Cosima/I
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I
La casa era semplice, ma comoda: due camere per piano, grandi, un po’ basse, coi pianciti e i soffitti di legno; imbiancate con la calce; l’ingresso diviso in mezzo da una parete: a destra la scala, la prima rampata di scalini di granito, il resto di ardesia; a sinistra alcuni gradini che scendevano nella cantina. Il portoncino solido, fermato con un grosso gancio di ferro, aveva un battente che picchiava come un martello, e un catenaccio e una serratura con la chiave grande come quella di un castello. La stanza a sinistra dell’ingresso era adibita a molti usi, con un letto alto e duro, uno scrittoio, un armadio ampio, di noce, sedie quasi rustiche, impagliate, verniciate allegramente di azzurro: quella a destra era la sala da pranzo, con un tavolo di castagno, sedie come le altre, un camino col pavimento battuto. Null’altro. Un uscio solido pur esso e fermato da ganci e catenacci, metteva nella cucina. E la cucina era, come in tutte le case ancora patriarcali, l’ambiente più abitato, più tiepido di vita e d’intimità. C’era il camino, ma anche un focolare centrale, segnato da quattro liste di pietra: e sopra, ad altezza d’uomo, attaccato con quattro corde di pelo, alle grosse travi del soffitto di canne annerite dal fumo, un graticcio di un metro quadrato circa, sul quale stavano quasi sempre, esposte al fumo che le induriva, piccole forme di cacio pecorino, delle quali l’odore si spandeva tutto intorno. E attaccata a sua volta a uno spigolo del graticcio, pendeva una lucerna primitiva, di ferro nero, a quattro becchi; una specie di padellina quadrata, nel cui olio allo scoperto nuotava il lucignolo che si affacciava a uno dei becchi. Del resto tutto era semplice e antico nella cucina abbastanza grande, alta, bene illuminata da una finestra che dava sull’orto e da uno sportello mobile dell’uscio sul cortile. Nell’angolo vicino alla finestra sorgeva il forno monumentale, col tubo in muratura e tre fornelli sull’orlo: in un braciere accanto a questi si conservava, giorno e notte accesa e coperta di cenere, un po’ di brace, e sotto l’acquaio di pietra, presso la finestra, non mancava mai, in una piccola conca di sughero, un po’ di carbone; ma per lo più le vivande si cucinavano con la fiamma del camino o del focolare, su grossi treppiedi di ferro che potevano servire da sedili. Tutto era grande e solido, nelle masserizie della cucina; la padella di rame accuratamente stagnate, le sedie basse intorno al camino, le panche, la scansia per le stoviglie, il mortaio di marmo per pestare il sale, la tavola e la mensola sulla quale, oltre alle pentole, stava un recipiente di legno sempre pieno di formaggio grattato, e un canestro di asfodelo col pane d’orzo e il companatico per i servi.
Gli oggetti più caratteristici erano sulla scansia; ecco una fila di lumi di ottone, e accanto l’oliera per riempirli, col lungo becco e simile a un arnese di alchimista: e il piccolo orcio di terra con l’olio buono, e un armamento di caffettiere, e le antiche tazze rosse e gialle, e i piatti di stagno che parevano anch’essi venuti da qualche scavo delle età preistoriche: e infine il tagliere pastorale, cioè un vassoio di legno, con l’incavo, in un angolo, per il sale.
Altri oggetti paesani davano all’ambiente un colore inconfondibile: ecco una sella attaccata alla parete accanto alla porta, e accanto un lungo sacco di tessuto grezzo di lana, che serviva da mantello e da coperta al servo: e la bisaccia anch’essa di lana, sulla quale alla notte dormiva, quando era in paese, lo stesso servo, pastore o contadino che fosse.
Sull’acquaio non mancava mai un paiolino di rame pieno d’acqua attinta al pozzo del cortile, e su una panca l’anfora di creta con l’acqua potabile, faticosamente portata dalla fontana distante dall’abitato. L’acqua era allora un problema, e se ne misurava, d’estate, ogni stilla; a meno che non sopraggiungesse un buon acquazzone a riempire la tinozza collocata sotto il tubo di scolo dei tetti: eppure la pulizia più diligente, praticata a secco, rendeva piacevole tutta la casa.
Dalla finestra, munita d’inferriata, come tutte le altre del piano terreno, si vedeva il verde dell’orto; e fra questo verde il grigio e l’azzurro dei monti. La porta invece, come si è detto, dava sul cortile triangolare, piuttosto lungo e occupata quasi a metà da una rustica tettoia dalla quale, per un usciolino, si andava nell’orto. In fondo c’era il pozzo, e, sotto il muro alto di cinta, una catasta di legna da ardere, rifugio di numerosi gatti e delle galline che vi nascondevano il nido delle uova. Un’asse appoggiata su due ceppi, accanto al muro laterale della casa, ancora grezzo e sul quale, al primo piano, si apriva una sola finestra (le finestre erano tutte senza persiane), serviva da sedile. E un grande portone fermato anch’esso da ganci e stanghe, tinto di un color marrone scuro, dava sulla strada. Di giorno era quasi socchiuso, e, più che il portoncino della facciata, serviva per il passaggio degli abitanti e degli amici della casa.
