Critone/Introduzione
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Capitolo I | ► |
INTRODUZIONE.
Ma il Critone è un dialogo tutto unito e fluido: senza quei dolorosi arresti, quelle disperate giravolte di pensiero, che rendono così tragico, per esempio, il Teeteto. Qui nè dubbi, nè ritorni, amarissimi, sui propri passi. Platone, giovane, ha una traccia assai semplice, e la svolge con arte serena, con quella leggerezza di tocco che fa anche di altri dialoghi dello stesso gruppo — del Jone, per esempio — capolavori leggiadrissimi. È il secolo di Prassitele; così anche Platone tornisce le sue spirituali creature, prima che il dèmone della ricerca l’occupi tanto da lasciargli solo a tratti la giovanile serenità d’uno svolgimento principalmente artistico dei suoi temi.
Giacchè il Critone ha appunto questo carattere: non indaga, espone. Muove dal concetto, ch’era tutto Socrate, che l’ingiustizia è peste e rovina dell’anima, e va tenuta lontana, anche se rimuoverla ci costi la morte: e questo motivo lascia che circoli per tutto il dialogo, alimentandolo e ispirandolo in ogni sua parte. Ricerca, e molto meno travaglio, non ce n’è.
C’è, in compenso, il quadro, o, se si vuole, il bozzetto. Non siamo poi lontanissimi dall’età del quadretto, dell’«idillio»; anche il Critone è una sveltissima e perfetta novella dialogata, una «scena», cominciata, condotta, conchiusa con un’arte che si direbbe consumata, se non fosse felicissimamente spontanea e istintiva.
La «macchietta» di Critone è un capolavoro di caratterizzazione comica. Platone è veramente fratello dei grandi sbozzatori di caratteri tragici e comici. Quella stessa arte: e, forse, più fine, quanto più discreta.
Critone, nel dialogo, non si vede: si ode solo. Platone lo descrive facendolo parlare. Anzi, facendolo argomentare e ragionare. E argomenta e ragiona in maniera così singolare, ch’egli assume, dinanzi al lettore, l’eterna parte del Sancho di fronte a Don Quixote, cioè del buon senso di fronte al genio e all’eroismo.
Platone non fa tacere Critone se prima la sua loquela non l’ha fatto tutto manifesto. E quando Socrate prende a persuaderlo, parlandogli per via d’esempi, d’immagini e di paragoni — come facciamo talvolta coi contadini — , Critone, che si vien persuadendo, assente in una maniera che lì, in quell’ora tragica, riesce d’un comico infinitamente triste. Socrate gli parla da popolano a popolano: Critone lo segue passo passo, e, frase per frase, argomento per argomento, capisce. Ma, appena Socrate accenna a trarre da quel che ha detto la conclusione, Critone arretra, e torna a dire, pari pari, quel che diceva prima che Socrate cominciasse, pazientemente, a parlargli. Ma a Socrate quell’affetto testardo, non illuminato da alcuna idea, tutto sentimento e niente intelligenza, del vecchio e fedele amico, fa pena: e riprende a persuaderlo, pian piano, anche più alla buona di prima, perché la verità gli consti, patente e spiccia, come due e due fanno quattro.
Socrate chino sul suo vecchio e ottuso amico, a fargli intendere, per via d’onesto e piano ragionare, quel che la tarda mente dell’amico a grande stento riesce a seguire, è un’ immagine di bontà, che va ben oltre la consueta bonomia, sempre presente nell’ironia socratica.
D’altra parte, quanto più Socrate cerca di scendere al livello mentale di Critone, tanto più la sua figura grandeggia. Anzi, come l’argomentare di Critone appare più volgare perché è rivolto a Socrate, così l’eroismo sereno di Socrate splende più chiaro, contrapposto alla prudenza di Critone: «Socrate, bada a quel che fai».
