Commedia (Lana)/Inferno/Canto XII

Canto XII

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XII.



In questo capitolo1 intende l’autore punire li tiranni, e punisceli in sangue che bolle continuo. E cosi come furono al mondo contra la persona e aver del prossimo e spanditori di sangue umano senza alcuna pietade, cosi la giustizia di Dio li punisce e stimolali in sangue, e molto spesso ricevono saette da quelli Centauri, li quali son messi per sovrastanti a quello girone. Circa la qual cosa è da notare come la tirannica signorìa è pestifera e malvagia in prima per la disposizione che li conviene avere in sè ed in suo animo; secondo, d’ovre che le convegnono fare: tutta la intenzione del tiranno è solo al bene di lui proprio, lo quale per la sua perversitade conviene essere male di tutto lo rimagnente. Elli è iracundioso acciò che li sudditi per forza non sperino in alcuna sua tranquillitade nè riposamento di suo animo: e questo li rimuove a dimandarli alcuna grazia e dono che sia ben d’essi. È sanguinolento, cioè non ha remedio del sangue umano, che tale hae a fare morire a mala morte mille come uno: e questo fae acciocché alcuno non presuma contra di lui che adesso non sia morto. E irrazionabile, robusto e fiero che tal se all’uomo non li trova una fiera cagione, fallo morire; e questo perchè non si fida, che sempre teme che altri non voglia pensare di suo distruggimento. È salvatico che mai con li suoi cittadini non usa a dimestichezza nò familiaritade; e questo perchè non lo cognoscono nè lo trovano lassivo nè abile alli loro voleri. Guarda lo tiranno quanto s’adovra a non lassar crescere niuno savio nè scritturato in la sua città, temendo che ’l senno di quelli non li nocesse alla sua signoria. Similemente dissipa li ricchi , acciò che con lo suo avere non li nocesse alla sua signorìa. Ancora tolle le fortilizie si della città come del contado d’ogni singolare persona come torre, castella ec.; acciò che elli non possano turbare sua signorìa. Convièneli vivere con gente strania e di mala condizione, li quali per la sua crudeltà tegnono sotto paura tutto lo popolo: fanno eziandio oltraggio in le donne e figliuole sorelle de’suoi cittadini per condurli a desperazione, acciò ch’elli li possa trovare cagione di dissiparli del mondo. E però c’ hanno li tiranni tal condizione nel mondo, si li accompagna con quelli centauri, li quali sono monstruosi animali, come apparirà nel testo. E perché le cose non si puonno cognoscerle bene dallo intelletto umano, se non quando hanno li suoi contrarli apresso, sicome dice Aristotile in Dialettica: apposita iuxta seposita magis elucescunt. [p. 235 modifica]Acciò che più chiaro si cognosca a malizia de’ tiranni, diremo dell’altre polizie, secondo che ne distingue lo Filosofo in lo V della sua Etica; e pone in la Politica per tre modi può esser retta una città: da uno solo, o da pochi, o da tutto lo popolo. Da uno solo può esser retta in due maniere. O quello uno rettore ha buona intenzione, e tutto suo volere è di amplificare lo bene e l’onore de’ suoi cittadini: e questo tale è appellato Re. O elli ha tutta la contraria volontà d’estirpare e consumare lo bene e lo onore de’ suoi cittadini, E questo è appellato tiranno, sicome dice Uguiccione: tyrannus est pessinms et improbus rex, et dicitur a tijro, quod est angustia quod angustiat et cruciat suos. Può essere retta la città da pochi in quattro modi: lo primo modo secondo nobilitade overo antichitade; lo secondo modo secondo la ricchezza; lo terzo modo secondo fortezza di persone: lo quarto modo secondo scienzia. E questi quattro modi puonno avere diverso fine ed intento: o elli intendono a’ beni dei loro cittadini: o elli tendono al male. Li primi se elli tendono al bene è a buon fine, è retta la cittade molto ordinatamente: la prima ragione è perchè hanno amore ad essa, che elli per i suoi antecessori fanno di quel luogo; la seconda ragione permette li nobili fino da piccioli sono in esercizio di reggere e condurre altri, e sono a tale ora cognoscenti, che virtude e vizio sanno operare; e un altro di condizione non sa pure s’elli è animai bruto o ragionevile: la terza ragione è che sempre sono solleciti al dritto reggimento per tema e paura di non perder suo stato. E se li predetti primi tendono a mal fine, è molto disordinata la città che reggeno. La prima ragione è che hanno perduto l’amore che per li suoi antecessori denno avere allo luogo; sichè tale è a loro ch’ella sia ogni die rubata e corsa come s’ella stèsse libera e quieta: la seconda ragione è che sanno fare ogni malizia e ogni danno perchè fino da piccoli hanno imparato che è reggere: la terza ragione si è che voglion fare ogni malizia e per sua nobilitade hanno sèguito e vienli fatto. Li secondi, se tenda sua intenzione a buon fine, è ben retta la sua città. La prima ragion si è che non voglion che si rubi, nè sia fatto oltraggio ad alcuni, e ciascun viva di quello che ha, e questo perchè sono in tale stato di ricchezza, che non li fa mestieri l’altrui adiutorio. La seconda ragione è che non trovano guerra alla sua città, perch' hanno paura che non li smenovisse; e questo è tutto per salvare sua roba e suo stato. La terza ragione si è che fanno belle possessioni, e vi vene a modo di uomini, e non si lassono vivere a modo di bestie, che non fanno differenzia dal luogo dove giacciono a quello ove si gitta la superfluità corporea. E se questi secondi tendono a mal fine, allora è retta la città malamente. La prima ragione si è che tegnono alle sue spese assassini e rubatori, che rubano lo vicino suo, l’uno per avere la roba perchè avarizia l’assale, l’altro perchè quello totale vicino non monti in quello stato che elli è. La seconda ragione si è che si provano di trovare guerra, e metteno còlte e dazii agli altri, ed essi sono gli raccoglitori della moneta: sichè di quello che gli altri perdeno elli guadagnano, o per tale modo tegnono in povertade lo [p. 236 modifica]suo popolo , sichè nessuno può ascendere in quello stato che sono elli. La terza ragione si è che guastano l'ordine delle cittade; che nella città dovrebbeno essere possessori di diletto e di riposo come case con belle sale, camere e camini2 ordinati alla necesitade umana, giardini ed altri luoghi di diletto per spaziare l’animo e trarlo di melanconia: e questi cotali fanno case e torri, bertesche e battalieri, fosse e grosse mura con balestra , manganelle, cacciafusti e rombole, la casa piena di pietre da gittare, lanzoni, ronconi, corazze, balestre e saettamento: sichè la dovrebbe essere usovigli da riposo, si son pur da brighe e da guerre.

