Anzi tutto, dei due elementi - posto che sian due - uno è sopprimibile? Quando l’obbedienza allo Stato sembra tanta da rendere impossibile una critica, questa è davvero assente? E viceversa, quando tutto è critica dello Stato, e par che nessuno tenga più fermo; l’obbedienza allo Stato è davvero spenta?

È naturale che nel primo caso sia ridotta ad un minimo la critica, e nel secondo caso l’obbedienza; ma la domanda è se, comunque ridotte, persistano, la critica anche presso i popoli più superstiziosamente legati alla tradizione, e l’obbedienza anche nelle età più ribelli, in cui par che lo Stato di mese in mese rovini.

Ora, in qualche modo, perfino la prosecuzione d’un ordine tradizionale implica critica e revisione. Perfino quelle civiltà presso cui il ripetere inalterati riti, usanze, forme d’arte, era il maggior merito e il più stretto dovere, presentano, di secolo in secolo, caratteri nuovi. Se - diremo leibnizianamente - questa mutazione appariscente presuppone mille piccole mutazioni troppo involontarie e represse per apparire, ciascuna di queste mutazioni dovette pur essere una revisione, per quanto impercettibile, dell’ordine tramandato. La vita è essenzialmente ripresa, rifacimento: e non riprenderebbe né rifarebbe se aderisse puntualmente al suo passato. C’è critica in ogni atto che compiamo; anzi la critica di ciò che già è, è la molla, magari inavvertita, che ci fa realizzare quel che ancora non è.

Sembra dunque che nemmeno la tradizione possa perpetuarsi senza, impercettibilmente ma incessantemente, rivedersi, riatteggiarsi, rinnovarsi. E parimenti, il più