Ci ha badato tutta la vita; ha sempre avuto coscienza d’essere esposto, senza difesa, ad ogni malvolere; e ha sempre accettato l’idea di patire, e morire, pur di non combattere l’altrui violenza con armi pari, pur di serbare per sé il suo maggiore, o il suo solo tesoro, la sua purezza interiore. L’atteggiamento ch’egli assume ora, l’ha deciso da gran tempo; la sua fermezza presente sta solo nel non abbandonare, sotto l’intimidazione del pericolo, il suo antico convincimento e la sua risoluzione. E poiché gli Dei vogliono ch’egli muoia, non si leverà, d’arbitrio, a frustrare il loro volere: obbedirà, e morrà.
Socrate si è sempre sentito, come dice nel Fedone, «cosa degli Dei». E ha sempre agito come gli Dei hanno suggerito d’agire. Anzi, come i suoi contemporanei andavano a Delfo o a Dodona a consultar l’oracolo, così egli ha sempre consultato il suo oracolo interiore, in ogni momento importante della sua vita. E gli Dei non l’hanno lasciato mai privo di questa assistenza paterna, ispirazione, guida, norma delle azioni. Gli hanno inviato sogni, visioni, gli hanno messo nell’animo una repugnanza, istintiva e risoluta, per tutto ciò che potesse nuocergli: gli hanno sopra tutto concesso una coscienza, sempre vigile a trattenerlo, pronta sempre a rispondere alle sue domande quando fosse ansioso d’orientarsi, di veder chiaro, d’essere illuminato su la via migliore da seguire. E come l’universo intero è condotto dagli Dei nella maniera per esso migliore, così anche l’individuale esistenza di Socrate è stata governata sempre dal sacro volere degli Dei. Egli vi si è sempre abbandonato fiducioso: ben conscio di quanta luce gli derivasse da ogni pronunciarsi del suo dèmone interiore. Al volere divino si abbandona anche ora: solo gli Dei sanno se la dimora all’Ade non sia miglior sorte della permanenza in terra. Ma se essi han disposto la sua morte, la loro volontà deve compiersi.
Questo senso religioso, che ha la risoluzione di Socrate di non fuggire, non sempre è còlto: si insiste, giustissimamente, su l’altissimo valore morale della decisione: e si lascia nell’ombra l’abbandono pieno di Socrate alla provvidenza divina. Eppure, se Socrate era così fermamente convinto che la vita dell’universo non si spiega che teleologicamente, da questa trama di fini divini egli non eccettuava menomamente né gli uomini e gli eventi umani in generale, né sé e la sua esistenza in particolare. Anzi, quel continuo sentirsi avvertito da sogni, da visioni, e dalla voce infallibile del suo dèmone, più che mai lo induceva a considerare la sua vita come tutta voluta e decretata dagli Dei; ond’era pronto a qualsiasi evento, ben consapevole d’abbandonarsi così al volere dei reggitori buoni dell’universo, suoi ispiratori e provvidi consiglieri.
Guardata sotto questa luce, la figura di Socrate appare «antica», e, se si vuole, arcaica, molto più che di solito non sembri. E come è assoluto il suo abbandono ai voleri divini, così è assoluto il suo abbandono alle leggi della patria. Il quale atteggiamento tanto più sorprende, quanto più Socrate ha speso tutta la vita nell’esercizio d’una critica, bonaria ma implacabile, degli ordinamenti e dei costumi d’Atene.
Ebbene, egli, il riprensore, «messo da Dio addosso alla città come addosso a grande e generoso cavallo, ma per la grandezza un poco sonnolento e abbisognoso di essere destato da sprone» (Apol., X-III), con la sua critica ha soltanto cercato di aprir gli occhi alla sua patria: non vi è riescito: ora obbedirà, docilmente, a quelle medesime leggi di sovranità popolare che ha così a lungo criticate. Giacchè l’averle criticate non lo scioglie dall’obbedienza verso di esse: anzi per esse, nonostante il male che vi ha notato, Socrate ha sempre quella reverenza affettuosa che si ha per quello che è profondamente caro.
