoli di tutte le fogge, di tutti i colori, colle bocche nere, spalancate, sbadiglianti, con cappelletti in capo, di ferro, a guisa d’elmi, di visiere, di cuffie, di ombrelle: una folla insomma di figure che nella luce del crepuscolo e nelle notti chiare di luna parevano assumere un atteggiamento, un sentimento di vita.

Eravamo già alla seconda domenica di quaresima e la stagione favorita da un marzo galantuomo si avviava allegramente a braccio della primavera.

Il sole entrava vivo e festante per le tre finestrelle. Su per le tegole scorreva l’aria fresca mattutina e, qua e là, da qualche bal-