Così mi pare/Cose/Impressioni veneziane
Questo testo è completo. |
◄ | Cose - Vagabondando | Cose - In terra libera | ► |
Impressioni veneziane
Venezia dorme.
È l’alba: una incerta, bianchissima alba, che appena disegna le cose su uno sfondo acquitrinoso, dove sono tutti i toni bianchi, i toni bigi, i toni verdognoli immaginabili. Il silenzio che qui ha posto il suo regno, che dai canali verdi, dalla laguna fasciata di nebbia lieve, dai mille rii appena palpitanti spande P incanto e il fascino per cui Venezia è là città dei melanconici e degli innamorati, molle e divina come la voluttà, triste come quella — diffonde, nell’ora meravigliosa di purezza, di serena pace, di dolcezza dolorosa, tutta la sua anima.
Venezia è questa: una gondola nera e lieve, che appena -sfiora l’acqua e non sembra fenderla — un remo abbandonato nell’onda verde, ritirato, rituffato con un lievissimo sprizzare e ricadere di mille stille, che non rompono l’incanto della quiete divina, ma la completano e la scandono con armonia discreta.
Venezia è questa: qua e là dal maggior canale gli austeri palazzetti, tutti bigi e neri, scolorati dal tempo, corrosi dall’acqua, chiazzati dall’umidità, che pare abbiano un’anima sulla facciata, che pare abbiano per facciata un viso, un vecchio viso triste, stanco di memorie gloriose e dolorose, che invano ripensa il passato, che mal s’acconcia al presente, che più non crede nell’avvenire.
Venezia è questa: l’acqua che passa, un palazzetto che sogna e il silenzio. Sopra tutte le cose, il silenzio: nell’ampio, lontano, vicino, dovunque. È l’anima di Venezia, questa, e la sentite palpitare sempre, dappertutto — non in quest’ora soltanto, ma a tutte l’ore — non sull’acqua solamente, ma dovunque.
Una piccola calle brulicante di folla par debba strapparvi al fascino del sogno, ripiombarvi nella vita, ribadirvi alla realtà. I:ou temete: allo svolto del vicoletto breve, l’anima di Venezia è là: una striscia di verde mobile, che tace e vi attende, una gondola bruna, che si perde sotto un ponte rustico, due occhi di popolana, che vi guardano buoni — occhi verdi e liquidi, occhi usciti dalla laguna e pieni ancora del suo sogno.
Su tutte le cose, il silenzio.
Venezia ha il sonno più greve di ogni altra città. In quest’ora cara, in quest’ora fantastica, in quest’ora prodigiosa, in quest ora unica, par di navigare uno stretto mare attraverso due sponde disabitate: non una finestra aperta nelle numerosissime piccole case, nei magnifici bassi palazzi che fiancheggiano il Canal Grande: le facciate mute, prive di griglie, munite solo d’imposte massiccie, chiudono le case come un coperchio di tomba. Occorre uno sforzo di pensiero per immaginare, per credere possibile dietro quegli aspetti di morte, un fervore di vita — dentro quei palazzi che P arte o la storia o la leggenda hanno consacrato, suscitando immagini d un esistenza infinitamente lontana e tranquilla, libera da tutti i travagli umani, dalle preoccupazioni della realtà, — le miserie innumeri, piccole e grandi, della vita quotidiana; — le cure che sono negazione della poesia, e forse le passioni che sono insulto a un passato incorrotto.
Venezia ha i gondolieri troppo cortesi. Inutile il desiderio di abbandonarsi al sogno innanzi a palazzo Yendramin, dove Riccardo Wagner morì — o di fronte a quel miracolo di marmo, che è la casa di Desdemona — o, più oltre, nell’arco di canale, che volge dolcemente a Rialto, presso casa Mocenigo, che ancor porta nello scudo, in tanti leoni rampanti sdegnosi, la possanza di sette dogi. Bisogna rassegnarsi a sentire il nome di tutti i successori nella proprietà di quelle memorie gloriose; del padrone di ogni pergolo, d ogni ansa, d ogni ogiva, d’ogni griglietto, d ogni ricamo, di ogni trilobatura.
Il gondoliere tace soltanto quando è finita la sfilata dei palazzetti più o meno famosi, più o meno ritti nella loro primitiva superbia, più o meno completi nella nativa purezza delle linee.
La gondola, presso Rialto, svolta in un canaletto tortuoso, fiancheggiato da povere, da umili case che la salsedine corrode, che l’umidità riveste presso le fondamenta di tinte verdi bellissime, che qua e là mostrano dalle screpolature dell’intonaco il rosso vivace dei mattoni — sola nota viva nella grigia tavolozza.