Li terzi, che sono lo popolo, se sua intenzione tende a buon fine, si è ben retta la città, in per quello che lo popolo, universalmente è grosso e non malizioso. L’una ragione si è che non soffreno che oltraggio sia fatto ad alcuno in per quello ch’elli odiano tutti li oltraggiosi, con ciò sia cosa che esser superbo viene o da nobiltà da ricchezza, e questi comunemente sono odiati dal popolo. La secjnda ragione si è che il popolo, quando sua intenzione tende a buon fine, le arti e le mercatanzie vagliono a ciò che li suoi mestieri vagliano e abbiano corso. La terza ragione è che sono fatti sovrastanti e rettori uomini di buon animo e di piatola coscienza , e vaglieli poco le cavillazioni de’ notari e de’ legisti, li quali molte volte sanno estendere un piato e tale intenzione, che mai non pensono le parti. La quarta ragione è che lo popolo ben disposto non ha tanto grande animo che sappia volere cosa che sia disordine di sua città, e questo li avviene perchè non cognosce più.

E se de’ detti terzi tende la sua intenzione in mala parte, allora a mal modo è retta la città. La prima ragione si è che ciascuna ha propria malizia ed estendela contra lo prossimo sì in anciderlo e ferirlo , come in rubarlo: e per questo modo si gittano in assassini e desperati e uomini di mala condizione. La seconda ragione si è che in loro, quando sono mal disposti, regna molta invidia; per lo qual pestifero vizio elli si metteno a ritaglio di nocere ad ogni guadagno e inviamento, ch’abbia lo suo prossimo. La terza ragione è che hanno signoria e sono maliziosi; la qual malizia non è adovrata con senno perchè non l’hanno; o però si getta a furia e in rabbiosità, la quale è mala cosa; ed ancora cercano d’avere mal consiglio sì da notari come da giudici, e perchè più non cognoscono, non vi hanno alcuno riguardo. La quarta ragione è che la sua povertà d’animo non ascende a tanto grado quanto bisogna al reggimento della cittade: e però tal signoria rimane imperfetta e non ben disposta.

Delle quali tre signorìe la megliore si è del re: la seconda buona si è de’ pochi ch’abbiano buono intendimento: la terza buona è del popolo ch’ha buono e perfetto intendimento.

La mala signorìa è del popolo ch’ha corrotta la intenzione; peggiore è di pochi ch’hanno malo intendimento; la pessima signorìa [p. 237 modifica] si è quella del tiranno. E la cagione perchè è maggiore signorìa e più pessima in li pochi che in li molti, si è che pochi possono eleggere e sì in bontà e sì in malizia, li più per la loro diversitade non possono cosi fare elezione né bene nè a malizia.

Abbiamo toccato brevemente de’ modi delle polizie; e però chièha diletto di volerne sapere più diffusamente, trovi l’Etica e la Politica là dove apieno si tratta di quelle: ancora lo libro che fe’ fra Gillo De regimine principum, in lo quale distintamente nella terza principal parte sì si cuntene.

Poi ch’è detto della intenzione del capitolo duodecimo, è ad esporre lo testo la dove che bisogna.

Era lo loco, ove a scender la riva
     Venimmo, alpestro, e per quel ch’ivi er’anco,
     Tal, ch’ogni vista ne sarebbe schiva.
Qual è quella ruina, che nel fianco
     Di qua da Trento l'Adice percosse 5
     per tremuoto o per sostegno manco;
Che da cima del monte, onde si mosse.
     Al piano è sì la roccia discoscesa,
    Ch’alcuna via darebbe a chi su fosse:
Cotal di quel burraio era la scesa. 10
    E in su la punta della rotta lacca
    L’infamia di Creti era distesa ,




V. 1. Aduce per esemplo sicome entrando nelle montagne, nella sua valle discende un fiume, lo quale per la continuitade del corso ha roso la montagna dal piè, e poi in processo di tempo tutta quella parte del monte che dovrebbe essere sostenuta da quel pedale è dirupata e cascata. Cosi era fatto quel passo, cioè di ruina, ed era così denudato e alpestro, cioè salvatico. E soggiunge facendo comparazione: ogni vista, ne sarebbe schiva, cioè timida.

