Cosima/II
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II
Fu, quello, un inverno lungo e crudelissimo, quale mai non s’era conosciuto. Prima venne una gran neve che seppellì i monti e i paesi; davanti alla casa si alzò, in una notte, oltre un metro e si dovette praticare una scia, in mezzo, per poter passare senza affondarsi. I ragazzi, sulle prime, erano felici, specialmente quelli che avevano la scusa di non andare a scuola. Andrea fece nell’orto una grande statua monumentale, con due castagne per pupille e un berretto di pelo in testa: Santus invece tentò di andare a scuola, ma dovette tornare indietro perché le Scuole erano in un antico Convento al limite estremo della cittadina e la neve era così alta che non ci si poteva arrivare. Allora lo studente si chiuse nella camera alta, con un freddo siberiano, e si mise a studiare. Quella che più si divertiva era Cosima. Per la prima volta vedeva la neve in tutta la sua terribile bellezza, e le cose le sembravano infinitamente grandi, trasformate in nuvole.
Un altro spettacolo per lei meraviglioso era il fuoco. Tutti i camini erano accesi e anche il focolare centrale della cucina; pareva che la fiamma scaturisse naturale dal pavimento, piegandosi di qua e di là curiosa e quasi desiderosa di staccarsi e correre intorno; il fumo saliva verso il soffitto e verso ogni apertura, ma tornava indietro come respinto dal freddo di fuori, e allora si faceva dispettoso e annoiava la gente. Per fortuna un servo era tornato il giorno prima dal seminerio, cioè dai campi ove seminava il grano, e adesso, bloccato dalla neve, restava in casa e si rendeva utile in cento modi: spezzava la legna sotto la tettoia, badava al cavallo confinato nella stalla, al maiale e alle galline rattrappite dal freddo, attizzava il fuoco, attingeva l’acqua dal pozzo, e infine andò anche in cerca di un po’ di carne per fare il brodo ai padroni. Le altre provviste erano tutte in casa, e non c’era da aver paura anche se la neve durava per settimane intere. Verso sera infatti ricominciò a cadere, fitta e incessante; furono chiuse e sprangate porte e finestre, quasi contro un nemico, e nel silenzio profondo le voci della casa vibrarono come in un rifugio di montagna.
Nella stanza da pranzo, c’era anche un braciere intorno al quale sedevano la madre e le bambine: Cosima cercò di prender posto fra le sorelle, ma le due, al solito, la respinsero e la punzecchiarono, nonostante i rimproveri della madre: paziente e silenziosa ella si ritrasse e se ne andò in cucina. Lì si stava forse meglio, sebbene il fumo continuasse a velare l’ambiente. La serva sedeva davanti al camino e già sonnecchiava, mentre il servo stava lontano dal fuoco, poiché un uomo forte non ha e non deve avere freddo, e, per spirito d’imitazione, Andrea gli sedeva accanto, entrambi su due seggioline basse. Cosima a sua volta sedette a fianco della serva e le posò la testa sul grembo un po’ grasso e tiepido.
Il servo era un uomo dei paesi: si chiamava Proto; basso e tozzo, con una gran barba rossiccia quadrata e gli occhi verdognoli, aveva un aspetto quasi fratesco; e infatti era molto religioso e semplice, di una innata bontà francescana; raccontava sempre storie di Santi, sebbene Andrea e la stessa Cosima preferissero leggende o racconti briganteschi: ma questi egli li lasciava all’altro servo, che era amico dei latitanti ed anche dei banditi: per contentare i padroncini Proto sceglieva una via di mezzo e narrava certe lunghe favole che sembravano romanzi.
— Questa, — diceva quella sera, — non è inventata: è proprio vera, ed è accaduta quando io ero bambino. Al mio paese l’inverno è più lungo e rigido di questo, perché stiamo sui monti, e i pastori devono scendere con le greggie a svernare in pianura, le donne non escono mai di casa, i mufloni scendono dalle cime in cerca di cibo.
— Anche i lupi? — domanda Andrea.
— No, lupi non ce ne sono. Siamo gente buona, noi, e anche le bestie sono buone. Non c’è animale più dolce del muflone, che è una specie di capra selvatica, ma più bello e agile della capra; e assolutamente innocuo. I cacciatori che lo prendono, e vengono anche molto di lontano per questo, sono più crudeli del più selvatico di essi. Una volta, dunque, uno di questi buoni animali, spinto dalla fame, scese fino all’ultima casa del paese e vi si aggirò intorno tutta la notte. Ora dovete sapere che in quella casa viveva una fanciulla il cui fidanzato, ricco pastore di pecore, era un mese avanti partito per i pascoli del sud: ma durante il viaggio si era ammalato, di polmonite, e adesso giaceva in un paese lontano, mentre i suoi servi continuavano il viaggio col gregge. Il dolore più grave opprimeva la ragazza: avrebbe voluto raggiungere il fidanzato, ma i genitori non lo permettevano. Quindi piangeva sempre e alla notte non dormiva. Sentì dunque il lieve fruscìo che il muflone destava intorno alla casa. Sulle prime si spaventò, credendo fossero i ladri; poi pensò che forse il fidanzato era morto e il suo spirito, ritornato nei luoghi della loro felicità, la cercasse.
