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l’altra; ma anche quando le circostanze storiche producano questa differenziazione, che par divergenza, di obbedienza e di critica, in realtà in fondo all’obbedienza c’è ancor critica, e alla base della critica c’è molta e molta, sia pur involontaria e inconsapevole obbedienza.
Di nuovo, quindi, la critica sembra così poco «coesistere» con l’obbedienza che piuttosto ne è l’anima; e l’obbedienza, a sua volta, così poco «coesiste» con la critica, che è in essa, alle sue basi.
Più facilmente che mai, ora, possiamo rispondere alla terza domanda: se non si può dire che coesistono, in che senso si dice che, dei due elementi, nessuno è sopprimibile?
Nel senso che l’uno è insito nell’altro stesso: onde non può sopprimersi se non si vuol fiaccare, con esso, anche l’altro. Togliete a una tradizione il potere di rivalutarsi, cioè di criticarsi: presto non sarà più nemmeno una tradizione che si perpetua: non sarà niente. E, per contrario, togliete alla critica una tradizione resistente e pugnace, su cui affilarsi: e la critica stessa, senza più terreno sotto i piedi, casca nel nulla.
Se è così, non si può nemmeno parlare propriamente di «rapporto» tra obbedienza e critica: l’obbedienza, se è applicazione, è fatta di discernimento, cioè di critica; e la critica s’inizia con una preliminare obbedienza allo stato di fatto che essa critica analizza e vuol mutare.
Non solo; ma ci sono altri aspetti del problema, che anche suggeriscono la stessa soluzione. L’obbedienza allo Stato è volontà di conservarlo; ma la critica, l’iniziativa rinnovatrice, intende a sua volta, modificati o
2. — Critone.