A questo portone, una mattina di maggio, si affaccia una bambina bruna, seria, con gli occhi castanei, limpidi e grandi, le mani e i piedi minuscoli, vestita di un grembiale grigiastro con le tasche, con le calze di grosso cotone grezzo e le scarpe rustiche a lacci, più paesana che borghese, e aspetta, dondolandosi, che passi qualcuno o qualcuno si affacci a una finestra di fronte, per comunicare una notizia importante. Ma la strada, stretta e sterrata, in quell’ora fresca del mattino è ancora deserta come un sentiero di campagna, e nella vecchia casa di contro, anch’essa con l’alto muro di un cortile a fianco e un portone rossastro, non si vede nessuno. Questa casa è abitata da un canonico, un lungo e nero asceta taciturno, e da una sua giovane nipote intelligente, che avrebbe voluto farsi suora, ma dopo qualche mese di noviziato è stata rimandata a casa per la sua cagionevole salute. Gente per bene, semplice e austera. Il canonico si lamenta che nessuno, per la strada, lo saluti: è lui, invece, che cammina sempre ad occhi bassi e assorto nelle sue speculazioni religiose: la nipote, visto che Dio non l’ha voluta in sposa, si compiace della corte discreta di un bel giovane ebanista, decisa però a non sposarlo perché non è un proprietario o un funzionario come converrebbe a lei. La bambina sul portone, sa queste cose, e considera i suoi vicini di casa come personaggi straordinari.
Tutto, del resto, è straordinario per lei: pare venuta da un mondo diverso da quello dove vive, e la sua fantasia è piena di ricordi confusi di quel mondo di sogno, mentre la realtà di questo non le dispiace, se la guarda a modo suo, cioè anch’esso coi colori della sua fantasia.
Odori di campagna vengono dal fondo della strada; il silenzio è profondo, e solo il rintocco delle ore e dei quarti suonati dall’orologio della cattedrale, lo interrompono. Passano le rondini a volo, sul cielo azzurro denso, un po’ basso come nei paesaggi dei pittori spagnoli, ma anche le rondini sono silenziose.
Finalmente una finestra si apre nella casa di fronte, e un viso bruno, coi grandi occhi velati dei miopi, si sporge a guardare qua e là negli sfondi della strada. È la signorina Peppina, la nipote del canonico. La bambina si solleva tutta, afferrandosi allo spigolo del portone per allungarsi meglio, e grida la notizia per lei importantissima:
— Abbiamo un bambino nuovo: un Sebastianino.
Risultò poi che era una femmina: ma la bambina desiderava un fratellino; e se lo era inventato, col nome e tutto.
Soddisfatta, rientrò nella cucina e aspettò che la serva finisse di cuocere il latte per la colazione. Bisogna dire due parole di questa serva, che, a ricordarla, sembra anch’essa una invenzione fuori della realtà. Si chiamava Nanna1; e adesso siede certamente alla destra di Dio, fedele ancora ai suoi padroni, nella schiera dei Patriarchi. Da venti anni era al servizio della casa, altri venti ne doveva trascorrere. Aveva allora trent’anni; era venuta bambina, da un tugurio di santi poveri, per badare al primo bambino dei padroni, che era morto dopo pochi mesi dalla nascita, ma lasciando il posto nella culla ad un altro. Primitiva era anche questa culla, come scavata nel tronco d’un noce, senza veli né ornamenti, e non rimaneva mai vuota.
Nanna era ancora una bella donna, con gli occhi castanei di cane buono, un mazzetto di peli all’angolo destro della bocca, i seni lunghi e bassi delle razze schiave. Schiava non era certo, in quella casa, e tutto le veniva affidato, compresi i bambini, che dormivano con lei, e che lei si trascinava appresso quando andava per le commissioni. Se lavorava giorno e notte lo faceva volontariamente: andava a prendere l’acqua alla fontana, a lavare i panni lontano, dove si trovasse qualche rigagnolo, puliva la farina e faceva, con la padrona, il pane di frumento e quello di orzo: andava a battere gli olivi nel podere, a cogliere ghiande per il maiale, nel bosco della montagna; spaccava la legna, dava da mangiare al cavallo; le toccava anche di spazzare il tratto di strada davanti alla casa, poiché il Comune non se ne incaricava; e al tempo della vendemmia pigiava l’uva coi suoi forti piedi nudi rivestiti d’una pelle che sembrava conciata. E lo stipendio glielo serbava il padrone, che lo metteva a frutto: quando ella aveva avuto venti anni ed era bella e quasi bionda i maligni dicevano che il padrone aveva un debole per lei; ma erano chiacchiere e il tempo le dissipò.
