Commedia (Lana)/Inferno/Canto XIII

Canto XIII

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XIII.


In questo capitolo intende l’autore trattare di quella seconda ingiuria che si fae a sé medesmo in prima, e poi alle sue cose, sicome propuose nel XI capitolo, e punisceli nel secondo cerchietto del primo girone: punisce in prima quelli che ancidono sè stessi in cotal modo, ch’elli li fa diventar àlbori senza foglie, e sopra questi àlbori fa pascere arpie, le quali sono una spezia di vermi con l’ale grandi, nere e rosse, hanno volto umano, tutto l’altro corpo è piloro a modo di topi; e queste arpie rodendo le brocche di tali arbori, fanno fori per li quali escon voci di sospiri e di lamenti, che fanno l’anime incarcerate in essi. Or fa tale transmutazione Dante per allegoria, ch’elli dice: l’uomo quando è nel mondo è animale razionale, sensitivo e vegetativo: quando ancide sè stesso, el conferisce a cotale morte solo la possanza dell’anima razionale e sensitiva, e però ch’hanno colpa in tale offesa, son privi di quelle due possanze; rimangli solo la vegetativa. Sichè di uomini si trasmutano in albori che sono animali vegetativi solo; le arpìe, han per allegorìa a significare la volontade assoluta, cioè la dr. E però, che così è contra la natura, pone l’autore che le dette arpìe sono animaletti fetidi e puzzolenti. Fa questi albori avere assai o poche brocche secondo di’ ebbe al mondo quell’anima malvagietade; fanne di quelli che sono apresso terra con molti stecchi e fogdie secche ed appellati cespuglio, quasi impacciamenti di frasche. Poi ch’ha puniti questi, punisce quelli ch’hanno gittata la sua robba, e poi ucciso sè stessi; e fanne caccia di loro facendoli perseguire e dilacerare a cagne nere, le quali hanno a significare per allegorìa: povertade e miseria, le quali sono arrabbiate condizioni. Poscia in fine del capitolo fa menzione della città di Firenze inanzi che Attila l’ardesse, e da poscia che fu rifatta sotto nome di san Jovanne Battista. E così finisce questo capitolo1. »Dividesi questo capitolo in cinque parti: nella prima parte sé continuando al presente canto, dice che Nesso centauro, che aveva loro fatta scala, non era ancora arrivato all’altra riva ritornandosi, quando Virgilio e l’autore sono entrati in un bosco dove non avea nè foglia verde nè rami schietti, ma noderosi; non frutti, ma spine tossicose; descrive questo bosco comparandolo allo bosco di Cecina e a quello di Corneto in Maremma nel qual bosco dice erano arpìe. »Nella seconda parte che comincia: Quivi è ’l buon Maestro certificasi che questo è il secondo girone nella seconda delle tre [p. 251 modifica]parti del settimo circolo d’Inferno, e dice: qui si scende questo secondo girone. Nella terza parte che comincia quivi: Io sentìa già d’ogni parte, pone l’anime delle quali introduce parlare una, cioè Piero delle Vigne cancelliere dello imperadore Federigo secondo, e qui palesa sua grandezza d’onore nella prima vita, e suo miserissimo fine. Nella quarta che comincia quivi: Però ricominciò, s’inchiere e dichiara come li spiriti violenti si fanno spini in questa selva, e se mai torna neuno nella prima forma. Nella quinta ed ultima parte introduce alcuna anima dei violenti nelle quali ad occhio sì dimostra ciò che li domandò di sopra nella quarta parte, e questa incomincia quivi: Noi eravamo. E però in questo capitolo si tratta della pena di coloro che uccidono loro medesimi ».