Di qui il problema che nasce in margine al Critone platonico, pur così limpido e scorrevole com’esso è: qual è il rapporto tra i due elementi, obbedienza allo Stato, fino a lasciarsi sopprimere, e critica allo Stato, fino a desiderare di rifarlo interamente.
In Socrate — e massimamente nella risoluzione che il Critone glorifica — i due elementi coesistono ingenuamente. Egli ha sempre cercato, con la sua critica, di ricondurre lo Stato alla semplicità, alla dirittura, all’assennatezza d’un tempo; ma la sua non è stata mai una rivolta; non s’è mai sentito lontano, per la sua critica, dalle leggi patrie; anzi le ha tanto più assiduamente criticate, quanto più s’è sentito legato ad esse, così legato da non potersi rassegnare a lasciarle tralignare. Opera di attaccamento profondo, di geloso amore, la critica incessante. Sicché l’obbedienza, al comando di morire non è una disposizione di spirito, che sopravvenga a quella della critica, la vinca, e chiuda la vita di Socrate in maniera diversa da come s’è svolta. Socrate è stato sempre pio verso la sua città: l’ha sempre amata tanto, da non desiderare nemmeno di visitare paesi stranieri; e come sol per amore l’ha criticata, così, pel medesimo amore filiale e devoto, ora lascia, volontariamente, che l’ordine di morire si compia.
Ma i due motivi — obbedienza allo Stato e critica allo Stato - che nella persona di Socrate trovavano modo d’unificarsi così perfettamente, in altre epoche, nazioni, individui non s’unificano altrettanto. Ci sono età, popoli, persone, in cui l’obbedienza allo Stato è tale da rendere inconcepibile una critica. Ci sono, al contrario, altre epoche, genti, individui, in cui la critica diviene così acre da recidere ogni vincolo, ogni attaccamento dell’individuo allo Stato: sicchè l’individuo per lo Stato non ha che odio, scherno, e volontà d’abbatterlo e annientarlo. Ci sono, infine, condizioni storiche in cui la critica allo Stato riesce a coesistere con l’obbedienza allo Stato almeno tanto da inserirsi nella vita di esso, rinnovandola come un fermento, senza tuttavia abbattere la forma di Stato in cui s’innesta. Ma - a parte questa casistica, che filosoficamente non dice nulla, perchè questi vari tipi di rapporto non son definibili che per astrazione, mentre il rapporto concreto varia sempre, ed è sempre nuovo in ciascun tempo, in ciascuna nazione, in ciascun uomo, sicchè non può coglierlo e ritrarlo che la storia - la domanda che nasce spontaneamente in margine al Critone è: dei due elementi - obbedienza allo Stato e critica dello Stato - uno è sopprimibile? e se appariscono essenziali entrambi, è coesistenza la loro? e se non è coesistenza, in che senso nessuno dei due è sopprimibile?
A queste domande ci sia consentito dar risposte graduali, anche se - come avviene spesso in simili casi - la seconda risposta debba essere della prima tale ripresa, da costituirne piuttosto un’originale e radicale riforma e correzione (e così anche la terza della seconda). Anzi tutto, dei due elementi - posto che sian due - uno è sopprimibile? Quando l’obbedienza allo Stato sembra tanta da rendere impossibile una critica, questa è davvero assente? E viceversa, quando tutto è critica dello Stato, e par che nessuno tenga più fermo; l’obbedienza allo Stato è davvero spenta?
È naturale che nel primo caso sia ridotta ad un minimo la critica, e nel secondo caso l’obbedienza; ma la domanda è se, comunque ridotte, persistano, la critica anche presso i popoli più superstiziosamente legati alla tradizione, e l’obbedienza anche nelle età più ribelli, in cui par che lo Stato di mese in mese rovini.