Ecco adesso ella cuoce attenta il latte sul fornello sopra il forno grande: per l’occasione del parto della padrona si è messa le scarpe, senza calze s’intende, pronta a tutti gli ordini: una ruga le solca la fronte e le sue orecchie sono tese come quelle delle lepri. La responsabilità della casa è adesso tutta sua, ed ella profitta della sua padronanza solo per sorbirsi qualche tazzina di caffè in più, sola sua passione.
I ragazzi vengono uno ad uno a prendere il caffè e latte, che ella versa nelle rotonde tazze di creta gialla e rossa: anche i più grandi, che sono maschi e frequentano già il ginnasio della piccola città.
Il maggiore, Santus, è un bel ragazzo col profilo e gli occhi grandi, d’un grigio celeste, dalla sclerotica azzurra: ha un’aria pensosa e leale, veste già con qualche ricercatezza, e mentre beve il suo caffè e latte finisce di ripassare la lezione di latino. L’avvenimento della casa non lo sorprende né lo turba: ne conosce il mistero e lo accetta come una cosa naturale. I suoi sensi sono calmi, quasi freddi: la fantasia misurata. Non ama le donne, non pensa che a studiare, approfondire le cose della vita, ma attraverso i libri. No, non ho fantasia, ma forse anche lui è un po’ visionario, come la sorella piccola, e viene da un mondo lontano dalla cruda realtà. Ha fretta di andare a scuola, coi libri ben legati con una cinghia, e non si preoccupa se l’altro fratello invece ritarda e forse dorme ancora nella loro camera all’ultimo piano che ha due finestre, una sulla facciata, l’altra sui tetti sottostanti della dispensa e della rimessa e di altri ripostigli.
E infatti prima di lui scendono le due sorelle maggiori, Enza e Giovanna, che vanno anch’esse a scuola, piccole di statura, quasi eguali come due gemelle, con gli occhi celesti e i capelli neri stretti stretti in una treccia che finisce con un ricciolo. I loro vestiti sono davvero buffi, con la sottana larga e lunga allacciata alla vita intorno alla camicetta a sprone con le maniche abbondanti: il tutto di un tessuto a striscie colorate: della stessa stoffa è la borsa per i libri: hanno anch’esse le calze bianche e gli scarponcini coi chiodi; e in testa fazzoletti di seta che già però esse annodano con civetteria sulla guancia sinistra, lasciando scoperti i capelli fino a metà testa.
La piccola, Cosima, che ancora non ha l’età di andare a scuola, le guarda con ammirazione e invidia, ma anche con un certo timore, poiché esse, specialmente Enza, non solo non giocano volentieri con lei, ma le prodigano pugni, spintoni e bòtte e parolacce: tutta roba imparata dalle compagne di scuola.
Più buono, con lei, è il fratello Andrea. Ecco che, quando le due sorelle sono già anch’esse avviate a scuola, il ragazzo scende, ma disdegna di prendere il caffè e latte; roba di donnicciuole, dice. Lui mangerebbe già una fetta di carne rossa mezzo cruda, e non essendoci questa si contenta di tirar giù il canestro dei servi e rosicchia coi suoi forti denti il pane duro e una crosta di formaggio. Nanna gli va appresso supplichevole, con la tazza colma in mano: poiché questo Andrea è il suo idolo maggiore, il suo affanno e la sua preoccupazione.
— Mi sembri un pastore, — dice, mettendogli davanti la tazza. — Prendi questo; prendi, agnello; il maestro ti sentirà l’odore di formaggio.
— E lui, chi è? Io sono un pastore ricco, ma lui è un povero accattone, un ubriacone pidocchioso.
Così parla Andrea del suo professore di latino; e lo dice con convinzione poiché tutta la gente che vive di lavoro intellettuale è per lui più povera dei mandriani e dei manovali.
La sua mentalità è davvero da ricco pastore, che fa una vita rude ma ha bestiame, terre e denaro; e sopra tutto libertà di azione, tanto per il bene come per il male. Anche la sua persona è tozza, squadrata, le vesti trasandate; ma la testa è caratteristica, possente, tutta capelli nerissimi; il profilo è camuso, con le labbra sensuali; gli occhi d’un grigio dorato, corruscanti come quelli del falco. Non ama lo studio, ed è felice solo quando può scappare di casa, a cavallo, come un centauro adolescente. Nessuno gli ha insegnato a cavalcare: eppure egli monta anche senza sella sui puledri indomiti, e i suoi urli per aizzarli gareggiano coi loro nitriti.
Nell’accorgersi di Cosima, che se ne stava quieta seduta su una seggiolina bassa, con la scodella in grembo, le sorrise e prima di uscire le si avvicinò dicendole sottovoce, con un accento sommesso di complicità:
— Domenica ti porterò, a cavallo, al Monte: ma zitta, eh!
