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di non fuggire, non sempre è còlto: si insiste, giustissimamente, su l’altissimo valore morale della decisione: e si lascia nell’ombra l’abbandono pieno di Socrate alla provvidenza divina. Eppure, se Socrate era così fermamente convinto che la vita dell’universo non si spiega che teleologicamente, da questa trama di fini divini egli non eccettuava menomamente né gli uomini e gli eventi umani in generale, né sé e la sua esistenza in particolare. Anzi, quel continuo sentirsi avvertito da sogni, da visioni, e dalla voce infallibile del suo dèmone, più che mai lo induceva a considerare la sua vita come tutta voluta e decretata dagli Dei; ond’era pronto a qualsiasi evento, ben consapevole d’abbandonarsi così al volere dei reggitori buoni dell’universo, suoi ispiratori e provvidi consiglieri.
Guardata sotto questa luce, la figura di Socrate appare «antica», e, se si vuole, arcaica, molto più che di solito non sembri. E come è assoluto il suo abbandono ai voleri divini, così è assoluto il suo abbandono alle leggi della patria. Il quale atteggiamento tanto più sorprende, quanto più Socrate ha speso tutta la vita nell’esercizio d’una critica, bonaria ma implacabile, degli ordinamenti e dei costumi d’Atene.
Ebbene, egli, il riprensore, «messo da Dio addosso alla città come addosso a grande e generoso cavallo, ma per la grandezza un poco sonnolento e abbisognoso di essere destato da sprone» (Apol., X-III), con la sua critica ha soltanto cercato di aprir gli occhi alla sua patria: non vi è riescito: ora obbedirà, docilmente, a quelle medesime leggi di sovranità popolare che ha così a lungo