Circa la quale ingiuria di sè medesimo può essere questione: se l’uomo può aver odio a se medesimo o no. E perchè si possa bene avere odio a sè medesimo secondo che è scritto nel Psalmo: qui diligit iniquitatem, odit animam suam. Molti sono che amano iniquitade sì che si segue ch’elli abbiano in odio sè medesimi e l’anima sua. Ancora noi odiamo quello a chi noi vogliamo ed adoriamo male; molti sono che adovrano in sè male come quelli che s’ancideno sè stessi; dunque può l’uomo avere odio a sè medesimo. Ancora Boezio dice, secundo De Consolazione, che l’avarizia fa l’uomo odioso per la qual si segue che ogni uomo ha in odio l’avaro: certo è che molti sono avari, e cognoscensi avari; dunque quelli odiano sè medesimi. In la contraria opinione è san Paolo ad Ephesios V.nemo unquam carnem suam odio habuit. Alla quale questione responde san Tommaso nella prima parte della seconda questione 29, articolo 8: ch’ell’è impossibile naturalmente che l’uomo possa avere odio a sè stesso, perchè naturalmente l’uomo ha appetito di bene perchè avere appetito di male è di fuora e senza la volontà, sicome dice Dionisio, 4, De divinis nominibus: ―aliquem amare est velle ei bonum. Per la qual cosa è necessario che l’uomo ami sè medesimo: ed è impossibile che l’uomo naturalmente abbia odio a sè: ma aviene bene che l’uomo può odiare sè medesimo; e questo è per accidente, e può essere in due modi.

Lo primo è da parte di quel bene ch’altri vuole, credendo ch’elli sia bene, ed ell’è simpliciter male: siccome appare nel testo di questo capitolo di Dante introducendo a parlare Pietro delle Vigne che disse: credendo col morir fuggir disdegno: credendo fuggire disdegno, che è apparenza di bene, cadde ad ancidersi sè stesso, che è pessimo male.

L’altro modo d’accidente che l’uomo può avere odio a sè medesimo si è in questo modo di estimare secondo la sensualità e li appetiti corporei lo bene. E in questo modo elli odiano sè stessi, in quanto non adovrano secondo lo intelletto ragionevole; e però quelli che amano la iniquitade, giudicano pure per lo sensitivo, e perciò odiano l’anima sua. Sichè chiaro appare che per accidente e non naturalmente lo uomo odia l’anima sua; ed è assoluzione al primo argomento.

Lo secondo argomento si solve che quelli che si ancideno per se stessi, non lo fanno in quanto far male, ma credono far bene. [p. 252 modifica]Vero è ch’elli errano ch’ elli estimano che sia meglio per schifar miseria e dolore al mondo ad ancidersi, che a stare in vita: sì in quanto la morte è termine di dolore e miseria in questo mondo è bene, ma ad ancidersi sè stesso è troppo più grande carico.

Lo terzo argomento si solve ch’elli è ben vero che l’avaro ha in odio alcuno suo accidente, dichiamo quello dell’avarizia, non si segue perciò ch’elli abbia in odio sè medesimo; sicome lo infermo, lo quale ha a odio la sua malizia e a sè stesso vuol bene.

Ed è vero che 1’avarizia fa l’uomo odioso d’altri, ma non di sè stesso, che anche l’avarizia cagione è de l’ordinato amore de’ beni temporali e di volerne più che di ragione non li tocca.

Detto dell’intenzione del capitolo è da esponere lo testo in quelle parti dov’è mestieri.


on era ancor di là Nesso arrivato,
     Quando noi ci mettemmo per un bosco,
     Che da nessun sentiero era segnato.
Non frondi verdi, ma di color fosco,
     5Non rami schietti, ma nodosi e involti,
     Non pomi v’eran, ma stecchi con tosco.
Non han sì aspri sterpi nè sì folti
     Quelle fiere selvagge, che in odio hanno
     Tra Cecina e Corneto i luoghi colti.
10Quivi le brutte Arpìe lor nido fanno,
     Che cacciar delle Strofade i Troiani
      Con tristo annunzio di futuro danno.




V. 1. Non era ancor di là. Qui mostra com’erano ancora solliciti che innanzi che Nesso, lo qual li avea scorti, fosse all’altra riva della fossa, elli cominciavano ad entrare nel bosco, il quale non pare che fosse molto frequentato da viandanti, sichè non era nè strada, nè sentiero, nè carreggiata, nè battuta di cavalli.