I grandi occhi di lei si aprirono, lucenti di gioia e di speranza: e questa promessa del fratello, piena di lusinghe e di visioni straordinarie, si mischiò alle sue fantasticherie, intorno al mistero della creatura nata quella notte in casa, venuta non si sa di dove, come, né perché.
Questa nascita, inoltre, portava un certo cambiamento di vita. Le due sorelle maggiori dovevano sistemarsi nella camera alta, per lasciare posto, nel letto di Nanna, a lei Cosima, e alla piccola Beppa che ancora dormiva nella culla in camera dei genitori. Beppa aveva circa tre anni, ma ne dimostrava di meno e ancora non parlava bene perché aveva la cartilagine sotto la lingua più corta del solito: e si parlava di fare un piccolo taglio per sciogliere la lingua dal suo impaccio.
Ecco che anche lei fa comparsa in cucina, portata a mano dalla nonna. La nonna non viveva con loro ma aveva passato la notte in casa per assistere, lei, col solo aiuto di Nanna, la figlia partoriente. E tutto era andato bene, senza strepiti, senza disordine. Adesso la puerpera e la bambina riposavano, e anche il padre, che aveva vegliato tutta la notte leggendo o passeggiando silenzioso nella camera attigua a quella della moglie, s’era addormentato su un vecchio sofà.
La nonna invece non sentiva il bisogno di dormire, sebbene fosse una piccolissima donna fragile, quasi nana, con mani e piedi da bambina; e anche gli occhi color nocciola, con lunghe ciglia nere, erano pieni d’innocenza, come mai avessero veduto l’ombra del male. Una cuffietta di panno nero le raccoglieva i capelli già bianchi, ma qualche ricciolo scappava sulla nuca e sulle orecchie, e le dava un’aria sbarazzina. Le nipotine la consideravano come una loro eguale, mentre avevano suggezione della madre, e Cosima provava uno strano senso di sogno quando la vedeva comparire d’improvviso. Ma più che di sogno era un senso fisico di ricordo inafferrabile, una lieve vertigine, come un baleno sanguigno, che più tardi ella si spiegò col crederlo un affiorare e subito di nuovo sommergersi di vita anteriore rimasta o rinata nel subcosciente. La nonna, poi, le ricordava, – ma questo un po’ volontariamente, – certe donnine favolose, o piccole fate, buone o cattive secondo l’occasione, che la leggenda popolare affermava abitassero un tempo in piccole case di pietra, scavate nella roccia, specialmente negli altipiani granitici del luogo. E queste minuscole abitazioni preistoriche esistevano ed esistono ancora, monumenti megalitici che risalgono a epoche remote, chiamati appunto le Case delle piccole Fate. La nonnina prese il caffè, fece mangiare e poi lavò la piccola, e infine mandò la serva a fare la spesa: spesa presto fatta, poiché in casa c’erano tutte le provviste, compreso il pane, e non si trattava che di comprare la carne per il brodo, o un po’ di pesce, se per caso raro venuto dalla spiaggia orientale dell’isola.
Cosima, con la sua scodella vuota, era incerta se seguire la serva nella breve uscita mattutina, o eseguire un suo progetto. Voleva penetrare nella camera della mamma e vedere la bambina; profittò quindi del momento in cui la nonna attingeva l’acqua dal pozzo, per infilarsi nelle scale silenziose. Dopo la prima rampata, tutta di scalini di granito, su un piccolo pianerottolo si apriva l’uscio di una specie di dispensa, col pavimento di legno e il soffitto, come quello della cucina, di canne che formavano un graticcio solido e fresco. Di solito l’uscio era chiuso a chiave: questa volta, nella confusione della notte, era stato lasciato aperto. E prima di proseguire verso la sua mèta, Cosima non esitò ad esplorare la grande stanza, che anch’essa rappresentava per lei un ripostiglio di misteri. E ce n’era ragione: poiché le cose e gli oggetti più disparati stavano raccolti là dentro, in una vaga luce che penetrava dallo sportello di una finestra tutta d’un pezzo, aperto su un lontano sfondo di orizzonte montuoso.
Mucchi di frumento, di orzo, di mandorle, di patate, occupavano gli angoli, mentre una tavola lunga era sovraccarica di lardo e di salumi, e intorno i cestini di asfodelo pieni di fave, fagiuoli, lenticchie e ceci, facevano corte agli orci di strutto, di conserve, di pomidori secchi e salati. Ma quello che più attirava la bramosia di Cosima erano alcuni grappoli d’uva2 e di pere raggrinzite che ancora pendevano da una delle travi di sostegno del soffitto: un’ape, o una vespa che fosse, vi ronzava intorno beata, mentre a lei non era permesso di toccare un acino: sapeva però che c’era una canna, spaccata in cima, per staccare il giunco che legava i grappolo e tirarli giù in salvamento: la trovò, dietro l’uscio, la sollevò come lo scaccino quando accende in alto le candele: l’ape volò via, un grappolo fu afferrato, ma a metà discesa scappò dei denti della canna, cadde, si sciolse sul pavimento come una collana rotta. Sulle prime ella si sbigottì; poi pensò che la mamma, la più severa della casa, non poteva accorgersi del piccolo disastro; e con una pazienza di volontà che lei sola possedeva, raccolse uno per uno gli acini, li mise dentro il suo fazzoletto, fece sparire i raspi e il giunco, ripose la canna, e quando ogni traccia del danno scomparve, pensò che sarebbe anche lei stata buona, come sentiva raccontare dai servi quando ritornavano di campagna, a commettere un furto, un abigeato, e farne sparire le traccie in modo che nessuno avrebbe mai sospettato il vero colpevole.