Il fascino perdura, diverso ma non meno intenso: una lunga fila di granchiolini, aggrappati alle fondamenta di una casa, sono messi allo scoperto dalla marea bassa — bigio su bigio; un pulcino morto scivola via, portato dalla corrente; qualche finestretta si apre: due garofani rossi ridono sotto una testa bruna di bella bimba affacciata — gondole dietro gondole cariche di pesce, cariche di verdura, cariche di frutta, strisciano, appaiono, scompaiono, s’incontrano, si chiamano, si scansano, s’avvertono da un canaletto all'altro con un lungo grido melanconico caratteristico.
Venezia si desta.
⁂
Un pomeriggio, ai Giardini...
Un'altra visione, un altro paese, un altro sogno. Un'isola verde tra la laguna azzurra sfolgorante di sole, scintillante e palpitante, e un braccio d acqua ancora verde, ancora silenziosa, ancora intonata all’anima di Venezia.
Il paesaggio è più cromo-lito assai meno caratteristico della città interna, quella che si stende lungo le sponde del Canalazzo e che si svolge nel dedalo dei canaletti verdi, ma in compenso è caratteristica, qui, la folla, la vivacissima e svariatissima folla veneziana nella quale le donne abbondano, che par composta quasi esclusivamente di donne, tanto il chiaccherio femminile che sì gran fascino acquista qui dalla dolcezza del dialetto, predomina e s'impone.
Le care donne veneziane! Esse fraternizzano qui, si fondono, si confondono, privilegiate e umili, povere e fastose, modeste ed elegantissime, note e ignorate, senza timidezza le une, senza ostentazione le altre, naturali, semplici, disinvolte, padrone tutte del bel verde cupo che si stende intorno all'infinito, carezzate tutte dal magnifico sole sfolgorante dall'azzurro intenso bagliori e bagliori di fiamma sulla laguna tremula, sul parco già baciato dalla malinconia dell'autunno vicino, sulla folla lieta irrequieta rumorosa, che accoglie tutta la bellezza e tutte le eleganze.
Esse hanno e sanno le donne veneziane, tutta la bellezza e tutta l'eleganza: le signore, che la moda e il cosmopolitismo hanno fatto ormai simili a tutte le loro consorelle delle altre città e che pur si distinguono ancora, sempre, per la schiettezza semplice delle maniere, per una certa ingenuità vivace simpaticissima, per un aria di bontà fiduciosa soave fino a diventar commovente; le popolane, che ancora serbano, attraverso il volgere di tempi e di abitudini, intatto e magnifico, il tradizionaie tipo di bellezza molle e pura che ha fatto, di queste snelle e pallide figlie dell’acqua dalle brevi chiome e dal nobilissimo occhio aperto sul sogno, l’ideale della femminilità.
Certe meravigliose testine, d’una purezza di disegno classica, piegate leggermente, con grazia infinita, sotto il peso troppo greve dei capelli morati, dei capelli biondissimi, dei capelli tizianeschi raccolti sopra la nuca alla maniera delle statue greche, sembrano davvero staccate da una tela del Veronese.
Sotto l’ampio e lungo e caratteristico scialle nero dalla ricca frangia serica, che scende dietro sino a terra e vien raccolto sul seno in un atteggiamento di civetteria pudica e squisita, s’indovinano le figurine tutte snelle, tutte flessuose, tutte piene di grazia e incantevolmente care.
Creature d’amore per eccellenza, create per figurare in questa cornice galeotta, per abbandonarsi mollemente nelle gondole nere quando, al tramonto, l’aria si satura di musica e di carezze e la laguna trema e palpita sotto il bacio delle stelle. Creature d’amore e di languore.
Ecco, esse muovono sotto il sole, lungo il gran viale bianco tra il verde, con quel particolare incedere lento e ritmico che par narrare un’infinita stanchezza di passione: gli scialli neri ondeggiano vagamente: i lunghi occhi liquidi guardano e accarezzano, ravvivati ora da una punta di vivacità insolita: le piccole bocche rosse si schiudono al cicaleggio che ha la grazia di un gorgheggiare di canarini.
Venezia vive.
⁂
Piazza S. Marco, di sera, illuminata dai fuochi di bengala durante il concerto, assiepata, gremita, stipata.
Un miracolo.