4. Segue suo poema mostrando ch’erano arbori, li quali erano senza ogni ridere di verdura: e soggiunge ch’erano fatti a modo di spini, che hanno tossecose le punte.

9. Corneto è un castello che è in terra di Roma sovra mare in lo patrimonio di san Pietro e distante per più miglio da Cecina, nella qual distanza non à altro che boschi molto folti.

10. Arpie sono animali con ale, e sono pilose come è ditto, e sono fetide e puzzolenti: dice che hanno li lor nidi su li alberi del predetto bosco, e tranne di lì lor vita.

11. Descrive Virgilio in lo Eneidos che Enea arrivò, quando si partì da Troia all’isola delle Strofade che è in l’ Arcipelago ch’è [p. 253 modifica]

Ale hanno late, e colli e visi umani,
     Piè con artigli, e pennuto il gran ventre:
     Fanno lamenti in su gli alberi strani. 15
E ’l buon Maestro: Prima che più entre,2
     Sappi che se’ nel secondo girone,
     Mi cominciò a dire, e sarai, mentre
Che tu verrai nell’orribil sabbione.
     Però riguarda bene , e sì vedrai 20
     Cose, che torrìen fede al mio sermone.*
Io sentìa da ogni parte traer guai,*
     E non vedea persoua che l’ facesse;
     Perch’io tutto smarrito m’arrestai,
I’ credo ch’ei credette ch’io credesse, 25
     Che tante voci uscisser tra que’ bronchi
     Da gente che per noi si nascondesse.
Però, disse il Maestro, se tu tronchi
     Qualche fraschetta d’una d’este piante,
     Li pensier ch’hai si faran tutti monchi. 30
Allor porsi la mano un poco avante,
     E colsi un ramoscel da un gran pruno: 3
     E il tronco suo gridò: Perchè mi schiante?

  1. Siccome lutto il Proemio dell’Ottimo è questo stesso del Lana, ho con esso riempiuto il vuoto dei Codici e della stampa meircè questo tratto chiuso da doppie virgnole che non è nei Cod. del Lana.
  2. V. 21. Chi confronti il testo colla glossa vede che si tratta di cosa quasi incredibile; e dell’incredulità dice poi al v. 50; perciò scarto il daran dei quattro fiorentini e resto colla Nidobeatina e colla Vind. col Land, i tre dell’Archig. col Laur. XL, 7, col Cass. anche fuggendo il torrian del Rice, del Cortonese e di
    quello servito all’Imolese che non è di verbo che ha 1’ infinito in ere.
  3. V. 32. È una inezia: ramicel, ramiscel, ramuscel ne’ varii Cod. Qui si parla di uno, e il positivo è ramo; accetto ramoscello, com’ è nel Riccard. 1005.




in Romania, e lìe volendo dare agio a sua gente, dismontò a terra, trovolli tante delle dette arpìe che per la puzza e fetore con la sua gente si convenne partire: vero è che poetando mette Virgilio che la donna delle dette arpìe parlò con Enea, e predisseli di tutto quello che li dovea avenire in Italia, fra le quali novelle fue di quelle che non piacquero ad Eneas.

V. 13. Ale hanno late, e colli e visi umani. Descrive sua figura. 16. Qui mostra com’è nel secondo girone com’è detto, e segue lo poema mostrando ch’è quasi incredibile in la sua metafora.

27. Qui bisticcia per introdurre diletto allo studente , mostrando Dante ch’elli credea che Virgilio credesse ch’elli credesse che quelle voci e lamenti, che si udìano, fusseno di gente ascosta per paura di loro tra questi sterpi e brocchi.

