Cosima/Introduzione
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Cosima | I | ► |
COSIMA, QUASI GRAZIA
Nel 1931 Pietro Pancrazi, avendo sentito dire che Grazia Deledda stava scrivendo delle Memorie autobiografiche, si affrettò a chiedergliele per la rivista fiorentina Pègaso che egli allora redigeva. S’ebbe in risposta dalla Deledda che stava, sì, pensando da qualche tempo a qualche cosa di simile, ma che per altro non aveva ancora deciso se avrebbe trattato una materia per lei tanto scottante nel modo diretto oppure figurandola nel piano della narrazione oggettiva.
Probabilmente tale perplessità dovette durare ancora in lei qualche tempo: e fra tanto attese ad altri lavori, nei quali, come sempre aveva fatto, dosò quel tanto di autobiografico che conveniva al loro assunto. Anche l’ultimo romanzo, La chiesa della solitudine, s’apre col ricordo di una situazione crudamente vissuta: la operazione chirurgica subita al petto da Maria Concezione. L’informazione, in proposito, degli intimi e dei famigliari della Scrittrice poco soccorre, essendosi la Deledda aperta cogli altri assai raramente, e meno che mai gli ultimi tempi, sulla natura delle opere che veniva via via preparando. Nell’autunno del 1934 ebbe una pleurite che portò con sé una lunga convalescenza. Né si sa se a quell’epoca ella avesse già messo in carta il principio di queste sue pagine di memorie trovate nel cassetto senza titolo. Pertanto risulta che dal maggio 1936 smise di attendere a lavori di lunga lena e che scrisse solo qualche breve novella per il Corriere della Sera.
Mancata in Roma il 15 agosto del 1936, il direttore della Nuova Antologia, rivista che ebbe la Deledda fedele collaboratrice fin dal 1898, s’informò delle carte che la compianta scrittrice avesse lasciato: e i famigliari di buon grado sottoposero al suo esame le cartelle di quest’unico manoscritto rimasto, di 277 cartelle vergate di corrente e pulita scrittura, con pochissimi pentimenti e correzioni. Tale opera, mancante del titolo e della parola «fine», vide la luce in tre fascicoli della gloriosa rivista, dal 16 settembre al 16 ottobre. La prima puntata, per insinuar subito ai lettori il singolare carattere del racconto, fu intitolata: Cosima, quasi Grazia; le puntate successive apparvero col semplice titolo di Cosima.
Non c’è dubbio che si tratti di quelle «memorie autobiografiche» alle quali gli ultimi anni si diceva che la Deledda andasse lavorando, portate avanti fin quasi alla vigilia del matrimonio e del conseguente trasferimento dall’isola natia alla Capitale, dove poi visse 3 primi trentasei anni del secolo.
Così com’è, l’opera non dà impressione di lacuna di sorta e si conchiude al tempo in cui l’animosa artista, in procinto di sistemare altrimenti la propria esistenza, sta per dar vita, una dopo l’altra, alle sue creazioni più vitali e più belle. Anche se la Deledda, come del resto è ben probabile, aveva pensato di produrre il racconto della sua vita oltre i termini in cui l’ha troncato l’ingrato destino, noi lo possiamo considerare e accettare come un quadro di taglio perfettamente compiuto.
Comunque, ci accorgiamo subito che quella perplessità manifestata anni addietro al Pancrazi non è stata dalla Deledda in tutto superata: il racconto, invece che in persona prima, è fatto in persona terza e invece che col primo, la protagonista si chiama dal secondo nome di battesimo della Scrittrice: Grazia Cosima di Antonio Deledda e di Francesca Cambosu, nata a Nuoro il 27 settembre 1871. Ma questo, e qualc’altro spostamento di nome per talune altre poche persone del dramma, dovuto unicamente alla opportunità, mai abbastanza umana, di velare alcuni tratti foschi o penosi del fondo della scena, non tolgono mai a queste pagine l’acerrimo sapore del vero. Curando la presente edizione, abbiamo voluto informarci, da chi ha seguito più da tempo e più da presso le vicende della famiglia Deledda e del contorno nuorese al tempo dell’azione svolta in Cosima, se e fino a che punto giudizii e notizie qui significati fossero giusti e precise. La risposta concorde di codesti informatori è stata che ogni parte del racconto corrisponde ad assoluta verità, solo qua e là con qualche lieve velatura e sottile ritocco di nomi. Velature e ritocchi che dunque stanno a provare l’intenzione ben chiara dell’artista di dare tale opera alle stampe: ché la Deledda era tal donna da guardare, per proprio conto, il vero in faccia con una spregiudicatezza più che virile, e ritocchi attenuazioni velature non eran certo fatti per sé, ma pei lettori.