10. Cotal di quel burrato, cioè luogo cavo.

12. L’infamia di Creti. Qui introduce una favola poetica, la

quale avenne in Creti. Scrivono li poeti che Minos fu un re universalmente di Creti, ed avea una sua moglie ch’avea nome Pasife, e due figliuole, l'una nome Fedra e l’altra Adriana. Avenne che 'l predetto re andò ad assedio ad una città ch’avea nome in [p. 238 modifica]

Che fa concetta nella falsa vacca:




quel tempo Atene, e ancor è appellata Setine3. Essendo quello, esercito molto grosso e sforzoso, faeea la sua guerra molto fieramente, e la città per sé era molto forte: sichè durò un gran tempo l’assedio. Or dice la novella che 'l palagio del detto re, ch’era in Greti, era molto dispartito dagli altri casamenti sichè intorno ad esso erano molti giardini e prati e altra verdura: dalla parte ov’erano li prati si pasceva uno armento di vitelli fra li quali n’era uno tutto bianco e, secondo che recita Ovidio, non avea sopra sè se non un poco di nero in lo fronte a modo d’una stella. Questo era giovinetto e grasso, non avea alcuna fatica ch’avea lo pascolo molto buono; si ch’era fresco, gagliardo e legiadro. Aveasi cernuto nelle vitellette una ch’era tutta di pelo variata, e con questa conversava nel pascolo, e solo ad essa attendea quando spargea la sua semenza. Or per lo destro ch’elli avea, senza briga era molto spesso a cotali salti. La Reina spesse volte se iacea alla fenestra, e guardava in cotali parti, e vedea quel zimbello, e innamorossi oltra naisura di quel vitelletto. Essendo cosi errata, e volendo sua volontà adurre ad effetto, pensò d’averne consiglio con chi ne la potea aiutare. Mandò per uno maestro , il quale avea nome Dedalo, ch’era molto ingegniero e sottilissima persona in fare artificii; lo quale era maestro pronto nella corte del re di cotali affari; tolseli fidanza, e legollo per sagramento; e apresso lo cominciò a minacciare di farlo morire, se ’1 non tenesse credenza. Costui sicome suddito le promise credenza. Questa li rivelò lo suo volere, ed agiunse ch’ella volea ch’elli pensasse modo e via, com’ella potesse carnalmente stare col detto vitello. Costui veggendo la volontà della donna pensò alla vicenda, e fece una vacca di legno, la qual simigliava per grandezza a quella ch’era amata dal vitello; fatta quella, segretamente e di notte tolseno la vacca viva, ed uccisenla, e scorticonnola, poscia lo cuore miseno sopra la vacca di legno: e brigonno bene un die a far questo lavoriero. Lo vitello andava cercando questa vacca tra l’altre, non la trovava, arabbiava, e facea grandi mugiti e lamenti. Quando venne a l' altro die, la ditta Pasife reina entrò in la detta vacca del legno, e mise il suo istrumento fabbricatorio in quel luogo ov’era quel della vacca, e fecesi portare nel prato dov’erano li altri vitelli e vacche. Lo vitello veggendo questa, credette che fosse la sua; immantinente corse a covrirla. Pasife ch’era dentro , ricevè tal numo e seme4, e sì se ingravidò; poi in processo di tempo partorì uno animale, lo quale era [p. 239 modifica]

     E quando vide noi, se stesso morse


mezzo uomo e mezzo bue, e fu appellato Minotauro. Costui passato lo tempo del latte, cominciò a mangiare carne cruda ed esser fiero animale. Le novelle andonno a Minos, sichè essendo ancora al sopradetto assedio, e credendo questo essere figliuolo di Giove, come a reina gli avea fatto credere, ordinò che fosse fatta una prigione a giravolte, la quale istava per modo che chi vi entrava senza cautela, non ne sapea uscire; e chiamossi Labirinto: e qui fece mettere questo monstro, lo qual vivea solo a carne umana. Or stando lo re Minos più tempo al predetto assedio, venne a tali patti colli Ateniesi, che elli si rimanessero nella sua terra; ma ogni mese dovesseno mandare in Creti uno uomo, lo qual fosse dato per cibo al detto Minotauro. E quegli d’Atene al tempo dello assedio per lo detto patto constituirono uno statuto tra loro, che dovesseno andare per ventura, over sorte, acciò che non avesseno avvantaggio li grandi cittadini da’ minori. Partito lo detto re Minos dall’oste e tornato a casa, li Ateniesi li manteneano troppo bene lo patto, che mai non fallavano che ogni mese non mandasseno uno uomo per cibo del detto mostro: ed era usanza quelli a chi venia la sorte, andare tre die per la terra acciò che ogni uomo lo vedesse; poi era ordinato uno naviglio, lo qual avea le vele nere, e in quello era navigato in Greti, e portato al detto labirinto. Avenne che in processo di tempo la sorte cadde sovra Teseo, lo qual era figliuolo del duca d’Atene, che dovesse essere mandato al Minotauro per cibo. Questo Teseo era bello, savio ed adorno giovane: molto ne pesava al padre, ma non si potea fare altro cambio nè schifarlo, perchè ’l statuto era fatto nel tumulto del popolo, non se li poteva trovare esenzione: grande pianto ne fu fatto per la terra, e grande pianto ne fece lo padre e la madre. Alla fine avendo pure speranza: forse quel mostro sarà morto, o allo re Minos prenderà pietade di costui perchè cosi nobile, bello e saggio, ordinò alli naviganti del naviio: se costui morrà quando tornareti, adurrete le vostre vele nere in àlbaro, e s’elli scampasse, che non morisse, durrete le vele bianche in àlbaro. Fatto a’ nocchieri tal comissione per lo Duca,

entrò in nave con essi Teseo e con le vele nere andò in Greti. Sapiendo Minos che questi era Teseo, si lo volle vedere, e tenere tre die, ma non li volle perdonare la morte. Questo Teseo veduto da Adriana figliuola di Minos e sorore del Minotauro, li entrò sì nel cuore e nel suo amore che la detta Adriana pensò di volere essere con esso in secreto; seppe si trattare che l'ebbe una sera in camera. Questa lusingando e parlando con costui per volerlo adurre in amore, niente facea ch’elli avea tanto l’animo alla morte che niente era; in fine disse la detta donna: se tu mi vuoi promettere di tormi per moglieri e di menarmi ad Atene, io ti insegnerò si che tu non morrai, e il modo d’ancidere mio fratello, poi anderemo per secreto modo alla nave e scamperemo via: e se tu vuoi [p. 240 modifica]