Ora, in qualche modo, perfino la prosecuzione d’un ordine tradizionale implica critica e revisione. Perfino quelle civiltà presso cui il ripetere inalterati riti, usanze, forme d’arte, era il maggior merito e il più stretto dovere, presentano, di secolo in secolo, caratteri nuovi. Se - diremo leibnizianamente - questa mutazione appariscente presuppone mille piccole mutazioni troppo involontarie e represse per apparire, ciascuna di queste mutazioni dovette pur essere una revisione, per quanto impercettibile, dell’ordine tramandato. La vita è essenzialmente ripresa, rifacimento: e non riprenderebbe né rifarebbe se aderisse puntualmente al suo passato. C’è critica in ogni atto che compiamo; anzi la critica di ciò che già è, è la molla, magari inavvertita, che ci fa realizzare quel che ancora non è.
Sembra dunque che nemmeno la tradizione possa perpetuarsi senza, impercettibilmente ma incessantemente, rivedersi, riatteggiarsi, rinnovarsi. E parimenti, il più ribelle distacco da ogni tradizione, la più violenta negazione del passato, deve pur muovere dal passato, per sovvertirlo e sconvolgerlo: e quando si placa e, vorrei dire, solidifica, quale fu il passato che dovè abbattere, tale è la struttura che conserva. I canti in cui una nazione vittoriosa s’esalta ricordano sempre, con le dure prove felicemente vinte, il nemico che si dovette prostrare.
La conclusione pare, quindi, che il più violento impeto rivoluzionario sia pure una continuazione, per quanto singolare, di ciò che sommuove e sovverte; così come il più lento colare di civiltà apparentemente immobili è pure un continuo, impercettibile mutarsi, che dopo anni o dopo secoli si scorge.
Se è così, la critica è così poco sopprimibile, che essa è intima al perdurare stesso della tradizione; e la tradizione, a sua volta, è così poco sopprimibile, che perfino chi non vuol che distruggerla, deve studiarla e prender contatto con essa, per poterla sommuovere.
Questa risposta alla prima domanda — se, dei due elementi, uno sia sopprimibile — spiana grandemente la via all’esame della seconda domanda: se, cioè, tra i due elementi il rapporto sia di coesistenza.
Pare, a tutta prima, di sì, perchè, nei nostri Stati moderni, le differenziazioni tra partiti conservatori e partiti radicali o rivoluzionari si sviluppa nell’ambito stesso di ciascuno Stato, sicchè sembra che tra obbedienza allo Stato e critica allo Stato non possa esserci altro rapporto che una coesistenza, in cui le forze antagoniste incessantemente si misurino, equilibrandosi o soverchiandosi. Ma, a parte quel che s’è già avvertito intorno alle civiltà che paiono immobili, eppur devono contenere un, sia pur tenue, fuoco di critica se, pur lentissimamente, s’evolvono; e su gli scoppi rivoluzionari che sembrano far tabula rasa, eppure ereditano, inevitabilmente, la struttura stessa di ciò che cancellano: a parte queste considerazioni già fatte, le quali mostrano la critica così poco «coesistente» con la tradizione che invece ne è la vita interiore, e la tradizione così poco coesistente con la critica che ne è la materia, l’oggetto interno, per così dire, che la critica penetra e rinnova; anche nei nostri Stati moderni in cui pare che tutta l’obbedienza allo Stato si polarizzi nei partiti d’ordine e tutta la innovazione nei partiti rivoluzionari, in realtà nei partiti che affermano la tradizione c’è spesso assai più coraggio innovatore che nei partiti rivoluzionari, e in questi, molto spesso, la mentalità abitudinaria è istintiva e predomina. E, in ogni caso, per quanto una parte della nazione si proponga il più scrupoloso mantenimento della tradizione, cioè della legge, già il solo applicarla, interpretarla, adattarla alle circostanze via via mutevoli, è un riviverla, che è un rinnovarla; e, per contrario, chi facesse uno studio di molta mentalità rivoluzionaria, vi troverebbe, proprio alla base, un cospicuo numero di postulati, comuni ai partiti d’ordine: sicchè il rivoluzionarismo, piantato su quelle basi prettamente tradizionali, appare superficiale, e tutt’altro che «puro».