28. Qui soggiunse a tal credere che Virgilio disse: se tu tronchi, cioè scavezzi, uno di quelli brocchi, ciò è brocco over fraschetta, tutti quelli pensieri che hai, saranno monchi , cioè sarannoti palesi nella veritade. [p. 254 modifica]

Da che fatto fu poi di sangue bruuo,
     Ricominciò a gridar: Perchè mi scerpi? 35
     Non hai tu spirto di pietate alcuno?
Uomini fummo; ed or sem fatti sterpi:
     Ben dovrebb’esser la tua man più pia,
     Se state fossim’anime di serpi.
Come d’un stizzo verde, che arso sia 40
     Dall’un de’ capi, che dall’altro geme,
     E cigola per vento che e va via:
Sì della scheggia rotta uscìen insieme 1
     Parole e sangue, ond’io lasciai la cima
     Cadere, e stetti come 1’ uom che teme. 45
S’egli avesse potuto creder prima,
     Rispose il Savio mio, anima lesa,
     Ciò ch’ha veduto pur con la mia rima ,
Non averebbe in te la man distesa;
     Ma la cosa incredibile mi fece 50
     Indurlo ad ovra, che a me stesso pesa.
Ma dilli chi tu fosti, sì che, in vece
     D’alcuna amenda , tua fama rinfreschi
     Nel mondo su, dove tornar gli lece,
E il tronco: Sì col dolce dir m’aeschi, 2

55
  1. V. 45. Leggo col Codice Cassinese che qui mi par ben giusto, coi frammenti bolognesi e i due interi dell’Università, col Land, il Marciano LII, e il Viviani
  2. V. 55. Coll aiuto dei Frammenti danteschi dell’Università bol. scemo il malo suono del do-di-de che esce da chi scrive adeschi

V. 37. Uomini. Qui mostra che furono uomini intellettivi ed ora erano sterpi , cioè pur vegetativi. 38. Pia, cioè piatosa. 41. Dall’altro, cioè da quel capo che non è arso. 42. Qui esemplifica l’autore quello tronco e nota che fa uno stizzo verde ardendo sì che l’umido che è dentro lo legno per lo calor del fuoco si rarefà e diviene aere, il quale aere volendo trovare al naturale luogo impigresi per uscire fuori1, e trovando intoppo d’umido non rarefatto bisognali più largo luogo, sì ch’esce con quello impeto fuori, sicome mostra lo Filosofo in la Meteora. 43. Qui fa la comparazione secondo lo suo poema. 46. Qui parla Virgilio persuadendo l’anima del tronco, per indurlo a benivolenza di respondere a Dante. 52. Quasi a dire che li dannati voglino volentieri che di loro sia al mondo memoria. 55. Segue lo poema come appar nel testo.

  1. Corretto il passo coll’ Ottimo che, com’ è detto in fine, qui è tulto Lana.
[p. 255 modifica]<poem>
    Ch’io non posso tacere; e voi non gravi
    Perch’io un poco a ragionar m’inveschi.

Io son colui, che tenni ambo le chiavi

    Del cor di Federigo, e che le volsi
    Serrando e disserrando si soavi, 60

Che dal segreto suo quasi ogni uom tolsi:

    Fede portai al glorioso ufizio.
    Tanto ch’io ne perdei le vene e i polsi.1

La meretrice, che mai dall’ospizio

    Di Cesare non torse gli occhi putti, 65
    Morte comune , e delle corti vizio,
  1. V. 63. Qui è grande questione tra chi accetta vene e chi sonni. Alcuno codice è, come il LII marciano, il parmense 18, e 1’ ed. 1472 Mantova, portatore di sensi; la iesina, il Cod. Filippina hanno sonni, e la ediz. di Roma sonno; e al sonni molti sono. La stessa Vindolina e il Rice hanno i lor lesti col sonno; ma non è cosi ne’ Commenti. I commenti hanno vene; e vene ha il Cod. parmense del 1575, e v’è di più che questa forma o frase è già espressa al v. 90 del Canto prima dov’è un esempio della Tav. ritonda A quello esempio si possono aggiungere i due altri di pag 110 e 5-2 , e aver occhio alla pag. 505 dello stesso testo che dà le arterie per circustanze del cuore. Il Gregoretti con molta ragione notò che » A chi muore si arresta nelle vene la circolazione del sangue, e il moto di esso nelle arterie, il quale come allora i medici credevano, fa battere i polsi, io sto colle vene e i polsi, cioè come Lana dice il sangue e lo spirito.