Queste fantasie barbariche non le mancavano nella mente; ma erano gli stessi servi e gli altri paesani che frequentavano la casa, e spesso anche i borghesi, i parenti, gli amici del babbo, gli ospiti che venivano dai paesi dei monti e delle valli, a seminarle nei fanciulli curiosi e sensibili coi racconti delle avventure brigantesche che allora fiorivano come un residuo di imprese e di guerriglie medioevali, in un raggio di chilometri e chilometri intorno. Con questi fermenti, i ragazzi però venivano su anche coraggiosi, pronti a combattere coi malviventi, e le ragazza, anche se piccole, come Cosima, avevano già istinti di amazzoni. La educazione materna, tutta religione e austerità, smorzava fin che poteva la vivezza interiore dei figli; e più ancora avrebbe fatto quella paterna, poiché il capo della famiglia, il signor Antonio, era l’uomo più mite e giusto della regione: ma egli era troppo occupato nei suoi affari, spinto dal bisogno di assicurare una solida agiatezza ai figli, per potersi dedicare anche alla loro ricchezza spirituale. Li mandava a scuola, è vero, e in sua presenza essi, sia per rispetto e affetto naturali verso di lui, sia per ipocrisia, si mostravano buoni e beneducati. Cosima, poi, sentiva per lui un senso sconfinato di confidenza e qualche volta anche di ammirazione. Non si preoccupò, quindi, nel vederlo apparire in alto, sul pianerottolo del primo piano, mentre ella saliva il secondo rampante delle scale.
Adesso gli scalini erano di lavagna, bene illuminati dalla finestra del pianerottolo: e questo era grande come una camera, con un armadio a muro ricoperto da una tendina di percalle, la macchina da cucire e alcune sedie; e vi si aprivano gli usci della camera matrimoniale e di un’altra che serviva anch’essa per gli ospiti, quando erano più di uno, il che avveniva spesso. Da questa camera, che era la meglio arredata della casa, con due finestre, una sulla strada l’altra sul cortile, il sofà e un tavolino rotondo intarsiato di legno bianco, usciva appunto in quel momento il signor Antonio, fermandosi ad origliare all’uscio della moglie. Nell’accorgersi della piccola Cosima le accennò di non far rumore: ed ella si fermò appoggiata alla parte della scala, intimidita ma non troppo. Il babbo era sopra di lei; le sembrava alto, quasi gigantesco, mentre invece era piccolo e un po’ grasso. Ma se le gambe erano corte, il busto era forte, grande, e la testa grossa, calva, con una ghirlandina di ricciolo già grigi che dalle orecchie rosee pendeva intorno alla nuca possente. E anche il viso sembrava a Cosima il più straordinario di tutti quelli che conosceva: un viso LA CASA NATALE, IN NUORO
La finestra a sinistra è quella della camera dove Grazia Deledda, ancora giovinetta, scriveva.
in realtà pieno di carattere, con la fronte alta, il naso corto a scarpa, la bocca piccola e stretta fra il grande labbro superiore e il mento quadrato. Glabro ma sempre con un po’ di prepotente peluria sulle guancie larghe, aveva, quel viso semplice di paesano diventato borghese, i segni e i solchi di una intelligenza e di una saggezza non comuni; e gli occhi grigi o azzurri o verdastri secondo la luce del momento, potevano essere quelli di un santo ma anche quelli di un guerriero. In quel momento erano azzurri, quasi riflettendo il colore del cielo sopra la finestra, e ammiccavano infantilmente verso la bambina appoggiata alla parete; ma subito si fecero grigi, poiché nella camera si udiva un vagito.
Allora accennò a Cosima di salire e aprì l’uscio. La bambina si sentì battere il cuore. Come faceva il padre a indovinare il suo desiderio? Si trovò nella camera, dietro di lui, e rivide le note cose: il letto grande con una sopracoperta di percalle a fiori, la consolle di noce, che era il mobile più elegante della casa, i quadri, il caminetto bianco: ma tutto le parve mutato, come se una luce di miracolo avesse dato alle cose un aspetto diverso, d’incantamento, come quando si vedono riflesse nell’acqua od anche sui vetro spalancati di una finestra; e quel riverbero si spandeva da una fonte straordinaria: da un canestro di asfodelo, deposto sulla pietra del camino, e dove, fra cuscini e pannolini, era la neonata. Fasciata con le manine dentro, come allora si usava, aveva la testina coperta da una cuffietta di trina rosa; e da questa cuffietta il viso rosso, gonfio, con la bocca già spalancata al pianto, dava l’idea di un boccio che si spacca per fiorire. Per Cosima fu una delusione: poiché ella si era immaginata la nuova sorellina già tutta ricciuta, bionda e levigata come il bambino che nel quadro sopra il letto era tenuto in braccio da un bonario e rossastro san Giuseppe, e da qualunque parte lo si guardasse volgeva gli occhioni celesti come un pargolo vivo.