La risposta alla seconda domanda, dunque, sembra essere che è una contingenza storica che obbedienza allo Stato e critica allo Stato sembrino coesistere, ciascuna rappresentata da una parte della nazione, in lotta con l’altra; ma anche quando le circostanze storiche producano questa differenziazione, che par divergenza, di obbedienza e di critica, in realtà in fondo all’obbedienza c’è ancor critica, e alla base della critica c’è molta e molta, sia pur involontaria e inconsapevole obbedienza.
Di nuovo, quindi, la critica sembra così poco «coesistere» con l’obbedienza che piuttosto ne è l’anima; e l’obbedienza, a sua volta, così poco «coesiste» con la critica, che è in essa, alle sue basi.
Più facilmente che mai, ora, possiamo rispondere alla terza domanda: se non si può dire che coesistono, in che senso si dice che, dei due elementi, nessuno è sopprimibile?
Nel senso che l’uno è insito nell’altro stesso: onde non può sopprimersi se non si vuol fiaccare, con esso, anche l’altro. Togliete a una tradizione il potere di rivalutarsi, cioè di criticarsi: presto non sarà più nemmeno una tradizione che si perpetua: non sarà niente. E, per contrario, togliete alla critica una tradizione resistente e pugnace, su cui affilarsi: e la critica stessa, senza più terreno sotto i piedi, casca nel nulla.
Se è così, non si può nemmeno parlare propriamente di «rapporto» tra obbedienza e critica: l’obbedienza, se è applicazione, è fatta di discernimento, cioè di critica; e la critica s’inizia con una preliminare obbedienza allo stato di fatto che essa critica analizza e vuol mutare.
Non solo; ma ci sono altri aspetti del problema, che anche suggeriscono la stessa soluzione. L’obbedienza allo Stato è volontà di conservarlo; ma la critica, l’iniziativa rinnovatrice, intende a sua volta, modificati o abbattuti gli ordinamenti tradizionali, fondarne di nuovi, risolutissima poi a conservarli. Sicchè, se è contro lo Stato che trova ed investe, è a sua volta gravida d’uno Stato, che intende conservare solidissimamente, quando sia riescita a fondarlo.
D’altra parte, lo Stato che ci appare già fondato, e preoccupato solo di conservarsi, sembra una mole, che duri, per inerzia, nell’esistenza; ma in realtà, come i teologi richiedevano il concorso divino, cioè un perpetuo atto creativo, per la conservazione dell’universo creato, così lo Stato non riescirebbe a tenersi su se le forze che lo generarono, non lo rigenerassero giorno per giorno, facendogli affluire costantemente i mezzi e le energie onde uno Stato è contesto.
Sembra dunque che una volontà fondatrice di nuovo Stato stia in fondo ad ogni critica; e che in fondo alla più quieta conservazione stia un diuturno rigenerarsi e riorganizzarsi. Il quale continua, di solito, senza scosse, e per ciò non ci avvediamo che sia un processo d’ora in ora rinnovato; ma nelle età tristi, in cui tutto si pone in discussione, si assiste, proprio si assiste, al rallentarsi, al venir meno delle funzioni statali, e si comprende allora che son funzioni, non un meccanismo che duri per forza d’inerzia.
Anche sotto questo aspetto, quindi, troviamo il germe d’uno Stato proprio nella volontà che più sembra diretta a distrugger lo Stato; e, per contrario, troviamo revisione, rifacimento, riadattamento proprio nel conservatorismo che pare più immobile.
Da questa analisi sembra risultare che il tentativo di separare i due elementi — affermazione dello Stato qual è, e critica innovatrice dello Stato — non riesca per nessuna guisa. Tutte le volte che il tentativo si rinnova, troviamo da ciascuna parte anche l’altro elemento, che vorremmo rigorosamente separare e contrapporle.