V. 58. Costui fue Piero delle Vigne cancellieri dello imperadore Federigo secondo, lo quale era per lo suo offizio segretario del detto Imperadore, ed era tanto inanzi alla corte, che elli più volte scrisse e rispuose a lettere lo si e ’l no, come parca a lui: e seppe fare sì ch’altri non era del segreto consiglio dello Imperadore se non lui. Or per invidia fue accusato allo Imperadore ch’ elli avea revellato a papa Innocenzio alcuni segreti dello Imperadore , non essendo in vera amistà l’uno con l’altro: sichè lo Imperadore lo fe’ prendere, e fèllo abacinare , e questo fu a San Miniato del Todesco; poi in processo di tempo facendolo portare a Pisa in su uno asino lo Imperadore, fu per li somieri tolto giuso, e messo ad uno ospedale perchè reposasse, e questo battè tanto lo capo al muro che morì1. 62. Qui si scusa Piero predetto che non fe’ la detta rivelazione; anzi durò tanta fatica nel predetto offizio che ’l ne perde e vene, cioè sangue, e polsi, cioè spirito. 64. Qui intende la invidia che è tra famigliari e consiglieri. 65. Dì Cesare, cioè Imperadore. 66. Morte, cioè che è comunemente delle sorti de’ baroni.

  1. Jacopo Dante il fa percoter il capo in muro nel borgo (fossa) arnonico. Il Laur. XXVI, sin 2 nulla dice dello abbacinamento nè della morte. Il Cod. Grumello tace di tutto dopo l’ accecamento. Il Catalogo dell’esposizione letterata pel centenario sesto di Dante avverte che un Ms. pisano del secolo XIV, e parvente del primo tempo, ha che Pier dalle Vigne si gettò da un mulo a terra e spaccossi il cranio, e mori in S. Andrea , per non essere lapidato.
[p. 256 modifica]<poem>Infiammò contra me gli animi tutti,
     E gl’infiammati infiammar sì Augusto,
    Che i lieti onor tornaro in tristi lutti.

L’animo mio per disdegnoso gusto , 70

    Credendo col morir fuggir disdegno,
    Ingiusto fece me contra me giusto.

Per le nuove radici d’esto legno

     Vi giuro che giammai non ruppi fede
    Al mio signor , che fu d’onor sì degno. 75

E se di voi alcun nel mondo riede ,

    Conforti la memoria mia, che giace
    Ancor del colpo che invidia le diede.

Un poco attese, e poi: Da ch’ei si tace,

    Disse il Poeta a me, non perder l’ ora; 80
    Ma parla, e chiedi a lui se più ti piace.

Ond’io a lui: Dimandal tu ancora

    Di quel che credi che a me soddisfaccia;
    Ch’io non potrei : tanta pietà m’accora.

Però ricominciò : Se l’uom ti faccia 85

    Liberamente ciò che il tuo dir prega,
    Spirito incarcerato, ancor ti piaccia

Di dirne come l’ anima si lega

    In questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
    S’alcuna mai da tai membra si spiega. 90

Allor soffiò lo tronco forte, e poi

    Si convertì quel vento in cotal voce,
    Brevemente sarà risposto a voi.

Quando si parte l’ anima feroce

    Dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta, 95
    Minos la manda alla settima foce.

<poem>


V. 67. Infiammò, cioè che tutti i famigliari lo invidiavano. 68. Cioè li famigli infiammar si Augusto cioè lo Imperadore. 69. Cioè che fu primo d’onore e trovossi in tristi disonori. 70. Qui mostra che credendo con suo moi’ire fuggire disdegno, si uccise e però dice: ingiusto feci me, cioè io mi feci cosa ch’era ingiusta: contra me giusto, cioè contra me che non aveva peccato. 73. Qui si scusa con sagramento come appar nel testo. 76. Qui priega che sua memoria sia scusata nel mondo tra i vivi. 82. Ond’io a lui, cioè che volle che Virgilio lo domandasse in che modo l’anime si trasmutavano in sterpi, e perchè e se mai alcuna è mutata ad altra pena. 91. Qui poetiza e proemiza alla risposta. 94. Cioè quando 1’ uomo muore, l’ anima, che andar dee la giuso, va dinanzi a Minos, com’è detto nel V caipitolo. [p. 257 modifica] <poem>Cade in la selva, e non l’è parte scelta;

    Ma là dove fortuna la balestra,
    Quivi germoglia come gran di spelta;

Surge in vermena, ed in pianta silvestra: 100

    L’Arpie, pascendo poi delle sue foglie.
    Fanno dolore, ed al dolor finestra.