La madre sonnecchiava: lei sola non era cambiata, col suo pallido viso dal naso un po’ aquilino, la bocca già appassita e i capelli già grigi: né giovane né vecchia, come la bambina l’aveva sempre conosciuta; né allegra né triste, quasi impassibile e quasi enigmatica. Quando al padre parve che Cosima avesse soddisfatto la sua curiosità, le accennò di andarsene; ed ella se ne andò, ma profittando sempre dell’occasione continuò ad esplorare la casa. Visitò la camera dall’altro lato del pianerottolo; passò il dito sugli intarsi del vecchio sofà le cui molle si erano abbassate. Le piacevano i mobili diversi dai soliti di casa; e invero anche le sedie imbottite, di noce e di stoffa verdastra, che completavano l’arredamento di quella camera quasi signorile, erano interessanti; poiché il sedile era mobile e si poteva toglierlo dal fondo della sedia per spazzolarlo con comodo. Ecco che ella ne solleva uno piano piano, osservandone l’imbottitura interna sostenuta da striscie di grossa tela; e pensa che se avesse qualche cosa da nascondere, quello sarebbe il posto migliore. Nascondere! Questa, anche, era una delle sue più segrete e forti aspirazioni, e questa, anche, si spiegò più tardi, collegandola all’istinto degli avi che vivevano sulle montagne e nascondevano le loro cose per sottrarle alla rapina dei nemici.
Poi ritornò sulla scala; altre cose interessanti, per lei, erano una finestrina vuota aperta sulla parete interna fra una rampata e l’altra, e, affaciandovisi, ella fantasticava un precipizio, una cascata di lava soffermatasi con quei gradini azzurrognolo; e sopra tutto una finestra più grande, segnata ma non aperta sull’alto della parete che finiva sul soffitto.
Chi aveva segnato quell’apertura che non si apriva, quel rettangolo scavato sul muro che, se sfondato, avrebbe lasciato vedere un grande orizzonte di cielo e di lontananza? Forse era stato un capriccio del muratore, forse si pensava a una sopraelevazione della casa, cui sarebbe stata poi utile quell’apertura: ad ogni modo, Cosima si incantava ogni volta a guardarla; l’apriva con la sua fantasia, e mai in vita sua vide un orizzonte più ampio e favoloso di quello che si immaginava nello sfondo di quel segno polveroso e pieno di ragnatele. Però, anche l’armadio a muro del pianerottolo, era della stessa famiglia; e poiché nella camera della madre s’era di nuovo fatto silenzio, ella ridiscese cauta, e sollevò la tendina di percalle a fiori rossi e gialli.
Tante cose straordinarie arricchivano le due mensole trasversali: a quella più alta Cosima non poteva arrivarci, e doveva allontanarsi di due passi per vederci bene; ed era giusto che le cose lassù non dovessero toccarsi, come non si toccano i sacri oggetti dell’altare. Con l’altare la mensola aveva qualche rassomiglianza, coi quattro candelabri in fila, due di ottone, due di rame; e in mezzo un vaso di vetro; ma l’oggetto più meraviglioso era un grande piatto di cristallo, finemente inciso come nel diamante appoggiato alla parete di fondo; Cosima non ricordava di averlo mai veduto adoperare, e neppure aveva un’idea dell’uso che poteva farsene; questo lo rendeva più raro, quasi misterioso: le pareva, vagamente, un simbolo, un piatto sacro, proveniente da antichi tesori, e magari una immagine del sole, della luna, dell’ostensorio quando il sacerdote lo innalza e lo fa vedere alle folle adoranti. E lei lo adorava davvero quel piatto, alto, intoccabile; lo adorava, – e questo anche lo capì molto più tardi, – perché rappresentava l’arte e la bellezza.
