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di separare i due elementi — affermazione dello Stato qual è, e critica innovatrice dello Stato — non riesca per nessuna guisa. Tutte le volte che il tentativo si rinnova, troviamo da ciascuna parte anche l’altro elemento, che vorremmo rigorosamente separare e contrapporle.
Se è così, sembra di poter concludere che il concetto di un’obbedienza allo Stato, che escluda e rimuova da sè il fermento della critica e della riforma, non stia in piedi, perchè, comunque s’esamini, sempre implica proprio in sè, per la sua stessa vita, quella critica e rinnovazione che vorrebbe da sè rimuovere e a sè contrapporre. E parimenti sembra che non stia su l’altro concetto, che fa pendant al primo, d’una critica assolutamente nihilista, la quale non sia per nulla Stato, e allo Stato, a qualsiasi Stato, non possa che contrapporsi. Non c’è programma anarchico che non sbocchi, almeno, in una colonia anarchica: cioè in uno Stato.... anarchico.
E se i due concetti, d’uno Stato perpetuantesi senza rinnovarsi e d’una critica non costruttiva, risultano insostenibili, pare legittimo concludere che, ciascuno dei due termini implicando l’altro, il loro rapporto è dialettico. O, se, piace meglio, che la realtà non è nè uno Stato rigido — chè, se fosse assolutamente rigido, non potrebbe nemmeno conservarsi — nè una critica, rivoluzionaria senza gettar le basi d’un nuovo Stato. La realtà è la potenza costruttiva, fondatrice, statrice, se posso così dire, d’ogni atto di revisione e di critica. Anzi come ogni critica fonda in qualche modo ed avvia l’ordine nuovo che contrappone idealmente al vecchio ordine che investe,