Come l’altre, verrem per nostre spoglie,

     Ma non però ch’alcuna sen rivesta:
    Che non è giusto aver ciò ch’uom si toglie. 105

Qui le strascineremo, e per la mesta

    Selva saranno i nostri corpi appesi.

Ciascuno al prun dell’ombra sua molesta. Noi eravamo ancora al tronco attesi,

     Credendo ch’altro ne volesse dire; 110
    Quando noi fummo d’un romor sorpresi,

Similemente a colui, che venire

    Sente il porco e la caccia alla sua posta,
    Ch’ode le bestie e le frasche stormire.

Ed ecco duo dalla sinistra costa, 115


V. 97. Cioè non stanno ad ordine, ma tutti lì dove la fortuna li trabucca , quivi gernioglia, (qui si trasforma, e fassi vegetativo animale. 100.Surge in vermena. Sì come li alberi che sono prima vergella. 101. Cioè li animali predetti li cibano. 102. Cioè che li fanno pena e fanno li fòri onde la voce esce. 103. Qui dice che verranno al die del giudicio si come le altre anime per li suoi corpi; ma 1’altre si vestiranno di suo corpo, e queste no: e parla poeticamente o fingendo pone che la ragione si è che non è giusto ad aver quello che lo uomo medesimo si tolle lui stesso. 106. Cioè che li strascineranno fino alla selva, e sarà appenduto ad essa, cioè ad uno delle loro frasche; e così staranno dopo il dì del giudizio. 109. Poich’è detto di quelli che sè stessi uccidono, qui intendeno di dire di quelli ch’uccidono e gettano lo suo onore ed avere, e poi infine si privano della vita. Dice che stanno ancora apresso lo sterpo. Segue lo poema, come appar nel testo, facendo comparazione al romore che fa nel bosco lo porco che è cacciato. 115. Qui si fa menzione di due, li quali dissiparono lo suo avere ed onore e poi la vita. E pone ch’elli erano cacciati da cagne nere e bramose, le quali per allegoria hanno a significare la miseria e la povertà, le quali nel mondo elli andavano cacciandole l’autore per opposito fa che le predette cagne perseguano loro. Questo Lano fu uno gentile uomo giovane da Siena , lo quale rimase ricchissi [p. 258 modifica]<poem>

    Nudi e graffiati fuggendo sì forte
    Che della selva rompièno ogni rosta.

Quel dinanzi: Ora accorri, accorri, morte.

    E l’altro, a cui pareva tardar troppo,
    Gridava: Lano , sì non furo accorte 120

Le gambe tue alle giostre del Toppo.

    E poiché forse gli fallìa la lena.
    Di sé e d’un cespuglio lece groppo.

Dirietro a loro era la selva piena

     Di nere cagne bramose e correnti, 125
    Come veltri che uscisser di catena.

In quel che s’appiattò miser li denti,

    E quel dilaceraro a brano a brano;
    Poi sen portar quelle membra dolenti.