Nella mensola di sotto c’erano stoviglie, ampolle, e alcune tazze per caffè, bellissime anch’esse, dipinte di rose pallide e dorature delicate; e i relativi cucchiaini di ottone, col manico lavorato; fin qui il dito di Cosima poteva arrivare, ma solo il dito, per sfiorare una rosellina sul candore della porcellana, come si sfiora una rosa vera che è proibito di cogliere; poi la tenda ricade, come un sipario, su quell’altare, su quel giardino; ed ella ritorna sulla scala, conta i gradini, è sull’ultimo pianerottolo, quasi eguale a quello di sotto; ma invece dell’armadio a muro c’è qui un’altra comodità: due fornelli, caso mai si dovesse un giorno servirsi di quell’ambiente per uso di cucina. E la piccola sognatrice pensa che un giorno dovrà anche lei sposarsi, come la madre, come le zie, e abitare lassù. E in quei fornelli manipolare i cibi per sé e la famiglia. Per adesso le due camere, a destra e a sinistra, coi pavimenti di legno quasi ancora grezzo, sono le più povere della casa; con lettini di ferro, i paglierecci pieni di foglie crepitanti di granone, una tavola, alcune sedie. Ma in quella dei ragazzi esiste pure una grande ricchezza; uno scaffale pieno di libri: libri vecchi e libri nuovi, alcuni di scuola, altri comprati da Santus nell’unica libreria della piccola città. Cosima non sa ancora leggere, ma capisce le figure, e sebbene anche qui sia proibito di toccare, apre piano piano un grande libro di fogli grossi, anzi di cartoni color cilestrino, tutti segnati di punti gialli, ch’ella sa che cosa sono: sono le stelle, nell’atlante celeste.
Dopo di che non le rimane che guardare dalle finestre aperte; una sulla strada, l’altra sullo spazio dell’orto e poi su degli orti attigui, fin dove questi scendono alla valle invisibile, dalla quale si sollevano i monti: monti grigi vicini, con macchie di boschi, con profili marcati di roccie, con torri di granito: monti più lontani, di calcare azzurrognolo, quasi luminosi al sole di maggio; e altri monti ancora, più alti, più azzurri, evanescenti, monti di leggenda e di sogno.
La finestra che guarda è meno pittoresca, ma anch’essa interessante e viva. Solo un breve marciapiede corre davanti la casa: il resto della strada è selciato di ciottoli, con una cunetta centrale per lo scolo dell’acqua piovana. Le case sono abbastanza civili; appartengono quasi tutte ai parenti del signor Antonio. Quella in fondo è del fratello prete, don Ignazio tabaccone e trasandato; poi viene quella di zia Paolina, vedova benestante con figli pastori e agricoltori; poi anche quella di zia Tonia, anche lei benestante, con un figlio che studia per droghiere. Il padre di questo ragazzo è morto, tuttavia zia Tonia non è vedova; poiché ha preso un secondo marito, ma dopo un mese di matrimonio lo ha cacciato via di casa, e infine si è separata legalmente da lui; è una donna simpatica, energica, intelligente, e le persone più gioviali del quartiere la visitano giornalmente nelle ore di riposo; giocano a carte, discutono, combinano burle, mascherate di carnevale, tengono allegro tutto il vicinato. La casa più importante è però quella abitata dal canonico, di fronte: un vero fortilizio, con cortili e giardini interni, uno dei quali, quasi pensile, pieno di rose, di melograni, con un gelso alto carico di piccoli frutti violetti. Di là si stende un panorama di case e casupole che formano il quartiere più caratteristico e popolare della piccola città, e il campanile bianco della chiesa del Rosario emerge sopra i tetti bassi e scuri come un faro tra gli scogli.
Adesso il signor Antonio è nella stanza al pianterreno, seduto allo scrittoio, e sbriga la sua corrispondenza, adoperando certi grandi fogli a quadretti che, scritta con la sua nitida e sobria calligrafia la lettera, egli piega in modo da formare una busta e questa ferma e sigilla con certe piccole ostie colorate che sono una delle altre attrazioni di Cosima. La corrispondenza riguarda quasi tutta affari abbastanza ingenti; una delle lettere è indirizzata a uno spedizioniere della costa, che si occupa di caricare su un battello mercantile partite di carbone vegetale e di cenere spedite dal signor Antonio; un’altra per un proprietario che vuol vendere un bosco, appunto per il taglio da ridurre a carbone e cenere; un’altra ad un capomacchia dell’Appennino pistoiese, che deve arrivare con un nucleo di operai sul posto, specializzati per la lavorazione delle carbonaie. Ma c’è anche una lettera di amicizia, per il signor Francesco, possidente, di un paese distante cinque ore di viaggio a cavallo dalla piccola città. Da tanti anni il signor Antonio e il signor Francesco sono amici, anzi compari, poiché il secondo ha tenuto a battesimo la piccola Cosima; adesso l’amico gli scrive per annunziargli la nascita dell’ultima bambina, e lo invita per la nuova festa battesimale.