     Sì come quei, cui Tira dentro fiacca. 15




dire: Minos tornerà ad assedio ad Atene, dicoti che non farà per per due ragioni; l’una che non li bisognerà più lo cibo per lo Minotauro perchè sarà morto, l'altra per mio amore, ch’elli sapendo ch’io sia tua moglieri e tu signore della terra, non ti verrà contra. A Teseo parve ragionevile questo e forse sforzò un poco lo parere; per amore di scampare la vita promise alla donna il suo piacere. Questa così l’insegnò: tuòi un ghiomo di spago, e quando tu entrerai nel labirinto, lega l’uno capo alla porta dell’intrata, poi va tanto quanto la via ti mena, tanto che tu trovi lo mostro; quando l’arai trovato fa che abbibtre ballotte grosse, come hai lo pugno, di cera impeciata ed avenenata; quand’elli te vedrà, per la fame rabiosa ch’elli ha, elli aprirà la bocca, e tu ne li gitta una: questi la inghiottirà e riaprirà la bocca, e tu li getta l’altra: questa masticherà un poco, ma per la rabbia la inghiottirà e riaprirà la bocca, e tu gitta la terza. Questi per le due ch’avrà avute prima si metterà a masticarla, e quanto più elli la biascierà tanto se li impaccierà più coi denti , e tu allora sii presto ed abbi una mazza di ferro ed ancidelo. Poi te na torna drieto al filo del ghiomo del spago, e sia apparecchiato lo tuo naviglio, ed io serò presta, ed anderèmone insieme. E sovra tutto li proferse: io menerò meco mia sorore Fedra, e daremola per mogliere ad Ippolito tuo figliuolo, sichè saremo di parentado sì stretti insieme, che Minos non farà alcuna novitade.

Come fu fatto l'ordinamento così fece Teseo. Morto che elli ebbe lo Minotauro venne a nave; e queste due sorelle con suoi arnesi funno lie , e entronno in nave, e comincionno a venire verso Atene; tutta volta tanto allegri del suo prospero pensieri, che non s’avideno, che traducevano le vele nere. Teseo nel naviglio andava dandosi buon tempo e diletto con Adriana. Rincrescendoli ella, prese amore secreto a Fedra. Disceseno ad uno scoglio e dormendo Adriana, montò in naviglio con Fedra, e lassonnola lie. Adriana quando si destò e si vide cosi abandonata, fece grandissimo pianto e lamento; a Bacco ne venne pietà e trasmisela in cielo e fèlla costellazione della corona, perch’era di schiatta reale: la qual constellazione è in ostro come appare nello Almagesto di Tolomeo.

Lo padre di Teseo, aspettando novelle di suo figliuolo, continuo era suso una torre e guardava in mare: quando vide tornare lo navilio colle vele nere, per dolore ed ira, credendo che 'l figliuolo fosse morto, si gittò giuso dalla torre e morì.

Quando Teseo fu tornato, e trovò che 'l padre era morto, funne molto tribolato, ma non ne potea fare altro: succedette nel ducato d’Atene, tenendo Fedra per sua mogliere.

In processo di tempo la detta donna si ripensò come doveva esser moglier d’Ippolito, invaghìo di lui, e volle ch’elli giacesse con lei. Costui si recusò di far ciò, ond’ella si lamentò a Teseo ch’ello l'avea voluto sforzare. Teseo assalito da ira cercava [p. 241 modifica]

Lo savio mio in ver lui gridò: Forse
     Tu credi che qui sia il duca d’Atene,
     Che su nel mondo la morte ti porse?
Partiti, bestia, che questi non viene
     Ammaestrato dalla tua sorella, 20
     Ma vassi per veder le vostre pene.
Qual è quel toro che si slaccia in quella
     Che ha ricevuto già 'l colpo mortale,
     Che gir non sa, ma qua e là saltella;
Vid’io lo Minotauro far cotale. 25
     E quegli accorto gridò: Corri al varco;
     Mentre ch’è in furia, è buon che tu ti cale.
Così prendemmo via giri per lo scarco
     Di quelle pietre, che spesso moviensi
     Sotto i miei piedi per lo nuovo carco. 30
Io gìa pensando; e quei disse: Tu pensi
     Forse a questa rovina, ch’è guardata
     Da quell' ira bestial ch’io ora spensi.
Or vo’ che sappi , che l'altra fiata




Ippolito per occiderlo: Ippolito vedendo ciò si partio d’Atene e fuggì in altre parti.

L’allegoria della detta favola sì è che 'l detto re Minos di Greti era giusta persona e però facea giuste battaglie e consiglio ragionevile e dritto: e questo figura la gente ch’avea nell’oste ordinata e acconcia. Lo Minotauro figura lo figliuol che succedette poi nel reame, lo qual resse un tempo con consiglio di villani e bestiali, ed era tiranno. E però metten li poeti che in quanto era e teneva con consiglio bestiale, elli era mezzo bue e mezzo uomo: in quanto era tiranno si lo pognono che mangiava carne umana: e però ch’ebbe vita tirannica sì lo introduce Dante in questo capitolo che è dei tiranni.

