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Il Critone passa, giustamente, per uno dei più felici, e anche dei più facili dialoghi platonici. Difatti è tra i più scorrevoli e meno tormentati scritti di quello spirito che conobbe l’ansia e il martirio della ricerca come pochi altri uomini al mondo, ma a quell’ansia e a quel martirio dètte un’espressione così felice che i più colgono l’incanto della sua prosa, e non, attraverso di essa, il dramma interiore di chi intravedeva la verità, e stava per raggiungerla, e quella gli sfuggiva quanto più egli le si avvicinava. Agli scritti platonici càpita lo stesso che alle persone belle: più soffrono, e più il loro dolore si fa bellezza; sicchè chi guarda, rapìto da quella bellezza, dimentica quale pena fiorisca in essa.
Ma il Critone è un dialogo tutto unito e fluido: senza quei dolorosi arresti, quelle disperate giravolte di pensiero, che rendono così tragico, per esempio, il Teeteto. Qui nè dubbi, nè ritorni, amarissimi, sui propri passi. Platone, giovane, ha una traccia assai semplice, e la svolge con arte serena, con quella leggerezza di tocco che fa anche di altri dialoghi dello stesso gruppo — del Jone, per esempio — capolavori leggiadrissimi. È il secolo di Prassitele; così anche Platone tornisce le sue spirituali creature, prima che il dèmone della ricerca l’occupi tanto da lasciargli solo a tratti la giovanile serenità