Tutta Venezia è qui: la Venezia della marina e quella dei palazzetti superbi specchiati dal canalazzo; sopratutto, l'umile Venezia dal reticolato intricatissimo di arterie verdi che svuotano le povere case sgretolate, corrose, reggentisi per chissà quale miracolo di statica, fradicie ormai dalle fondamenta fin su in capo alle mura senza intonaco, ma ricche di ricami verdi, di ricami neri, ma coronate da un tetto a sbrendoli sopra un cornicione che è ancora un miracolo di bellezza artistica impareggiabile, o sopra poche irregolari fìnestrette che l'edera riveste e che i garofani purpurei ravvivano. Tutta Venezia è qui: i caffe delle Procuratie hanno occupato coi tavolinetti e colle poltroncine tutta la piazza: centinaia di tavolinetti, centinaia di poltroncine, nessuna libera, nessuna che non sia stata presa d’assalto, disputata, rubata. E mescolata alla folla signorile, tra tavolino e tavolino, tra sedia e sedia, circola tutta la Venezia umile, la Venezia venuta dalle più remote calli di San Marco: famiglie intere sfilanti dietro la figliuola maggiore che apre la processione breve chiusa dal padre, chiusa dal fratello, seguita spessissimo dal fidanzato, sempre da un aspirante se non alla mano, certo alla bellezza in fiore di ognuna di queste meravigliose creature della laguna.
Anche i bimbi hanno portato fuori: tenere creaturine nate da qualche anno appena, da pochi mesi, da poche settimane, forse. Non v’ha donna che non ne porti fra le braccia almeno uno. Fanciulle che sembrano bimbette ancora, reggono tra le pieghe dello scialle un Piccolino, con una tenerezza materna che è tutta una rivelazione — vecchie cadenti, decrepite, le caratteristiche vecchiette veneziane dallo scialle consumato e stinto, dall'occhio vivacissimo e la lingua costantemente in moto, reggono anch’esse, come tutte le donne, un bambolo. Poichè la stanchezza le vince, prendono d assalto il basamento dei grandi pennoni imbandierati di fronte a San Marco: non un posto libero più sulla breve scalinata dove già si sono accoccolati molti popolani: intorno a San Marco, lungo la balaustrata esterna, un altra fìtta ghirlanda umana sta, che chiacchiera o ammira o sogna.
Il sibilo di un razzo. Una stella di fiamma taglia la notte cupa, sale seguita da migliaia d occhi, dallo scroscio di vivi applausi, dal grido di cento bocche, illumina — meteora rapidissima — l'ondeggiare dell'immenso mare umano, sotto il quadrato di cielo chiuso tra il rettangolo delle Procurati e e San Marco, scoppia, scintilla, ricade in milioni di faville d’oro sulle croci d’oro della grande Basilica, finisce, scompare.
Un altro e ancora e altri innumeri: dalla Torre dell'Orologio salgono, solcano la notte, s incontrano, s incrociano, crepitano, muoiono.
Venti enormi torcie di bengala rosso, di bengala verde ravvivano le tenebre: sullo sfondo della strana luce San Marco e il Palazzo sembrano visioni di un mondo fantastico: i marmi tinti dal tempo hanno trasparenza cristallina nel roseo fittizio, nel verde siderale; gli smerli, i ricami, i trafori, le trilobature, le fughe di colonnine risaltano, spiccano, ingigantiscono; i mosaici d’oro, le grigliette d’oro, le decorazioni d oro sfolgorano e scintillano; le statue bianche, le figure variopinte sembrano animarsi, muoversi, vivere; è il miracolo, è la malìa, è l'incantesimo.
La musica intona a un tratto, nella notte dolcissima, la preghiera del Mosè.
Ora, anche la folla è di troppo. Ecco laggiù, a pochi passi, la Elva degli Schiavoni invita. Il silenzio, qui, è profondo; ancora la musica arriva sull'acqua, attraverso l’aria satura di brividi — sentimenti e memorie — ma la folla è lontana.
Vicina è invece P anima di Venezia.
Venti, trenta, cinquanta gondole nere riposano accostate, lievemente mosse dalla brezza, assicurate appena a certi contorti esili pali neri spiccanti sullo sfondo dell’acqua con una tristezza di braccia umane imploranti.
Il cielo, senza stelle, dorme — la laguna trema — qualche coppia passa, discreta e silenziosa, abbracciata, perduta nel sogno. Un sogno tanto bello da sembrare imperituro.
Forse, poco lontano cantano le Sirene e da quelle viene l'inganno.
Venezia tesse la sua malìa.