138. Lezione presa dai tre universilarii bolognesi, da BS. BP. dal Laur. XL, 7 e dal Landiano

mo del padre, e seppe tener tal vita che in poco tempo elli si trovò in grande povertà. Essendo all’oste che fecen li Fiorentini con li Senesi alla Pieve al Toppo, ed essendo lo detto Lano nell’oste de’ Senesi, pensando ch’elli avea strutto lo suo ed era in gran miseria, elesse di voler morire inanzi che vivere; disperatamente si mise entro li nemici, e lì fue morto. Lo secondo fu un Jacomo de Santo Andrea padovano, lo qual similemente dopo la morte del padre rimase ricchissimo, dissipò lo suo avere in mali e viziosi modi, fra i quali se ne conta uno , che li venne voglia di vedere un gran fuoco in una sua villa ch’era tutta sua, e stava dal largo a vedere ardere le case. Cotali erano li suoi appetiti. Or mette l’autore nel testo che questi due veniano fuggendo , adrieto le cagne li perseguìano. Qui, come appar nel testo, Lano venia innanzi fuggendo, e tutto graffiato dalli sterpi, e gridando dicea: accorri, accorri morte: quasi a dire che nel mondo volontario andò alla morte. V. 119. Cioè lo predetto Jacomo lo veniva rampognando e dicea: se tu fossi stato si corrente alla Pieve al Toppo , tu saresti ben scampato. 122. Qui seguendo suo poema dice che fallita la lena , cioè la forza al detto Jacomo, percosse in un cespuglio ed agrappossi in esso, cioè s’ascose in esso: questo cespuglio era uno avilupamento di frasche , nel quale , sicome nelli altri albori del predetto bosco, erano anime: così similemente questo cespuglio era una anima. Or ricoverato lo detto Jacomo nel predetto cespuglio, le cagne furon sovra, e tutto lo dilacerarono e ruppeno e preseno le membra del detto Jacomo, e portonnole a brano a brano, cioè a membro a membro. [p. 259 modifica] <poem>Presemi allor la mia scorta per mano, 130

    E menommi al cespuglio che piangea,
    Per le rotture sanguinenti, invano.

O Jacomo, dicea, da Sant’Andrea,

    Che t’è giovato di me fare schermo?
    Che colpa ho io della tua vita rea? 135

Quando il Maestro fu sovr’esso fermo,

    Disse: Chi fusti, che per tante punte
    Soffi con sangue doloroso sermo? 

E quegli a noi: anime che giunte

    Siete a veder lo strazio disonesto, 140
    Ch’ha le mie frondi sì da me disgiunte ,

Raccoglietele al piè del tristo cesto:

    Io fui della città che nel Batista

Mutò ’1 primo patrone: ond’ei per questo 1

  1. V. 144. Scrivo Patrone e non Padrone perchè non è Signore, ma Protettore; Witte volle prender Patrono che, sebbene oggi comune e nel Lana, stenterebbe a risarcirsi d’ autorità nelle origini; e adotto mutò e perch’è di tutti gli antichi ed è nel Lana, e perchè lo smettere l’ uno e prender 1’altro fu opera d’uno stesso soggetto; il cangiare o cambiare domanderebbe chi diede prendendo il reso.

V. 130. Dice come Virgilio lo menò apresso allo cespuglio, lo qual piangeva e lamentavasi perch’era così rotto e squarciato. 133. Queste parole erano dell’anima, ch’era nel cespuglio transmutata, la qual si lamentava del suo danno e nella innocenza ch’avea della vita rea del predetto Jacomo. 136. Qui segue suo poema narrando chi era, cioè l’anima del cespuglio. 142. Qui li pregava ch’elli raunasseno le frondi sparte, soggiungendo com’era fiorentino. E dicelo in tal latino. 143. Io fui della città. Qui recita sotto brevità come Firenze al tempo de’ suoi edificatori, ch’erano pagani, la edificonno sotto constellazione bellica, e guardonno in costruzione d’essa di fortificare quel pianeta che eecundo li giudizii d’astrologia hae a significare vittoria acquistata per battaglia, cioè Marte, e però dice l’istoria che ’l patrono di Fiorenza era in lo primo tempo Mars: e questo per allegorìa vuol dire l’autore che Firenze triunfava per battaglie , e non metteva altro mezzo nelli suoi affari che farla con le mani. Mutossi poi legge nell’umana gente che discese lo Figliuolo di Dio nella vergine; e cosi mutò patronatico la detta città, la quale tolse per suo patrono san Joanni Baptista. Or qui per allegorìa l’autor mostra la qualità dei fiorentini dopo il primo reggimento, cioè di poi in li non mettea ne’ suoi affari altro fare che a duello, e pone per locum a simili che sicome tra

[p. 260 modifica]

Sempre con l’arte sua la farà trista: 145
     E se non fosse che in sul passo d’ Arno
     Rimane ancor di lui alcuna vista;
Quei cittadih, che poi la rifondarno
     Sovra il cener che d’Attila rimase,
     Avrebber fatto lavorare indarno. 150
Io fèi giubetto a me delle mie case.




li altri discipuli e fedeli ch’ebbe le nostro Signore , san Joanni Baptista fue salvatico ed astratto da ogni conversazione e vita umana, così li fiorentini sono astratti, diversi, selvatichi e crudi a comparazione di tutti li altri umani atti.