Nelle note da noi poste dopo il testo di Cosima abbiamo cercato di mettere in luce qualcuno di questi punti di riferimento al vero biografico, e anche abbiamo voluto qua e là ravvivare nel lettore la memoria di qualche tratto delle cinquanta opere vecchie e recenti della Deledda che avevano più stretto rapporto con la realtà vissuta di Cosima. Tali richiami avrebbero potuto facilmente moltiplicarsi e sicuramente i futuri studiosi dell’opera della Deledda non mancheranno di approfondire in tale senso ricerche e confronti. L’opera deleddiana è tutta appoggiata sul vero, fin dalla primissima novella pubblicata in un giornaletto locale, che procurò subito dei guai alla scrittrice, un droghiere gobbo essendovisi riconosciuto con fiero disappunto. Ma codesto vero, con tocchi che a volte sembrano da nulla, la Deledda riusciva sempre a sollevare nel piano superiore dell’arte, dimodoché questa opera così tutta gremita di particolari vissuti non ha mai quell’odor di chiuso, di schiavitù e d’abiti smessi che troppo spesso affligge i libri di malcauti raccordato del vissuto con l'immaginario. E come tutta l’opera romanzesca della Deledda ha sapor di vero, così questa documentaria Cosima materiata di vero ha un suo vago sapor di romanzo: e agli occhi del lettor semplice certo si metterà con perfetta naturalezza in linea con gli altri. Parente agli altri, ma inconfondibile con gli altri: come l’ultima di molte figlie che colpisca per una più intensa somiglianza con la mamma: somiglianza che la fa risaltare sulle altre e pur essendo venuta ultima quasi le dà rango di prima. Pur essendo ultima creatura d’un’autrice di tante opere, Cosima ha la germinante freschezza d’un’opera preliminare. Motivi paesani e pastorali affacciati altre cinquanta volte, qui ritornano assai più nuovi che non la prima volta. Temi ricapitolati dei primi tempi della sinfonia, fanno una cosa impensatamente nuova del tempo riassuntivo e conclusivo.
Oggi che l’operosa giornata della grande artista sarda è compiuta, se diamo un’occhiata panoramica all’opera complessiva abbiamo l’impressione che, fra tanti, qualcuno di quei romanzi, per duplicati di situazione narrativa, per ripetizioni d’ambiente, per minore autonomia fantastica potrebbe, senza troppo danno, esser dimenticato: e di fatto la memoria stenta a ricrearne il colore e la linea; mentre quest’ultima venuta e non compiuta, fatta quasi esclusivamente di doppioni di ambienti e di situazioni, con la solita casa paterna, il solito Orthobene sullo sfondo, i soliti pastori, i soliti banditi, il solito muflone, le solite tancas, la solita luna e i soliti melanconici stornelli, s’accampa fra tante belle sorelle come se fosse vestita dei colori più nuovi e parata degli ori più schietti: e insieme, fra tante opere, è quella che ci viene incontro con un viso di più fonda conoscenza e un’aria di confidarci una cosa che noi lettori affezionati e fedeli potevamo avere compresa solo in parte, assai men che a metà: «Tante angoscie dei miei personaggi che v’ho raccontate per migliaia e migliaia di pagine, tanta compassione che v’ho fatta con le loro pene, ora lo sapete: eran le pene e le lagrime di me Cosima, di me Grazia».
La presente edizione è stata curata e annotata da Antonio Baldini.
Gli Editori