Poi cominciarono ad arrivare le visite. Dapprima fu don Sebastiano, il fratello della puerpera. In quel tempo i preti sceglievano la loro carriera per non saper che altro fare; ma lo zio Sebastiano, sebbene di famiglia povera, aveva scelta la sua per vocazione sincera. Era un uomo intelligente e anche colto, che sapeva di lettere e di latino, tanto che una volta, essendo stato a Roma, con un sacerdote polacco che non conosceva l’italiano si erano perfettamente intesi nella lingua di Cicerone. Al contrario dell’altro prete di famiglia, don Ignazio, fratello del signor Antonio, egli amava la povertà, era di umore allegro, e l’unica sua debolezza era di mandar giù, fin dalla mattina, bicchierini di acquavite e di vino buono. Fu Cosima a riceverlo, poiché il padre finiva le sue lettere: egli sedette a gambe aperte, nella stanza da pranzo, tirando su la sottana sui pantaloni neri sui quali pendevano due larghe tasche colme di carte, di libri e di altre cose; mise il cappello sulla sedia accanto e il suo viso roseo e sodo, col naso corto, s’illuminò di gioia quando la serva gli portò un calice di vino bianco. Anche la manina piccola gli si era avvicinata con confidenza, e tirava una di quelle tasche misteriose che attiravano a lui i fanciulli come comandava Gesù: anzi, la manina di lei s’introdusse nella spaccatura di quella specie di bisaccia, e ne trasse un piccolo dolce schiacciato nel suo involucro di carta velina. Cosima volle sgridarla; le diede un colpettino sulla mano, ma avrebbe voluto frugare anche lei, e più a fondo, nelle tasche dello zio. Egli lasciava fare, ridendo; poi prese entrambe le bambine fra le sue gambe e le strinse piuttosto forte, mentre traeva dolci, frutta secche e giuggiole dalla profondità delle saccocce. Ne trasse anche due numeri della Unità cattolica, il giornale listato a nero per il lutto del perduto potere temporale del pontefice, e li porse al signor Antonio, entrato in qual momento. Era il solo giornale che essi leggevano, passandoselo uno con l’altro; e anche quella mattina discussero l’articolo di fondo di don Margotti, e poi la critica acerba che si faceva alla moglie di un ministro del Governo usurpatore; poiché la signora era intervenuta ad una festa da ballo con un vestito che si diceva costasse la favolosa somma di venti mila lire.
Poi andarono tutti, comprese le bambine che si attaccavano alla sottana dello zio come a quella di una donna, a vedere la puerpera.
- ↑ [p. 223 modifica]Si chiamava Nanna... La maggior parte dei nomi che figurano in Cosima sono nomi veri: Nanna, è Nannedda Conzeddu moglie di Taneddu Muscetta. Proto, il servo di cui si parla a pag. 29, è Proto Manedda di Fonni. Antonino, a pag. 45, è Antonino Pau. Gioanmario, a pag. 60, è Giovanni Maria Mesina, sposo di Vincenza, sorella di Cosima, morta a ventun anno. Zia Paolina e zia Tonia, pag. 22, son le sorelle del padre della scrittrice, Giovanni Antonio Deledda, detto «Totoni». Così i fratelli di Grazia Santus, pag. 8, detto «Santeddu», e Andrea, pag. 9, e, delle sorelle, la già nominata Vincenza, (Enza) e Giovanna, pag. 9 (quest’ultima morta di angina in piccola età), e Beppa, pag. 11, e Nicolina (Coletta, pag. 72). La nonna materna, pag. 12, si chiamava Nicolosa Parededdu, andata sposa ad Andrea Cambosu, pag. 37. La nuova sorellina alla quale la piccola fantastica Cosima ha affibbiato il nome di Sebastianino, per omaggio puerile allo zio canonico don Sebastiano Cambosu, pagina 24, fratello della mamma Chischedda (Francesca) Cambosu, si chiamerà appunto, dal nome della nonna materna, Nicolina.
Il canonico della casa di faccia, pag. 5, è il rev. Maccioni con la nipote Giuseppina che a 85 anni si ricorda ancora l’uscita della piccola Cosima: «Abbiamo un bambino nuovo, un Sebastianino».
Cambiato è il nome di Fortunio, pag. 104, il figlio del cancelliere, finito poi anche lui cancelliere come il padre: e come il nome è cambiata la natura dell’imperfezione che lo affliggeva: non era zoppo, ma guercio.
[p. 224 modifica]Le due vecchie implacabili zitelle, pag. 82, rispondevano al nome di zia Tatana e zia Paschedda M., governanti del canonico S. La Continentale, pag. 40, era certa maestra Branca. - ↑ [p. 224 modifica]La casa paterna della scrittrice, coi grappoli d’uva appesi al soffitto, e la vista dei monti dalle finestre alte, è stata descritta a più riprese nei libri della D. con gli adattamenti dei singoli casi. Vedi le prime pagine de Il paese del vento, di Sino al confine; sul giardino vedi il racconto intitolato Casa paterna in Nell’azzurro, nel quale racconto trovansi anche notizie sui primi studii di Grazia Cosima. Sulla casa paterna della D. vedi Pietro Pancrazi, La casa di Grazia, in Donne e buoi, pag. 219, Ed. Vallecchi, Firenze, 1935, e Harukichi Shimoi in «Sardegna», giornale dell’Unione Sarda, Cagliari, 1° febbraio 1931.