V. 13. Che fu concetta, com’è detto nella vacca del legno. Qui mostra l’ira de’ tiranni iniqua, che a lor medesimi quando non puonno ad altri nuoceno.

16. Lo savio mio, cioè Virgilio.

17. Lo Duca d’Atene, cioè Teseo.

20. Ammaestrato, cioè da Adriana.

22. Segue lo poema esemplificando come appar nel testo.

29. Altro non vuol dire se non che n’andò col corpo: e questa è allegoria ch’ello fae poesia in lingua volgare.

31. Quasi a dire: come questa così fatta runa che dovrebbe ogni cosa a circolar figura, perchè è così fatto l’ordine del mondo.

34. Dice che per la morte di Cristo in su la croce fu grandissimi

terremoti, per li quali quella roccia cadde. E testimonia in due modi: l'uno è quando elli andò là giuso introdutto Enea a par [p. 242 modifica]

     Ch’i’ discesi quaggiù nel basso inferno , 35
     Questa roccia non era ancor cascata.
Ma certo poco pria, se ben discerno,
     Che venisse colui, che la gran preda
     Levò a Dite del cerchio superno,
Da tutte parti l'alta valle feda 40
     Tremò sì, ch’io pensai che l'universo
     Sentisse amor, per lo quale è chi creda
Più volte il mondo in Caos converso:
     Ed in quel punto questa vecchia roccia
     Qui ed altrove tal fece riverso. 45
Ma ficca gli occhi a valle; che s’approccia
     La riviera del sangue, in la qual bolle
     Qual che per violenza in altrui noccia.
cieca cupidigia, o ira folle,5
     Che sì ci sproni nella vita corta, 50
     E nell’eterna poi sì mal c'immolle!
Io vidi un’ampia fossa in arco torta,


  1. Molto scorretto, e in moltissimi tratti è mancante questo esordio nel Ricc.
  2. Non voglio ommetter qui di notare; che i Signori da Camin perdono la vincita nella Storia ch’essi inventassero questo agio domestico e prendesse nome da loro. Quando scrissi la Storia dei Ducati di Parma, Piacenza ec. non conoscevo a puntino questo Lana.
  3. La ragione di questo assedio è narrata dal Cod della Magliabecchiana, ma par tratto da altri poiché manca ai Cod. consultati. V. la nota in fine dei Commento a questo canto, la quale è abbastanza bella e curiosa. A questo periodo il Cod. DiBagno continua Siando invece di Essendo.
  4. Questa voce seme è nel Codice Laur. XL., 26. Numo è alla Vind. e al Cod. DiBagno, e forse era muno da munus ch’è ciò che diede il toro (Etim. in Varrone). Il Cod. Sanese ha solo come il Palatino: ricevette il seme dell toro
  5. V.49. Scelgo questa lezione come la più sicura e conveniente. Il Laur. XL, 7 ha e ira e folle; l'antico BU e dira, che fors’in origine era ed ira; i tre dell'Archigin e il Land, hanno ria, come le ed. di Foligno, di Napoli e del Cod. Filippino




lare al padre, com’è detto nel primo capitolo, quella roccia non era caduta; l’altro è che 'l dice: ella cadde prima un poco che qua giuso descendesse quello che levò la grande pietra del limbo, cioè Cristo quando trasse li santi padri di là giuso. E dice poco prima: e questa fu la differenzia del tempo da che Cristo disse: consumatum est, che oscuirò il sole, e funno li terremoti fino alla ora ch’elli discese al limbo.

V. 40. Da tutte parti. Qui recita una oppinione ch’ebbe Empedocle, lo qual tenne che lo mondo un tempo si reggesse a lite, e in questo tempo tutte le spezie delle creature erano per sè, e dispartite l’una dall’altra: l’altro tempo si reggesse ad amore; ed in questo tempo ogni cosa si mischiava insieme, e faceasi del mondo un Caos, poi tornava al pristino stato: e così cambiandosi quando in lite, quando in amore. La qual oppinione è reprovata per lo Filosofo in lo primo della Fisica, là dove tratta De principiis naturæ.

46. Qui mostra che nel sangue bollen quelli che per forza nuocen al prossimo: e questi son quelli che sono tiranni.

49. Qui fa comparazione esclamando centra la cupidigia del tempo che la si possedè, al tempo della pena che se li consegue.

52. Quasi a dire che lo luogo era grande e circondato da una ampia fossa, su per la riva della fossa andavan centuari armati con archi e saette, e dà esemplo come nel mondo si va in caccia. [p. 243 modifica]

     Come quella che tutto il piauo abbraccia,
     Secondo ch’avea detto la mia scorta:
E tra il piè della ripa ed essa, in traccia 55
     Correan Centauri armati di saette.
     Come solean nel mondo andare a caccia.
Veggendoci calar ciascun ristette, *
     E della schiera tre si dipartiro
     Con archi ed asticciuole prima elette: 60
E l'un gridò da lungi: A qual martire
     Venite voi: che scendete la costa?
     Ditel costinci, se non, l'arco tiro.
Lo mio Maestro disse: La risposta
     Farem noi a Chiron costà di presso: 65
     Mal fu la voglia tua sempre sì tosta.
Poi mi tentò, e disse: Quegli è Nesso,




Centauri sono animali mezzi Cavalli e mezzi uomini, li quali vanno con arche e saette pestilenziando quelle anime de’ tiranni che bolleno in lo sangue. E descrivono li poeti che Ision di Grecia innamorato di Iunone moglie di Iove, la ditta Iunone venne a cacciare con esso: e quando Ision volle gittare lo sperma, Iunone non lo volle ricevere, ma tirossi indietro, sicché lo sperma cadde in terra, del qual s’ingenerò li Centauri. L’allegoria di questa favola è che Ision fu primo rettore di Grecia, e sì non era nobile1, ma per modo tirannico tenea lo reggimento. Affettava gloria e onore: e questo figura che volle concubere con Iunone che è moglier di Iuppiter. Avea cento cavalieri a sua guardia armati con saette e con archi; e questo figura li detti Centauri, quasi a dire cento armati. Lo qual Ision poco tempo tenne il reame perchè li fu tolto: e questo figura che stette poco con Iunone in diletto, ch’ella si tirò in dietro. E però che li Centauri funno prima trovati per li tiranni, cioè soldati, però in questo capitolo de’ tiranni fa menzione d’essi.

