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maniera che lì, in quell’ora tragica, riesce d’un comico infinitamente triste. Socrate gli parla da popolano a popolano: Critone lo segue passo passo, e, frase per frase, argomento per argomento, capisce. Ma, appena Socrate accenna a trarre da quel che ha detto la conclusione, Critone arretra, e torna a dire, pari pari, quel che diceva prima che Socrate cominciasse, pazientemente, a parlargli. Ma a Socrate quell’affetto testardo, non illuminato da alcuna idea, tutto sentimento e niente intelligenza, del vecchio e fedele amico, fa pena: e riprende a persuaderlo, pian piano, anche più alla buona di prima, perché la verità gli consti, patente e spiccia, come due e due fanno quattro.
Socrate chino sul suo vecchio e ottuso amico, a fargli intendere, per via d’onesto e piano ragionare, quel che la tarda mente dell’amico a grande stento riesce a seguire, è un’ immagine di bontà, che va ben oltre la consueta bonomia, sempre presente nell’ironia socratica.
D’altra parte, quanto più Socrate cerca di scendere al livello mentale di Critone, tanto più la sua figura grandeggia. Anzi, come l’argomentare di Critone appare più volgare perché è rivolto a Socrate, così l’eroismo sereno di Socrate splende più chiaro, contrapposto alla prudenza di Critone: «Socrate, bada a quel che fai».
Ci ha badato tutta la vita; ha sempre avuto coscienza d’essere esposto, senza difesa, ad ogni malvolere; e ha sempre accettato l’idea di patire, e morire, pur di non combattere l’altrui violenza con armi pari, pur di serbare per sé il suo maggiore, o il suo solo tesoro, la sua purezza interiore. L’atteggiamento ch’egli assume ora,