Allora si alzò e aprì la finestra. La notte era fredda, ma serena e senza neve. La luna illuminava la china del monte, che
scendeva fino alla casa: e in quel chiarore la ragazza vide il muflone, che frugava qua e là in cerca di cibo: era una graziosa bestia, col pelo color rame lucidato dal freddo, gli occhi grandi e dolci scintillanti alla luna. Ella pensò: è certamente il suo spirito, che ha preso questa forma e viene a salutarmi prima di andarsene all’altro mondo. Scese al pian terreno e socchiuse la porta: la bestia, però, fuggì. Allora lei si mise il cappuccio e andò verso una muriccia sotto la china del monte: il muflone non tornava, ed ella si persuase che non era lo spirito. Rientrò in casa, e mise fuori della porta un canestro con fieno ed orzo: e poco dopo sentì il ruminare del muflone affamato. La notte dopo fu la stessa cosa. La terza notte ella lasciò la porta aperta e mise il canestro sulla soglia. Seduta accanto al focolare, vide la bestia avanzarsi, tornare indietro, avanzarsi ancora e mangiare. Alla quarta notte mise il canestro nell’interno della cucina, accanto alla porta spalancata: e la bestia si fece coraggio ed entrò. Così, un po’ alla volta, divennero amici; ed ella si affezionò talmente al suo protetto, che provò quasi sollievo alla sua pena. Lo aspettava tutte le notti, come un innamorato, e se esso tardava s’inquietava per lui. Non raccontava a nessuno l’avventura, per timore che qualcuno molestasse la bestia: la raccontò solo al fidanzato, quando tornò, guarito, in primavera; e Alessio, così si chiamava il giovine, divenne stranamente geloso. Ma il
muflone, adesso, non scendeva più dai monti: non aveva più fame; inoltre, nel tempo bello la gente stava fuori e poteva dargli la caccia. La fanciulla credette di non rivederlo più: si sposò in autunno; e ai primi d’inverno lo sposo dovette ripartire con la greggia, i servi, i cani.
Ed ecco, la notte stessa, freddissima notte di gelo, il muflone ritornò: ella lo sentì battere le corna alla porta e scese ad aprire col cuore che le pulsava come per un appuntamento clandestino. La storia ricominciò: il muflone si aggirava famigliarmente nella cucina, come un cane, si avvicinava al fuoco; e la sposa gli raccontava sottovoce tutte le sue vicende. Ella non era superstiziosa; non credeva, come altre donne del paese, che gli spiriti e spesso anche gli uomini vivi si trasformino in bestie, specialmente di notte: ci aveva creduto un momento, al primo apparire del muflone, quando si sentiva infelice per la malattia del fidanzato; ma adesso che era felice pensava che la bestia per sé stessa era una creatura straordinaria, sì, ma semplicemente bestia, che le voleva bene. E anche lei gliene voleva; avrebbe voluto tenerselo in casa; le dispiaceva però tenerlo prigioniero e così, dopo la solita visita, gli riapriva la porta. E adesso viene la cosa importante. Per Natale tornò lo sposo. Ella fu incerta se raccontargli o no la sua avventura: però non nascose una certa inquietudine, e, come nelle prime notti, mise il canestro col fieno e l’orzo fuori della porta. Il L'ORTHOBENE
Il monte, sopra Nuoro, reso celebre dagli scritti di Grazia Deledda.
mattino dopo lo trovò intatto: segno che la bestia non era venuta. E non tornò, per tutte le notti che lo sposo restò in paese. Allora un senso di superstizione riprese la giovine donna. Sì, certo, il muflone doveva avere qualche cosa di umano: dimostrava troppa intelligenza per essere solamente un animale selvatico. D’altra parte ella pensava che potevano averlo ucciso, e ne provava un vago dolore. Lo sposo se ne accorgeva, e non sapeva se riderne o irritarsi: poiché qualcuno gli aveva riferito che una voce correva in paese: cioè che la sposa, sebbene da così poche settimane maritata, apriva la notte la porta a un uomo misterioso, venuto di lontano, che correva in modo da non lasciarsi distinguere. Ed ecco il giovane marito riparte; la casetta rimane di nuovo triste senza di lui; il paese è coperto di neve. La sposa veglia; aspetta il suo amico, ma senza troppa speranza di rivederlo. Invece il muflone, come avvertito da un istinto sovrannaturale, ritorna: ella lo accoglie tremante, lo nutre, lo accarezza, lo sente palpitare e ansare, quasi aspetta di sentirlo parlare. E osserva che la bestia, questa volta, non ha fretta di andarsene. E ancora ella è tentata di tenerselo in casa; che male ci sarebbe? Finalmente si decide a riaprire la porta, e l’amico riparte: un minuto, e di dietro dalla muriccia bianca di neve parte un colpo di fucile: la bestia cade; nel silenzio grande si sentono i cani abbaiare e qualche finestrina si apre: la sposa ha un presentimento; aspetta
che tutto sia di nuovo quieto; esce; al chiarore della neve si avanza fino alla muriccia e trova il muflone ucciso, con gli occhioni spalancati che brillano ancora di dolore. Ella lo coprì di neve, con le sue mani; poi tutta la notte pianse. Non si accennò all’avventura; e quando le nevi si sciolsero e fu ritrovata la spoglia del muflone lo si credette morto di fame e di assideramento. Non se ne parlò più; neppure col marito, quando egli fu di ritorno; ma una cosa terribile accadde. In settembre nacque alla giovane sposa un bambino: era bello, coi capelli color rame e gli occhi grandi e dolci come quelli del muflone: ma era sordomuto.
La storia piacque a Cosima. Col capo appoggiato al grembo della serva, credeva di sognare: vedeva il paese di Proto, con le case coperte di assi annerite dal tempo, e i monti scintillanti di neve e di luna; ma sopra tutto le destava una impressione profonda, quasi fisica, il mistero della favola, quel silenzio finale, grave di cose davvero grandiose e terribili, il mito di una giustizia sovrannaturale, l’eterna storia dell’errore, del castigo, del dolore umano.