V. 60. Asticciole, cioè saette.

65. Questo Chirone fu un grande e valente uomo, e uomo d’arme e di battaglie, e fu quello che nodrì in infazia Achille figliuolo di Peleo e di Tete dea marina, fino al tempo che la ditta Tete lo mandò all’isola di Licomede re, e fèllo stare in secreto in abito femminile, sicome è ditto nel quinto capitolo; e però che questo Chirone fu così armigero, li poeti lo scriveno per centauro.

67. Questo Nesso fu un gigante e fortissimo uomo: stava con

una barca ad uno braccio di mare in Grecia e tragittava le per [p. 244 modifica]

     Che morì per la bella Deianira ,
     E fe’ di sè la vendetta egli stesso:
E quel di mezzo, che al petto si mira, 70
     E il gran Chirohe, il qual nudrì Achille:
     Quell' altro è Folo, che fu sì pien d’ira.
Dintorno al fosso vanno a mille a mille,
     Saettando quale anima si svelle
     Del sangue più, che sua colpa sortille. 75




sone ed i cavalli: le persone tragittava con la barca, li cavalli si levava in spalla, e pedegiando li portava oltra l'acqua. Avenne che a questo luogo fue per passare Ercules con sua moglieri ch’ebbe nome Deianira: questo Nesso disse: la barca non potrebbe portare voi due e me, ma faremo così: io porterò la donna oltra, poi tornerò per Ercules. Ercules rispose: elli è senno di far così. Entrata la donna nella barca, innanzi ch’elli fussene oltra, Nesso fu inamorato di Deianira e spinselo tanto la voluttà che nella barca volle giacere con essa. Ercole stava su la riva d’acqua, vide questo fatto, mise mano all’arco e alle saette venenose, tirò l’arco e feri Nesso. Nesso cognoscendo ch’era ferito da saetta tossicata pensò di vendicarsi in questo modo; disse a Deianira: io sono ferito a morte, ma per la piacevolezza ch’è nella tua persona io ti farò questo dono; io ti darò la mia camiscia, la quale ha cotal virtù che ogni fiata che tuo marito Ercole l’avrà in dosso, elli non si potrà partire da tuo volere. Ed ebbeli data questa camiscia. Costei credendo questo si la tolse ed ebbela ben cara. Passato di questa vita Nesso, Ercole passò l’acqua pedegiando, trovò la moglie oltre la riva, e andonno ambidue a suo viaggio. In processo di tempo avenne che nelle parti d’Africa apparve un mostro, sichè Ercole per subjogare questo mostro, andò in Africa e lasciò Deianira in Grecia. Essendo andato Ercole, e stato alquanto tempo, non tornava; all’orecchie di Deianira venne che Ercole era inamorato d’altra donna nome Iole; si ch’ebbe cura che ciò non fosse. Tolse Lica e mandogli la sopradetta camiscia. Ercole come l' ebbe in dosso fue avvelenato, in per quello che la camiscia era sanguinosa del sangue di Nesso, lo quale usci della paga fattali per la saetta attossicata che li trasse: Ercole si senti al punto di morire, ancise Lica e poi morì. Sichè Nesso per lo predetto de la sua camiscia fece la sua vendetta, cioè che fece morire Ercole che saettando l’uccise; e però dice: e fe’ di se la vendetta elli stesso.

V. 70. E quel di mezzo. Fu Chiron lo sopradetto, che allevò Achille.

72. Quell'altro è Folo. Fu uno soldato e uomo d’arme lo quale sovra li altri fu sorpreso d’ira; e però lo mettono li poeti uno centauro iracondiosissimo.

73. Qui descrive come li detti centauri saettavano quelle anime, che si moveano dallo luogo della pena a lor data per la giustizia di Dio. [p. 245 modifica]

Noi ci appressammo a quelle fiere snelle:
     Chiron prese uno strale, e con la cocca
     Fece la barba indietro alle mascelle.
Quando s’ebbe scoperta la gran bocca,
     Disse ai compagni: Siete voi accorti, 80
     Che quel di retro move ciò ch’ei tocca?
Così non soglion fare i piè de’ morti.
     E il mio buon Duca, che già gli era al petto
     Ove le duo nature son consorti,
Rispose: Ben è vivo, e sì soletto 85
     Mostrarli mi convien la valle buia:
     Necessità qui induce, e non diletto,2
Tal si partì da cantare alleluia,
     Che mi commise quest’ufficio nuovo:
     Non è ladron, nè io anima fuia. 90
Ma per quella virtù, per cu’io muovo *
     Li passi miei per sì selvaggia strada,
     Danne un de’ tuoi, a cui noi siamo a pruovo,
Che ne dimostri là ove si guada,
     E che porti costui in su la groppa; 95
     Che non è spirto che per l'aer vada.
Chiron si volse in su la destra poppa,
     E disse a Nesso: Torna, e sì li guida,
     E fa causar , s’altra schiere v’intoppa.
Noi ci movemmo colla scorta fida 100
     Lungo la proda del bollor vermiglio,
     Ove i bolliti facien alte strida. *


  1. Alcuni Cod, hanno era nobile; altri non era nobile Ma poiché tenea Io reggimento in modo tirannico, e nel C. XXIV Purg. è detto di bassa condizione, e che fu cacciato dai nobili, conservo quel che concorda: non era nobile, com'è, nel Laur XL, 36; e XC. 121.
  2. V. 87. Varie sono le lezioni: Necessità lo induce, Necessità il conduce, Necessità ’l ci adduce, Necessità ’l c’induce, e quest’ultima è la più presa. Si tradurrebbe: Neccssità induce a noi questo mostrar ciò a lui; ma il vero scanso è piuttosto Non per piacere questo è, ma per necessità; e meglio: Questo è voluto da necessità non da diletto,. Perciò leggo come scrive il Riccardiano.