V. 146. Cioè che in sull’Arno in capo del ponte vecchio è 1 un’imagine di Marte, per la quale Marte non ha proceduto con sua arte ad averso d’essa, cioè con battaglie, indarno 1’ arebbono riedificata quelli che la rifenno dopo quando l’Attila l’arse, ciò vuol dire ella sarebbe nuovamente disfatta; e perciò dice: avrebber fatto lavorare indarno. Or questa imagine hae per allegorìa a significare li Buondelmonti, li quali sono gentili ed armigeri uomini, li quali hanno per lo seguir lo primo modo di Firenze, cioè di farla con mano, mantenuta la terra in la detta arte, ed oggi non disfatta.

151. Posciachè l’anima del cespuglio ebbe toccato dello stato di Firenze, qui tocca del suo proprio, e dice che fé’ delle sue case giubbetto. Giubbetto è in Parigi una casa nella quale si fa la giustizia per la pubblica Signoria: lì si taglia teste, lì si impicca, lì si procede nella persona de’ malfattori per la ragione pubblica. Or dice 1’anima del cespuglio ch’elli fece delle sue case a sè giubbetto , cioè che si apiccò sé stesso. Ora è da notare che l’autore non fa menzione più in singularità chi sia costui; e puollo muovere due cagioni.

La prima è che poichè li ha detto ch’elli fue fiorentino, è assai notorio che nel suo tempo fue messer Lotto delli Agli, lo quale era nominato giudice d’una falsa sentenza: per quel dolore s’apiccò elli stesso colla sua cintura d’ariento (3).

  1. Notato e notabile sta questo è per l’antichità del Commento. Il Laur. XXVI, Sin 2 ha que residet super caput pontis Arni; e il Cod. Grumello Ilic subicit dictus Jacobus de sancto Andrea quod nisi una statua iterum in dieta civitate » esset que est super caput pontis arni et que iterum reputant dictum Martem». Dalla parola signoria sino a questo richiamo è difetto nel Codice Laur. XC. 115. Ma da essa fino a sè stessa par glossema di copista Non nega l’ Ottimo, e ripete il Cod. Cassinese che tale fosse l’infelice, ma 1’Ottimo, i Cod. P. e S. 160 delle Chiose anonime e Benvenuto da Imola e il Bargigi avvisano ch’era voce anche essere stato Racco de’ Mozzi di Firenze il quale di molto ricco divenuto poverissimo, volle finire sua vita anzi l’ultima miseria nel modo detto di sopra. Il Laur. XL, 7 dice che fu uno giudice della casa degli Agli che s’impiccò da sé colla sua cintura d’argento per lo ismisurato dolore d’una falsa sentenza , la quale colui aveva data disavvedutamente.
[p. 261 modifica]L’altra si è che questo vizio si può applicare a più di quella terra: quasi a dire ch’ella n’è molto viziata. E perchè li esempli

in la presente Comedia sono posti ad intelligenzia dello studente, quello esemplo che li è più notorio è da tòrre, acciò che possa più perfettamente cogliere la intenzione del poema; perciò li dà larghezza ch’elli toglia per esemplo di quelli che lo predetto studente sae. E qui compie la intenzione del tredicesimo capitolo.



Nota. L’Ottimo ha del Commento Jacopo della Lana tutto intero il Proemio a questo canto, salvo qualche variazione di parola, e alcuno errore di copia, o di lettura. Nel corpo della glossa ha poi del Lana quella parte che rischiara il verso 42.