Se è così, sembra di poter concludere che il concetto di un’obbedienza allo Stato, che escluda e rimuova da sè il fermento della critica e della riforma, non stia in piedi, perchè, comunque s’esamini, sempre implica proprio in sè, per la sua stessa vita, quella critica e rinnovazione che vorrebbe da sè rimuovere e a sè contrapporre. E parimenti sembra che non stia su l’altro concetto, che fa pendant al primo, d’una critica assolutamente nihilista, la quale non sia per nulla Stato, e allo Stato, a qualsiasi Stato, non possa che contrapporsi. Non c’è programma anarchico che non sbocchi, almeno, in una colonia anarchica: cioè in uno Stato.... anarchico.
E se i due concetti, d’uno Stato perpetuantesi senza rinnovarsi e d’una critica non costruttiva, risultano insostenibili, pare legittimo concludere che, ciascuno dei due termini implicando l’altro, il loro rapporto è dialettico. O, se, piace meglio, che la realtà non è nè uno Stato rigido — chè, se fosse assolutamente rigido, non potrebbe nemmeno conservarsi — nè una critica, rivoluzionaria senza gettar le basi d’un nuovo Stato. La realtà è la potenza costruttiva, fondatrice, statrice, se posso così dire, d’ogni atto di revisione e di critica. Anzi come ogni critica fonda in qualche modo ed avvia l’ordine nuovo che contrappone idealmente al vecchio ordine che investe, così — ed è questo il risultato di tutta la ricerca — non c’è potenza di fondazione, di costruzione, di stabilimento d’uno Stato se non appunto nell’atto di rivedere il passato, per continuarlo rinnovandolo.
Dipende poi dalle contingenze storiche che la potenza di revisione, di controllo, di promovimento, di rinnovazione, rimanga, nello Stato, presso il governo, che conserva lo Stato; o che, per pochezza d’uomini, il governo si lasci sfuggire l’iniziativa della perenne revisione dello Stato, e abbandoni ai partiti rivoluzionari la funzione e il merito del controllo e della critica. I governi veramente saldi son quelli che possono concedersi il lusso di non attender dagli altri la critica delle azioni proprie e dei propri predecessori, perchè bastan da sè a vedere quel che è fallito, e va rifatto. Ma quando le contingenze storiche menano lo Stato a sdoppiarsi — e lo sdoppiamento non può mai esser completo, se no lo Stato va definitivamente in rovina — , quando nello Stato chi conserva non sa criticarsi, e chi critica non vuole o non sa costruire, pare, ripeto, che tutta la conservazione si polarizzi nella parte che afferma lo Stato, e tutta la critica nella parte che nega il presente Stato. In realtà la critica urge con un suo Stato, e cozza contro lo Stato tramandato; e lo Stato tramandato è ridotto alla pura funzione conservatrice, nel tremore d’ogni innovazione, perchè assediato dal nuovo Stato germinale che gli mozza il respiro.
In Socrate, e ai suoi tempi, s’era appunto prodotto uno sdoppiamento — analogo a quello di cui parla Platone dei due Stati coesistenti in una sola città. Chi governava — ed era il «popolo» — mandava, cieco e folle, in pezzi lo Stato: e sorgeva, di fronte a quel delirio, la critica dei chiaroveggenti. La storia stessa ergeva l’individuo di fronte alla città, in atteggiamento di critico e di riprensore. Tristissima condizione degli Stati, quando tutto il senno è presso le voces clamantes in deserto, mentre la follia impera.
Le voces clamantes in deserto — i profeti, per esempio — a volte invocano lo sterminio su la loro terra. Non lo sterminio invocava Socrate, ma solo che la sua città riprendesse la serena mente d’un tempo. E, figlio amoroso, alla sua città obbediva, mentr’essa l’uccideva: perchè rimanesse inviolata nel suo potere, essa che l’uccideva.
Augusto Guzzo.