V.76. Segue lo poema descrivendo li loro atti, e come si meravigliavano di Dante che ivi era col corpo, il quale movea il fango e le pietre come fanno i vivi al mondo.

83. Qui mostra che Virgilio non era negligente.

84. Cioè dove terminava nelli Centauri la natura umana e la equina.

90. Non è ladrone, cioè non venne qui per starsi.

91. Ma per quella. Segue lo poema mostrando come domandò aiutorio e scorta, come appar nel testo.

100. Or ci movemmo. Qui scrive andonno per la prova, cioè per lo cominciamento del bollor vermiglio, cioè del sangue. [p. 246 modifica]

lo vidi gente sotto iufinuo al ciglio;
     E il gran Centauro disse: Ei son tiranni,
     Che dier nel sangue e nell’aver di piglio. 105
Quivi si piangon li spietati danni:
     Quivi è Alessandro, e Dionisio fero.
     Che fe’ Cicilia aver dolorosi anni:
E quella fronte ch’ha il pel così nero
     E Azzolino; e quell’altro ch’è biondo 110
     E Guizzo da Esti, il qual per vero
Fu spento dal figliastro su nel mondo.1
     Allor mi volsi al Poeta, e quei disse:
     Questi ti sia or primo, ed io secondo.


  1. V. 112. Altri, ma pochi, han suo; malamente, perchè non fu di vero figliastro ma figlio e qui è detto figliastro per figura.




V. 103. Mostra come la giustizia di Dio punisce più e meno secondo l'offesa, come appar nel testo.1.

107. Quivi è Alessandro. Questo Alessandro fu un tiranno il quale vinse tutto il mondo, fe molte crudelitadi, com' è scritto nella sua vita; fra le quali n’è scritta una che sofferse a far morire di quelli di Jerusalem ad uno tratto LXXX milia uomini colle sue famiglie.

Ivi. Dionisio fero. Questo Dionisio fu signore dell’isola di Cicilia: fu molto crudele e fiero, e ragionasi che al suo tempo si portava per li latini barba, e costui tanto era fiero che non solo per ingiuria d’altri elli li facea disconciamente torre la barba, ma eziandio la sua elli si brustiava co’ carboni acccesi. Era questo Dionisio di tanto sospetto che sempre dubitava d’esser morto, e fra l’altre guardie ch’elli faceva, era che s’elli si giungeva a giacere con femina, e li segreti e palesi luoghi cercava temendo ch’elle non avesseno alcune arme o altro che li potesse offendere.

109. Fu messer Eccelino di Romano, lo qual fu signore di Verona, Vicenza, Padova e Trevigi, crudelissimo tiranno a’ suoi nemici; del quale si tratta più novelle, fra l’altre, l'una che 'l fe’ ardere a una ora XV milia uomini padovani. Era uomo di rustica persona, faccia orribile e pilosa.

111. Opizzo da Este. Questo casato fue gentiluomini da Esti, che sono del contado tra Padova e Ferrara: funne fatto uno di loro per la Chiesa Romana marchese della Marca d’Ancona, e stette nel ditto marchesatico a tempo. Questi seppe si menar le mani in acquistar moneta, che, quando tornò con aiutorio d’alcuni gentili da Ferrara, tolse la terra e ritennesi lo nome di marchese. Vide via di cacciar un Salinguerra di Ferrara che era grande e grentile uomo d’essa, e con l'aiutorio e trattato di Veneziani lo [p. 247 modifica]

Poco più oltre il Centauro s’affisse 115
     Sovra una gente che infino alla gola
     Parea che di quel bulicame uscisse.
Mostrocci un’ombra dall’un cauto sola,
     Dicendo: Colui fèsse in grembo a Dio
     Lo cor che in sul Tamigi ancora si cola. 120
Poi vidi genti, che di fuor del rio
     Tenean la testa ed ancor tutto il casso:
     E di costoro assai riconobb’io.
Così a più a più si facea basso
     Quel sangue sì, che coprìa pur li piedi:2 125
     E quivi fa del fosso il nostro passo.


  1. Le chiose a versi 100 e 103 sono del Ricc 1005.
  2. V 125. Dodici marciani, i frammenti e BU, il Laur XL, 7, i due Cortonesi: il Cass. BS, BP, Viv e due Pat. e sa Dio quanti altri han cocea e il Witte il prese avendo a mente quel sangue che bolliva. Ma qui si tratta del decrescere del sangue, e non della cottura. Resto col Boccaccio e co’ quattro fiorentini; e se ne vede accordanza nelle chiose lanee.




fece morire in Venezia. Poi successive dissipò lui e suoi successori tutti quelli di parte d’imperio di Ferrara: poi mise mano a quelli ch’erano stati con lui e di sua parte. Fatto tutto questo, messer Azzo da Este fe’ morire lo detto Opizzo suo padre acciò che lì romagnesse la signorìa. Possedè Ferrara, Modena e Reggio. Or lo chiama l'autore figliastro in per quello che a fare morire lo padre non è amore figliale, e però dice: fu spento dal figliastro etc.

V. 113. Cioè che lassavano andare Nesso innanzi, che era primo a Dante, e Virgilio venia dirieto a Dante, sì ch’era Virgilio a Dante secondo.

117. Come appar nel testo, procede.

118. Mostrocci un’ombra. Questa era l’anima di messer Guido di Monforte d’Inghilterra, lo quale uccise in una chiesa in Viterbo1 messer Enrico d’Inghilterra parente del re Edoardo, nell’ora quando si levava all’altare lo corpo del nostro Signore. Or fu tolto lo cuore del ditto messer Enrico da alcuni suoi parenti, e messo in una bussula, e balsamato e mandato nella sua terra che è appellata Londra, che è apresso un fiume che ha nome Tamisci, è fu fatta una immagine di marmore a similitudine del detto messer Enrico, e quella immagine tiene la detta bussula in mano: è scritto nella veste dell’immagine queste parole: Cor gladio scissum do cui consanguineus sum: cioè al re Adoardo apresenta quella immagine il cuor del ditto messer Enrico, acciò ch’elli ne faccia la vendetta.

121. Segue lo poema mostrando più tiranni, li quali erano e chi più e chi meno ad ordine nel sangue secondo ch’avevano com [p. 248 modifica]

Sì come tu da questa parte vedi
     Lo bulicame che sempre si scema,
     Disse il Centauro, voglio che tu credi,
Che da quest’altra a più a più giù prema 2 130
     Lo fondo suo, infili ch’ei si raggiunge3
     Ove la tirannìa convien che gema.
La divina giustizia di qua punge
     Quell' Attila che fu flagello in terra,
     E Pirro, e Sesto; ed in eterno munge 135
Le lagrime, che col bollor disserra
     A Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,
     Che fecero alle strade tanta guerra:
Poi si rivolse, e ripassossi il guazzo.


  1. La V., il R., i Cod. che li seguono, e M. han Napoli ma è errore palese.
  2. V. 130. Non nego che possa stare come in molti Codici più a più giù prema, più e più già prema; ma la Vind. il R e il Laur. XL, 7 hanno a più a più giù prema, che mi pare più bello, e trovano riscontro esemplare al v. l24 dov’è: Così a più a più. Questa volta, non il Witte, io seguo la Crusca, colla quale concorda il Cod. Cassinese.
  3. V. 131. II Cod. Cass. con altri ha raggiugne, pugne, mugne: ma mi schiaccia colle idee i versi. Le desinenze serbate sono le accettate dai più antichi fra cui BS, BP, BV, BF, e il Landiano.




commessomesso nel mondo peccati : a tanti vennero ch’era pure lo sangue alto tanto che covria pur li piedi; e li passò la fossa

V. 127. Qui disse Nesso a Dante: sicome tu hai veduto ealare a poco a poco lo sangue in questa parte dove siamo venuti, così sappi che 'l fondo cala da l'altra parte, cioè che v’è più alto lo sangue che mai abbiamo veduto; e in questo tal luogo sì si pasciono li tiranni. Quando li ebbe menzionato che in quel luogo più alto era Attila, Pirro, Sesto, e due Ranieri, si ripassò lo guado e ritornossene adrieto. Attila fu uno d’Ungaria, lo qual ebbe gran seguito, fu crudelissimo uomo, destrusse molte cittadi: Aquileia, Padoa, Firenze; alla fine venne in Romagna per distruggerla. Quando venne ad Ariminio, secreto e travestito entrò nella terra, e andò alla loggia dove si giuoava a scacchi: un di quelli giuoatori s’avide di lui, e dielli d’uno tavolieri su la testa, ed anciselo.

Pirro fu figliuolo d’Achille greco, e fu re d’Africa, fu grande robbatore e tiranno. Sesto fu figliuolo di Pompeio, e, secondo che recita Lucano, elli si gittò corsaro di mare, e fu crudelissimo robbatore. Questi due Ranieri furon grandi robbatori l'uno fu da Firenze, l'altro del contado di Firenze. [p. 249 modifica]


NOTA


alla pag. 238.


Androgeo figliuolo di Minosse, riportato in Atene tutti i premii ne’ Panatenei, diventò amico dei nipoti del re Egeo, ma a costui divenne sospetto, e fu ucciso. Minosse portò guerra ad Egeo. Così la storia antica. Il Laneo del Cod. M. ha — » In Greti vi fue uno re che ebbe nome Minos, molto giustissimo signore che ebbe una sua mugliera che ave nome Pasife, della quale ebbe uno figliuolo nomato Androgeo, il quale Androgeo fue mandato per lo re Minos a studiare ad Athene; e studiando lo ditto giovane, e in piccolo tempo divenuto molto esperto in scienzia ed avendo li altri scolari suoi compagni invidia di lui, uno die essendo lo ditto Androgeo colli ditti scolari suoi compagni sul palagio, la u’ studiavano quelli suoi compagni a temersi per invidia, condussero lo ditto Androgeo che non si guardava da loro, e gettorlo giù dal palagio; morio. Di che re Minos etc. » — Il Comm. attribuito a Pietro Alighieri ha: » dicti doctores fecerunt una die de quadam turri praecipitari ». — Il Cod. Cassinese ha nelle sue chiose sincrone questo:— »Sciendum est quod Minos olim rex cretensis habuit filium nomine Androgeum in genio subtilissimum et misit ipsum ad studendum Athenis ubi ita breviter in scientia profecit quod, nedum scholares, sed magistros disputando superabat, un de precipitium letale passus est ab illis: quo scito dictus Minos obsedit etc. »